La dialettica nel Platone di Vegetti

Nell’antica Atene le principali decisioni politiche venivano prese dopo animate discussioni in assemblea, nei tribunali si confrontavano dialetticamente le tesi dell’accusa e della difesa, i sofisti avevano sviluppato le antilogie che, se da una parte aveva portato all’eristica, dall’altra si erano ampiamente diffuse in tutto il mondo intellettuale.


La dialettica nel Platone di Vegetti

Per quanto riguarda la storia e l’etimologia del termine dialettica, osserva a ragione Mario Vegetti: “una secolare tradizione, culminata nella filosofia hegeliana, ci ha resa familiare la parola «dialettica», tanto che non ci sorprende la decisione di Platone di chiamare con questo nome il principale strumento metodico del suo pensiero. Eppure, si trattava di una scelta linguistica e concettuale tutt’altro che ovvia, perché estranea al tradizionale lessico della «sapienza» (sophia). Dialektike è un aggettivo riferito al sostantivo techne, «tecnica» o «arte», che designa in generale un «saper fare»; il sostantivo veniva però spesso sottinteso, dando luogo di norma alla locuzione abbreviata «la [tecnica] dialettica». L’aggettivo deriva dal verbo dialegesthai, che significa primariamente «dialogare», «discutere»; il verbo viene spesso usato da Platone nella forma sostantivata (to dialegesthai) come sinonimo di dialektike (che vale dunque «saper usare l’arte della discussione»)” [1]. D’altra parte, tale pratica aveva assunto un ruolo fondamentale nell’epoca di Platone, in particolare ad Atene. Le principali decisioni politiche venivano prese dopo animate discussioni in assemblea, nei tribunali si confrontavano dialetticamente le tesi dell’accusa e della difesa, i sofisti avevano sviluppato le antilogie che, se da una parte aveva portato all’eristica, dall’altra si erano ampiamente diffuse in tutto il mondo intellettuale. Così, se Aristotele avrebbe sistematizzato la tecnica antilogica, Socrate l’aveva sviluppata nella sua arte della confutazione. Certo, sottolinea a ragione Vegetti, “la confutazione socratica (elenchos) poteva venire distinta dall’antilogica e dall’eristica dei sofisti per la sua intenzione morale e il suo desiderio filo-sofico di verità; ma i procedimenti argomentativi di Socrate non sembravano davvero intellettualmente diversi da quelli dei suoi rivali” (176-77).

La dialettica serviva, dunque, a Platone per riprendere e sviluppare il contesto dialogico del suo mondo storico-culturale, marcando chiaramente la distinzione con la eristica. Tale dialettica critica e dialogica sarà criticata da Hegel in quanto “raziocinante” poiché non restituirebbe il movimento delle cose stesse. La dialettica rimaneva sul piano dialogico e diveniva così essenziale trovare una sintesi avanzata del confronto con gli altri, altrimenti le proposte del filosofo rimanevano esperimenti isolati.

La dialettica, però, non si poteva più limitare a criticare le opinioni soggettive, ma si doveva sviluppare quale metodo razionale per comprendere l’essenza delle cose e giungere così a una conoscenza scientifica, “positiva” per quanto non sistematico-dogmatica.

La dialettica consente anche di superare il sapere matematico fondato su ipotesi e necessitante di dimostrazioni empiriche, in nome di un sapere che diviene in grado di dimostrare le ipotesi e si muove sul piano delle pure idee. Allo stesso tempo la dialettica è l’arte di togliere le ipotesi infondate. La dialettica deve giungere così al fondamento, anche se non è chiaro se quest’ultimo si identifichi con l’essenza scientificamente fondata, ovvero con l’idea, o con un principio primo in grado di andare oltre la molteplicità delle singole idee. Quest’ultima ipotesi, presente in modo problematico nella sola Repubblica e nelle dottrine non scritte, che fa capo all’idea di buono, non è prevalente e, anzi, può essere intesa come un esperimento filosofico incapace di raggiungere il necessario consenso.

Ciò che è certo è che la dialettica, dopo essere risalita al principio non ipotetico, doveva calarsi nel mondo ipotetico, per insegnare a distinguere tra ipotesi fondate o meno, e svolgere una funzione direttiva nello stesso mondo delle opinioni, mostrando come discernere quelle valide da quelle inutile e dannose.

La dialettica diveniva così la regina delle scienze in quanto le fondava e in quanto consentiva ai filosofi di accedere a quelle idee-valori che gli consentivano di razionalizzare il mondo empirico, innanzitutto dal punto di vista etico-politico. D’altra parte “l’ambizione iperbolica del suo compito di fondazione e di mediazione fra il sapere e la prassi, la verità e il valore, questo e l’altro mondo, non poteva consentirne questa saturazione epistemica; la dialettica non poteva cioè che restare un compito da realizzare ogni volta sempre di nuovo nella «battaglia» delle opinioni, nel conflitto tra forme di sapere e di vita rivali, insomma nell’interazione comunicativa fra uomini” (184).

Ciò non toglie che la necessità di formalizzare la dialettica fosse avvertita da Platone e dagli accademici, sino a farne una logica e metafisica del movimento del reale, abbandonando così il piano puramente discorsivo. In tal modo, però, la dialettica tendeva a perdere la sua funzione specificamente politica, al centro ne La Repubblica, che non a caso riconosceva il principio primo nell’idea di buono. D’altra parte in Platone “il limite epistemico della dialettica sarebbe stato certo spostato in avanti, ma mai del tutto superato – questo sapere sarebbe restato un metodo, non un sistema della verità, una pratica intersoggettiva del discorso, non un monologo dell’essere” (185).

La funzione dialettica viene, inoltre, ridefinita come arte di mettere ordine sul piano del discorso, riconducendo la molteplicità tendente alla dispersione alla sintesi ideale e poi dividendo e differenziando quest’ultima, per poterla meglio definire. Tale sintesi veniva poi tecnicizzata mediante il procedimento dicotomico. Si trattava dunque di ricondurre l’ente oggetto di esame dialogico al suo genere, per poi distinguerlo da tutti i tratti comuni con gli altri enti riconducibili al medesimo genere. La dialettica è, dunque, “il discorso che chiarisce le proprietà specifiche dell’oggetto cercato stabilendone i rapporti di affinità e di differenza con gli altri oggetti che appartengono al suo stesso ambito, fino a individuarne proprietà caratteristiche che non condivide con nessun altro di essi” (188). In tal modo, però, la dialettica doveva rinunciare alla sua aspirazione di scienza regia, in grado di fondare le scienze particolari e di indicare il modo corretto di agire agli uomini, per ridursi alla capacità di saper argomentare in modo corretto. In tale ottica la dialettica serve a comprendere un’idea stringendola in una rete di idee affini, distinguendo i tratti comuni da quelli propri della definizione del proprio oggetto di indagine.

D’altra parte, occorreva superare la dialettica socratica, quale arte della confutazione, per poter distinguere il filosofo dal sofista. Bisogna al contempo confutare la pretesa di Protagora di non poter dire il falso, dal momento che, seguendo Parmenide, il non essere non è e, quindi, non può essere falsificato. A tale scopo era perciò necessario per Platone portare a termine il parricidio di Parmenide, dimostrando che l’essere sotto un certo aspetto non è, ovvero non è l’altro da sé e nel suo non essere l’altro da sé deve necessariamente partecipare, in qualche modo, all’essere.

Il parricidio implicava per Platone il dover fare i conti con la propria originaria teoria delle idee, alla base della rigida separazione fra “i due mondi”, per cui mentre le idee sarebbero immutabili il mondo empirico sarebbe condannato un continuo divenire, che lo renderebbe, inconoscibile, almeno da un punto di vista scientifico. D’altra parte, se le idee si definiscono nella rete dei rapporti, di identità e differenza che le legano fra loro, anch’esse vengono in tal modo modificate. Peraltro la stessa conoscenza delle idee, non può che modificarle secondo l’ottica del soggetto conoscente. Dunque se il mutare significa la compresenza di essere e non essere, questi ultimi non possono più venire semplicemente contrapposti, ma vanno analizzati nella loro relazione.

Ogni idea è, in quanto identica con sé, e non è, in quanto diversa da tutte le altre. In tal modo anche le idee partecipano del mutamento e di quella compresenza di essere e non essere che, nel primo Platone, sembrava costituire oggetto delle sole opinioni. In tal modo la stessa “teoria dei due mondi” veniva in qualche modo posta in questione.

Dunque Platone, per superare l’impossibilità sostenuta dai sofisti di distinguere il vero dal falso, deve al contempo superare i suoi due principali fondamenti teorici, l’arte socratica della confutazione e la netta separazione parmenidea tra i due mondi. Del resto, come abbiamo visto, le idee si definiscono soltanto nei rapporti di identità e differenza che le connettono ad altre idee. Per cui come si possono enunciare connessioni vere, se ne possono enunciare altrettante false. 

Per poter separare le une dalle altre Platone introduce cinque generi massimi; essere, movimento, immobilità, identico, non essere. Ora, mentre ogni cosa partecipa dell’essere e del non essere – quest’ultimo inteso, ora, come essere diverso dall’identità, al contrario ogni cosa può essere o immobile o in movimento. La dialettica si definiva ora “come una sorta di grammatica generale dell’essere, del pensiero e delle relative possibilità di enunciazione” (195). La dialettica diveniva l’arte di cogliere identità e differenze fra enti e idee e fra idee e idee.

Le idee assumono nel tardo Platone diverse configurazioni ontologiche, dai generi sommi predicabili di ogni ente, alle idee classi che sintetizzano molte idee differenti, sino alle idee non ulteriormente divisibili. Fra le idee più ampie e quelle singole vi sono numerose idee intermedie, per cui mancano i nomi, tanto che il dialettico diviene il legislatore di nomi che, mediante neologismi, cerca di far sì che la parola rinvii al suo significato, come nel caso del termine “triangolo”. In tal modo, Platone compiva “un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epistemico peculiare della forma del pensiero dialettico (…). Che forse non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e propria scienza” (198). Dunque, la dialettica in quanto tale non poteva rinunciare – come non si stanca di sottolineare Vegetti – “comunque alla sua originaria natura di indagine mobile e aperta condotta nel confronto tra soggetti dialogici diversi; se riduceva le sue aspirazioni immediate alla «regalità» etico-politica, non si trasformava tuttavia in un astratto sistema di «scienza universale» o di metafisica dell’essere” (199-200).

 

Note:

[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 175. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera, indicando in parentesi tonde il numero della pagina.

29/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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