Lenin e l’epoca della guerra imperialista

La compiuta spartizione del mondo fra grandi potenze è una caratteristica fondamentale della definizione stessa del capitalismo nella sua fase imperialista, che non può che comportare l’inizio dell’epoca delle guerre imperialiste, che saranno necessariamente sempre più micidiali se non verranno ostacolate dall’affermazione del socialismo.


Lenin e l’epoca della guerra imperialista

I comunisti non possono confondersi con i pacifisti, in quanto sono le stesse dinamiche economiche di sviluppo del modo di produzione capitalista a rendere le guerre e l’acuirsi dei conflitti inevitabili. Proprio perciò chi vuole realmente la fine delle guerre imperialiste non può che battersi contro la loro causa, cioè il modo di produzione capitalistico nella sua fase di sviluppo superiore o suprema. Del resto come osservava Lenin già più di un secolo fa: “il capitale finanziario e i trust acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale. Ma non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?” [1]. Quindi, essendoci uno sviluppo ineguale del capitale finanziario transnazionale, si modificano i rapporti di forza fra le potenze imperialiste e, di conseguenza, viene rimessa in discussione con nuove guerre la spartizione del mondo in aree di influenza. Più il capitalismo diviene maturo e più si accrescono i conflitti, cioè le guerre imperialiste. Del resto è stato proprio lo sviluppo in senso imperialista del capitalismo in diversi paesi a consentire di portare a termine la spartizione del mondo fra grandi potenze, dopo la quale non possono che esserci guerre imperialiste a tutti gli effetti. Per dirla con Lenin: “l’imperialismo, che era virtualmente nel capitalismo, si è sviluppato in un sistema dominante; i monopoli capitalistici hanno preso il primo posto nell’economia e nella politica; la spartizione del mondo è ultimata” (155). 

Dunque è lo stesso sviluppo in senso monopolistico del capitalismo, a provocare la fase imperialista del colonialismo, che si afferma nel momento in cui la spartizione del mondo in aree di influenza è terminata. Si entra così nell’epoca delle grandi guerre imperialiste, che dura fino ai nostri giorni. Come osserva a questo proposito Lenin: “se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l’essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e dall’altro lato la ripartizione del mondo significa passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancora dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita” (131). Dunque, la compiuta spartizione del mondo fra grandi potenze è una caratteristica fondamentale della definizione stessa del capitalismo nella sua fase imperialista [2], che non può che comportare l’inizio dell’epoca delle guerre imperialiste, che saranno necessariamente sempre più micidiali se non verranno ostacolate dall’affermazione del socialismo.

Perciò, solo una affermazione del socialismo può porre fine alle sempre più spaventose guerre imperialiste. Il richiamo alla razionalità della pace ha scarsi effetti se non si trasforma il modo di produzione. Da questo punto di vista diviene determinante comprendere se si tratti di imperialismo quale fase suprema del capitalismo, o di politiche imperialiste non rese necessarie dallo sviluppo economico. Nel primo caso non ci sono alternative alle politiche di guerra, se non con la transizione socialista, mentre nel secondo caso le politiche imperialiste potrebbero anche essere più facilmente evitate, in quanto dovrebbero rivelarsi antieconomiche. Come osserva già Lenin, perciò “le considerazioni generali sull’imperialismo, che dimenticano le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le relegano nel retroscena, degenerano in vuote banalità” (123). Occorre, inoltre, sempre ricordare che uno sviluppo in senso capitalista non comporta necessariamente l’affermazione dell’imperialismo. Soltanto un prolungato sviluppo quantitativo in tal senso produce, inevitabilmente, il passaggio qualitativo al capitalismo imperialista. Come fa notare a tal proposito Lenin: “il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado di sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso di un più elevato ordinamento economico e sociale” (130).

Certo, visto lo strapotere delle potenze imperialiste, potrebbe sembrare che la questione della conquista del potere in paesi a capitalismo avanzato e della conseguente transizione socialista sia una pura utopia. D’altra parte, lo sviluppo del capitalismo è contraddittorio, da una parte si accentrano sempre più le ricchezze nelle mani di pochi grandi proprietari privati del capitale finanziario, ma al contempo è proprio questa dinamica che favorisce un eccezionale sviluppo della socializzazione della produzione, che pone le basi materiali per lo sviluppo in senso socialista. A tal proposito, già oltre un secolo fa Lenin osserva un fenomeno che naturalmente oggi si è ancora più sviluppato, cioè: “la concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche” (53). Dunque sono le dinamiche stesse di sviluppo della società capitalista a costituire, del tutto involontariamente, la base stessa della società socialista: “il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione: trascina, per così dire, i capitalisti, senza che essi lo vogliano o ne abbiano coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza alla socializzazione completa.

Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei profitti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone” (54). Visti gli ulteriori sviluppi in questa direzione già intuita da Lenin, al giorno d’oggi non resta che socializzare i grandi monopoli dei mezzi di produzione, cioè non resta altro che modificare i rapporti di proprietà nella direzione che lo stesso sviluppo del capitalismo indica chiaramente. In una situazione del genere è molto più utopistica la difesa degli attuali rapporti di proprietà o l’illusione che senza modificarli sia possibile evitare la guerra.

Dunque, al contrario di quanto ci dà a credere l’ideologia dominante, è proprio lo sviluppo in senso socialista dell’imperialismo a essere naturale, mentre contro natura è accanirsi a mantenere gli attuali rapporti privatistici di proprietà. In tal modo l’intera società rischia di incancrenirsi e tale agonia non solo può essere prolungata, sono passati in effetti oltre cento anni da quanto Lenin la denunciava, ma non è detto che dopo il venir meno dell’attuale modo di produzione se ne debba necessariamente affermare uno più giusto e razionale. Ecco quanto Lenin già metteva in evidenza: “si è in presenza di una socializzazione della produzione (…) i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro non più corrispondente al contenuto, involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l’eliminazione, e in stato di putrefazione potrà magari durare un tempo relativamente lungo” (178). Il paradosso è che tale stato di putrefazione è aumentato e ciò nonostante l’ideologia dominante vorrebbe far credere che a essere storicamente superati non sono i rapporti di proprietà ancora oggi dominanti, ma le analisi di Lenin che li denuncia e la stessa categoria di imperialismo indispensabile per comprendere la realtà a noi contemporanea.

Quello che è certo è che lo sviluppo necessario in senso monopolistico del capitalismo è in contraddizione altrettanto necessaria con il progresso storico. “Nella misura in cui s’introducono, sia pure transitoriamente, i prezzi di monopolio, vengono paralizzati, fino a un certo punto, i moventi del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso” (144). L’ideologia positivista che sostiene che lo sviluppo del capitalismo porta con sé necessariamente uno sviluppo tecnico, che risolverà via via tutti i problemi dell’umanità, è stata clamorosamente smentita proprio dai fatti. In effetti, è lo stesso sviluppo del capitalismo a entrare in contraddizione con ogni ulteriore sviluppo tecnologico e, di conseguenza, con lo sviluppo storico.

 

Note:

[1] Lenin, Vladimir, Ilic, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Laboratorio politico, Napoli 1994, p. 141. D’ora in poi indicheremo direttamente nel testo, per i brani citati da quest’opera, il numero di pagina di questa edizione fra parentesi tonde.

[2] Ecco la nota definizione, oggi particolarmente attuale, che ne dà Lenin: “senza tuttavia dimenticare il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso, del fenomeno in pieno sviluppo – dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè:

  1. la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
  2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria;
  3. la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
  4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
  5. la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche” (131-32).

21/07/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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