Introduzione a Ascesa e declino dell’impero statunitense

Pubblichiamo questa introduzione dell’autore con brani tratti dal volume di A. Pascale, Ascesa e declino dell’impero statunitense, vol. 1 – Genesi di un regime elitario (dalle origini al 1945), La Città del Sole-L’AntiDiplomatico, Napoli/Potenza 2022, pp. 17-26. Info su Intellettualecollettivo.it]


Introduzione a Ascesa e declino dell’impero statunitense

Nell’introdurre un volume dello storico inglese Frank Thistlethwaite, Vittorio De Caprariis affermava oltre mezzo secolo fa che “la storia americana è assai poco conosciuta e assai poco studiata in Europa”: “come dimenticare che sui banchi del liceo si abbandonavano i coloni vincitori all’indomani della loro rivoluzione e della loro guerra d’indipendenza […] per ritrovarli, poi, misteriosamente cresciuti al rango di grande potenza mondiale nel 1917? Forse v’era di mezzo qualche stampa che rappresentava Abramo Lincoln nell’atto di spezzare le infami catene che tenevano avvinti gli schiavi dei gran signori del Sud”. 

Certo, già allora non mancavano pregevoli opere di ricostruzione storica, oggi sicuramente aumentate, ma l’impressione è che oggi come ieri la storia statunitense non sia “penetrata nel patrimonio culturale e morale degli studiosi con la stessa profondità e vibrante intensità di altre esperienze storiche, e meno ancora ha varcato il ristretto ambito degli specialisti” [1]. La distruzione sistematica della scuola pubblica, in atto da oltre un trentennio nel nostro paese, non ha fatto che accentuare tale problematica, accentuata dalla condizione di sudditanza semi-coloniale in cui ci siamo trovati dopo la seconda guerra mondiale. 

Il processo di rimozione dei crimini statunitensi parte quindi da molto lontano, e ha potuto manifestarsi pienamente solo con la complicità degli intellettuali “liberali”: nel 1959, riflettendo sulla questione razziale statunitense, Hannah Arendt scriveva impunemente che “il colonialismo e l’imperialismo delle nazioni europee” sono il “grande crimine nel quale l’America non è mai stata implicata”. Polemizzando con simili osservazioni sostenute da altri nomi importanti come Giovanni Sartori, il giovane ricercatore Leonardo Pegoraro ricorda che “è solo sul fondo scuro di questa immane rimozione che può stagliarsi il ritratto esaltatorio ed encomiastico dei «paesi anglosassoni», queste innate «civiltà democratiche», di cui specialmente gli Stati Uniti rappresentano «la più antica e al tempo stesso la più riuscita delle moderne democrazie»”[2]. 

Qualcuno ha obiettato con buone argomentazioni sul fatto che gli Stati Uniti siano realmente una democrazia. Il politologo Sheldon S. Wolin ha ricordato come le pulsioni antidemocratiche fremano lungo tutto il corso dell’esistenza del paese: “il sistema politico americano non è nato democratico; semmai ha avuto sin dall’inizio inclinazioni antidemocratiche. Chi lo ha messo in piedi era o scettico o addirittura contrario alla democrazia. Il cammino democratico è stato lento, in salita, sempre incompiuto. La Repubblica era già in piedi da tre quarti di secolo quando finalmente si pose fine alla schiavitù formale, e ci sono voluti altri cento anni prima che agli americani di pelle nera fosse riconosciuto il diritto di voto. Soltanto nel XX secolo le donne hanno ottenuto il voto e i sindacati il diritto alla contrattazione collettiva. In nessuno di questi casi la vittoria è stata completa: le donne non hanno ancora una piena parità, il razzismo resiste e la distruzione di ciò che resta dei sindacati rimane un obiettivo strategico delle grandi imprese. Tutt’altro che innata, la democrazia in America è stata digerita a mal partito, andando a scontrarsi con le forme stesse dell’ordinamento passato e presente del potere politico ed economico” [3].

La democrazia statunitense, oltre a non essere “innata”, nella sostanza non è mai realmente esistita. Come è possibile fare una simile affermazione? In realtà molti lo sanno e non ne fanno un dramma, ma ritengono utile che non si sappia, perché verrebbero offuscati i grandi miti del “sogno americano”, della democrazia liberale e del sistema capitalistico. Aspetti che negli USA sono strutturalmente interconnessi, appoggiandosi su una sovrastruttura calvinista che ha identificato l’obiettivo individuale e nazionale nel progresso economico e nella ricchezza: “al centro dell’autoconsiderazione nazionale e personale degli americani è stato l’orgoglio per il conseguimento di obiettivi materiali […]. Quella americana è stata per eccellenza una società fondata su modelli imprenditoriali” [4]. 

Gli USA sono un paese borghese fino al midollo, anzitutto perché la mentalità dominante, dalle origini ad oggi, è di tipo borghese. Per molto tempo anche le voci critiche hanno assolto il popolo statunitense, giudicato vittima innocente del dominio di poche élite in grado di controllare completamente il potere politico, economico, sociale e culturale. Questa versione appare oggi quantomeno inadeguata e necessita un’importante revisione: se è vero infatti che esiste un potere elitario che costituisce il vero motore decisionale dei principali processi riguardanti la vita del paese, è altrettanto indubbio che sia sempre esistito un vasto fronte sociale che, per pratica o mentalità, ha fondato il proprio “sogno americano”, ossia la propria scalata sociale, all’insegna del mors tua, vita mea. La società statunitense si è configurata realmente come un perpetuo selvaggio far west, in cui più che in ogni altro luogo si è svolta una guerra giocata sulla concorrenza e la sopraffazione, con conseguenze durature nel tessuto culturale e forse antropologico della base dominante WASP

Gli Stati Uniti d’America, lungi dal costituire una “democrazia”, sono stati in effetti una versione appena più liberale del nazismo, costituendone il principale precursore storico, e superandolo nel tempo. Gli storici liberali riconoscono che gli USA hanno avuto la loro stagione imperialista, ma la limitano dal 1898 agli anni precedenti il New Deal. È difficile negare l’innegabile, quando nel 1935 uscivano libri come War Is A Racket (La guerra è un’attività criminale), in cui l’autore, Smedley D. Butler, un Maggiore Generale in pensione del Corpo dei Marines degli Stati Uniti, si esprimeva così: “ho passato 33 anni e 4 mesi in servizio militare attivo, e durante questo periodo ho speso la maggior parte del mio tempo come uomo di fatica di alto profilo per il Grande Mercato, per Wall Street e per le banche. In pratica ero un estorsore, un gangster a servizio del capitalismo. Nel 1914 ho contribuito a rendere il Messico e specialmente Tampico un terreno sicuro per gli interessi petroliferi americani. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba luoghi convenienti per fare affari per i ragazzi della National City Bank. Ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche del Centro America a beneficio di Wall Street. Tra il 1902 ed il 1912 ho contribuito a purificare il Nicaragua per la banca internazionale d’affari Brown Brothers & Co. Ho portato la luce in Repubblica Dominicana, nel 1916, per gli interessi americani nella produzione di zucchero. Nel 1903 ho dato una mano a rendere l’Honduras un buon posto per le compagnie statunitensi della frutta. Nel 1927 in Cina ho dato il mio contributo per fare in modo che la Standard Oil potesse continuare ad operare indisturbata. Guardando indietro, avrei potuto dare alcuni buoni suggerimenti ad Al Capone: il meglio che era riuscito a fare era estendere il suo racket a tre distretti; io ho operato in tre continenti” [5].

La storia del periodo imperialista “isolato” e accidentale non regge. Le origini della potenza statunitense erano d’altronde ben note già negli anni ’30 a chi avesse voglia di guardare. Tina Achilli, introducendo un saggio interessante (uscito in piena seconda guerra mondiale: L’imperialismo americano oggi, 1943) di uno dei maggiori esperti tedeschi di americanistica, Friedrich Schönemann, notava come emergesse da tale analisi la consapevolezza di “una storia di espansione progressiva delle basi del dominio e dello sfruttamento, che affonda le radici nella struttura del capitalismo americano, e le cui tappe procedono nel ritmo dello sviluppo di quest’ultimo a partire da un periodo di gran lunga precedente il 1898, cui si era soliti attribuire gli inizi imperialistici della potenza americana” [6]. Un quadro confermato da un noto rappresentante della New Left statunitense: “le conquiste, i problemi e le tragedie della storia americana sono visti come derivanti dalle necessità e dalle capacità del capitalismo americano di espandersi e di sfruttare con modalità sempre diverse. […] Le pretese del capitalismo alla legittimità si fondano sulla sua presunta capacità di accrescere la produzione e la libertà. Ma l’incremento produttivo che esso genera è stato raggiunto a costo di gravissime distorsioni arrecate allo spirito e alla natura umana e i suoi prodotti vengono distribuiti in modo altrettanto squilibrato e ingiusto quanto le sue libertà. Quando si è posta la scelta fra il mantenimento del potere capitalistico e la riduzione delle libertà umane – alternativa che si è presentata molte volte – la libertà ha ceduto il passo al potere” [7].

Questo è il dato centrale. La società capitalistica si fonda su una società diseguale e su una precisa gerarchia che deve sempre avere a disposizione uno strato consistente di disperati e “sub-umani”. In passato il professor Herbert Gans ha elencato le diverse funzioni che assolve la presenza di una povertà permanente: “1) l’esistenza della povertà assicura lo svolgimento delle attività più degradanti che la società richiede; 2) i salari molto bassi dei poveri sussidiano un insieme diversificato di attività economiche di cui beneficiano i ricchi (domestici, ad esempio), e gli indigenti pagano in tasse somme sproporzionate rispetto al totale […]; 3) la povertà crea occupazione per individui di reddito medio che «servono» i poveri stessi: operatori sociali, guardie carcerarie, ecc.; 4) i poveri acquistano merci che altri non comprerebbero, il che costituisce un vantaggio per coloro che le producono e le vendono. Queste quattro funzioni costituiscono lo sfruttamento economico dei poveri, le nove rimanenti sono di carattere sociale e politico. Queste comprendono l’automatico elevarsi della posizione morale e sociale permesso alla classe media dai propri atteggiamenti nei confronti dell’indigenza; l’assorbimento da parte dei poveri dei costi del mutamento socio-economico, essendo questi privi del potere di compiere scelte alternative […]; la loro disponibilità come carne da cannone in caso di guerra e il loro utilizzo come base delle argomentazioni contro mutamenti sociali di tipo liberale o di sinistra” [8].

La storia degli Stati Uniti potrebbe essere tranquillamente riassunta dalla seguente massima di Adam Smith: “la libertà dell’uomo libero è la causa della grande oppressione degli schiavi” [9]. È chiaro però che gli schiavi non amano restare tali. Anche da questo punto di vista la storia statunitense offre ottime risposte sui meccanismi perversi che si creano: “come vengono mantenute simili strutture in quello che non solo è il più ricco ma anche, in base ai propri criteri di valutazione, il più democratico paese del mondo? La risposta deve partire dalla considerazione del ruolo del potere, il potere di difendere e di rafforzare le prerogative della proprietà. In una società capitalistica i detentori dello stesso sono stati definiti «classe dominante» da Marx, «interessi costituiti» da Veblen, «élite del potere» da C. Wright Mills, «establishment» da Papandreou e «classe di governo» da G. William Domhoff. Le differenze terminologiche traggono origine da differenze analitiche nei modi in cui ciascuno di questi autori ha considerato la nostra società. Quali che siano queste differenze, tutti sono d’accordo su di un punto: i detentori del potere sono pochi, e al centro siedono coloro che controllano – in virtù della concentrazione della proprietà – la ricchezza sociale” [10].

Chi sono in fin dei conti queste élite? Charles Wright Mills, tra le note al capitolo 10 del suo capolavoro, La élite del potere, snocciola qualche dato dopo aver analizzato le biografie dei 513 uomini che tra il 1789 e il giugno 1953 hanno ricoperto le cariche di presidente, vice-presidente, presidente della Camera dei rappresentanti, membro di gabinetto e giudice della Corte Suprema. Tra questi 513, 94 sono stati anche governatori, 143 invece senatori. Questi “500” hanno un’origine sociale così ripartita: il 28% proviene dalla classe chiaramente superiore, della ricchezza terriera, dei grandi commercianti, degli industriali, dei finanzieri di importanza nazionale, o da famiglie di professionisti di grande ricchezza; il 30% proviene dall’agiata classe medio-superiore degli uomini d’affari, agricoltori e professionisti, i quali, sebbene non di statura nazionale, tuttavia avevano successo e prestigio nelle loro rispettive sedi; il 24% proviene dalla classe media che non è né ricca né povera; i loro padri erano di solito uomini d’affari o agricoltori, oppure avvocati o medici; il 18% proviene da famiglie dei ceti umili. Di questi, il 13% da famiglie che svolgevano piccole attività commerciali o agricole senza realizzare molto, ma che potevano ancora levarsi al di sopra della povertà; il 5% da famiglie di salariati o di piccoli uomini d’affari o di agricoltori decaduti. Rispetto all’occupazione, il 44% viene da famiglie di professionisti, il 25% da uomini d’affari, il 27% da nuclei agricoli. Almeno il 25% ha avuto padri che ricoprivano qualche carica politica nel periodo in cui i figli terminavano gli studi. Il 67% ha conseguito un titolo universitario (tendenzialmente ad Harvard, Princeton o Yale). Solo il 4% è nato all’estero. Circa il 75% sono avvocati, mentre quasi l’intero restante è costituito da uomini d’affari [11]. L’intreccio tra economia e politica è evidente sin da questi dati, ma non spiega tutto. 

Occorre evidenziare come l’altra grande strategia delle élite sia stata quella di saper cooptare i migliori elementi provenienti dai ceti medio-bassi, portandoli al tradimento della propria classe di origine per ragioni opportunistiche. L’uso politico dell’immigrazione è in tal senso paradigmatico: per l’intero primo secolo di esistenza degli USA il ceppo dominante è stata una ristretta borghesia di stampo WASP (acronimo che sta per “White Anglo-Saxon Protestant”, bianco anglo-sassone protestante). I milioni di immigrati che provengono dal resto del mondo sono utili a garantire il controllo su un proletariato diviso in gruppi segregati che si odiano tra loro e lottano per il riconoscimento di appartenere alla comunità dei liberi. Il razzismo intrinseco in questo gruppo dirigente elitario è ben visibile anzitutto dalla permanente condizione di asservimento cui rimane sottoposto il gruppo dei neri, ma anche, alla fine del XIX secolo, dalla svolta nelle politiche verso le popolazioni considerate “sub-umane” (neri, indiani, asiatici, slavi). In effetti “all’inizio del ventesimo secolo la popolazione degli Stati Uniti era costituita per metà dai discendenti del nucleo originario anglosassone, e per l’altra metà da immigrati o loro discendenti” [12]. Per quanto il processo di cooptazione abbia proceduto ad inizio ’900 a pescare in una certa misura anche tra irlandesi e italiani, sarà soltanto durante la guerra fredda che esso si aprirà anche alle altre minoranze etniche. L’origine di queste idee “liberal” è però puramente opportunistico e tende a rafforzare il dominio delle élite, capaci così di legare ai propri piani le energie migliori e più promettenti dei gruppi sociali che nel complesso continuano ad essere tuttora i più svantaggiati dal “sistema americano”. 

Gli USA restano un esempio di furbo dominio della borghesia, manifestatosi con tecniche e modi raffinati, fedelmente improntati ad un’ottica social-imperialista, che anticipano modelli socio-politici trapiantati a posteriori (tuttora) nel resto del mondo, Europa compresa. La ristretta mobilità sociale ha trasformato, seppur in pochi casi, contadini in presidenti, che si sono presto resi conto di non disporre realmente di tutto il potere di cui erano formalmente investiti. Si trovano già nel periodo in questione le origini del cosiddetto deep state (lo stato profondo). 

Riguardo al tipo di lavoro che è stato svolto: questo libro è il secondo volume della collana Storia del socialismo e della lotta di classe.

Gli Stati Uniti non si sono mai neanche avvicinati ad essere un paese socialista, ma hanno avuto uno dei movimenti operai più importanti e combattivi della storia occidentale. Contrariamente alla narrazione dominante, non sono stati pochi gli statunitensi che si sono ribellati contro il dominio delle élite. Si è dedicato molto spazio quindi alla storia dei movimenti politici e sociali di opposizione, e alle difficoltà, molto attuali, che hanno incontrato. Vedremo le loro storie, i loro guizzi, i loro errori in un contesto caratterizzato dalla lotta di classe pura. Spesso non si mettono nel dovuto rilievo i meriti delle lotte operaie per spiegare la ristrutturazione parziale del sistema statunitense avvenuta negli anni ’30 con il New Deal. Il mancato successo di molte lotte si spiega con la sistematica repressione violenta, ma anche con l’inadeguatezza delle organizzazioni esistenti: “uno degli aspetti che più colpisce di questa storia è la frequenza con cui i lavoratori sono stati contrastati proprio dai sindacati, che pure sostengono di rappresentarli. Ben lungi dal fomentare gli scioperi e le ribellioni, le organizzazioni sindacali e i loro leader cercano piuttosto di prevenirli, o di contenerli, mentre la spinta all’estensione del conflitto viene generalmente da una base tutt’altro che docile. In parte, ciò è dovuto al fatto che le organizzazioni, così come i partiti e le confessioni religiose, tendono a diventare burocrazie gestite da professionisti, la cui esperienza personale e i cui interessi materiali possono divergere da quelli di coloro che dovrebbero rappresentare. Ma è anche dovuto all’accomodamento che governi e grandi aziende, continuamente sfidati dalle rivendicazioni dei lavoratori, hanno cercato di raggiungere con le loro organizzazioni” [13].

Vedremo nel successivo volume che dedicheremo alla storia statunitense dal 1945 ad oggi, come di fatto anche i sindacati siano stati “cooptati” nel sogno americano, attraverso un controllo in una certa misura indiretto. La storia statunitense è stata inoltre un prezioso laboratorio per studiare le tecniche di controllo sociale e verificare concretamente le tesi presentate nel mio libro precedente, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale. Molto spazio è stato dato alle vicende delle organizzazioni socialiste e comuniste, oltre alla condizione degli afro-americani, i più oppressi di tutti. L’ottica di fondo è quella che cerco di portare sempre avanti: una combinazione di “storia dall’alto” e “storia dal basso”, cercando di marcare i nessi tra le decisioni delle persone al vertice del potere e la gente comune. Riguardo alle fonti e ai materiali usati, sono partito dai capitoli 13 e 14 della Storia del Comunismo, che trattano rispettivamente la politica interna e la politica estera degli USA nel ’900. La mia idea iniziale era di costruire un unico volume dedicato agli Stati Uniti, aggiungendo soltanto una breve sintesi della storia precedente. Come spesso accade quando si studia seriamente, ho accumulato molti materiali troppo interessanti e utili per poter essere sintetizzati in poche righe e ho ritenuto quindi più adeguato dividere il risultato di questi due anni di approfondimenti in due tomi, intitolati provocatoriamente Ascesa e declino dell’Impero statunitense. Per costruire un profilo storico completo sono partito dall’analisi della Storia Universale dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, una fonte apparentemente di parte che copre nell’ultimo volume tradotto in italiano (il 13°) il periodo fino al 1970. Ho poi messo a confronto le sintesi così ottenute con una serie di classici dell’americanistica: in campo “liberale” soprattutto i lavori di Schlesinger e Maldwyn Jones, oltre ad altre sintesi divulgative sparse nel tempo (Canu, Morais, Cartier, Dippel) e opere di saggistica contemporanea (Wolin, Frances, ecc.). Ho attinto a piene mani dalle “storie dal basso” di Zinn, Hubermann, Boyer & Morais. Ho cercato di recuperare alcuni classici ormai introvabili del pensiero statunitense e della storiografia nostrana: dalla sociologia critica di Charles Wright Mills (La élite del potere) all’economia eterodossa di Baran & Sweezy (Il capitale monopolistico) e Dowd, dalle rivisitazioni critiche di Chomsky e Losurdo alla ricostruzione dimenticata di Filippo Gaja (Il secolo corto). Molte di queste opere sono ormai fuori commercio e difficilmente reperibili (almeno in Italia), dimenticate e sconosciute alle nuove generazioni, motivo per cui ho dedicato ampio spazio alla trascrizione di interi brani. Ne è uscita una storia particolare degli Stati Uniti, che credo mostri la vera natura del suo regime e l’evoluzione dei suoi strumenti di controllo sociale. Un’opera che aveva l’intento prioritario di rispondere ad alcune domande iniziali da cui ero partito: quando e come è nato l’impero statunitense? Quali sono le sue caratteristiche strutturali? Può il sistema statunitense essere considerato un totalitarismo? Credo ci sia abbastanza materiale per rispondere a queste domande e a molte altre che sorgeranno durante la lettura.

 

Note:

[1] F. Thistlethwaite, Storia degli Stati Uniti, Cappelli, Bologna 1960 [1° ed. orig. The great experiment – An introduction to the history of the American people, Cambridge 1955], p. v.

[2] L. Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nordamerica e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, cap. 2, paragrafo 3 – Strategie di rimozione del male nella tradizione liberale.

[3] S.S. Wolin, Democrazia S.p.A. Stati Uniti: una vocazione totalitaria?, Fazi, ed. digitale 2013 [1° ed. orig. Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, 2008], cap. 11, paragrafo VIII.

[4] D.F. Dowd, Storia del capitalismo americano dal 1776, Mazzotta, Milano 1976, p. 15.

[5] Citato in A. Anivac, Storia militare degli Stati Uniti d’America, Academia, 2015, p. 70.

[6] F. Schönemann, L’imperialismo americano oggi [1943], Dedalo libri, Bari 1980 [1° ediz. Der USA Imperialismus von Heuthe, 1943], p. 7.

[7] D.F. Dowd, Storia del capitalismo americano dal 1776, cit., pp. 11-12.

[8] Ivi, p. 195-196.

[9] A. Smith, Lezioni di giurisprudenza, citato in L. Pegoraro, I dannati senza terra, cit., cap. 2, paragrafo 5 – Regimi liberaldemocratici e propensione alla schiavitù, alla guerra e al genocidio.

[10] D.F. Dowd, Storia del capitalismo americano dal 1776, cit., p. 174.

[11] C. Wright Mills, La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1959 [1° ediz. The power elite, Oxford University Press, New York 1956], pp. 409-410.

[12] M. Teodori, Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti, Marsilio, Venezia 2017, cap. 1, paragrafo Assimilazione e americanizzazione.

[13] J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, DeriveApprodi, Roma 1999, Introduzione.

01/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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