The Guilty - Il colpevole

Un film pienamente godibile e che lascia al contempo molto da riflettere allo spettatore, mettendo in discussione alcuni dei principali cliché dell’ideologia dominante.


The Guilty - Il colpevole Credits: https://www.mymovies.it/film/2018/the-guilty/

The Guilty (Il colpevole) di Gustav Möller, Danimarca 2018, è decisamente un buon film. È avvincente, garantisce godimento dal punto di vista estetico ed è latore di un contenuto sociale sostanziale. Nonostante sia realizzato con un bassissimo budget e con pochissimi mezzi e sia decisamente in contrasto con l’ideologia dominante, il film ha ottenuto già ottimi risultati, come i premi di miglior film da parte del pubblico nei due festival in cui è stato presentato: il Sundance, il più importante festival del cinema indipendente, e il festival di Rotterdam, oltre a ricevere la nomination a migliore attore europeo per Jakob Cedergren – nei fatti l’unico vero attore del film – oltre alle nomination “Rivelazione europea” e per il miglior sceneggiatore europeo allo stesso regista di The Guilty. Infine, è stato candidato agli Oscar come miglior film straniero per la Danimarca ed è stato selezionato nella lista ristretta dei film a cui verrà consegnato l’ambito premio, oltre a ricevere lodi unanimi tanto dalla critica quanto dal pubblico (cfr. https://www.rottentomatoes.com/m/the_guilty_2018/ ). Tutto ciò a dimostrazione del fatto che si può fare un bel film con pochissimi soldi, divertendo e dando molto da pensare tanto al pubblico quanto alla critica, pur andando decisamente controcorrente rispetto al pensiero unico dominante e, nonostante ciò, avere una buona distribuzione, tanto che sarà visibile anche nelle sale italiane.

Il film si svolge in un solo ambiente, la sala dove si ricevono le telefonate del pronto intervento (112), gestito in Danimarca dalla polizia, con praticamente un solo attore, il davvero bravo protagonista Cedergren, costantemente impegnato al telefono. Il film ha anche il pregio di essere essenziale, di non dilungarsi inutilmente – come troppo spesso avviene – e, perciò, nonostante la scarsità dei mezzi a disposizione non annoia mai. Per altro gli 80 minuti del film corrispondono perfettamente al tempo degli eventi narrati, ovvero al tempo di una davvero ottima sceneggiatura. Per altro, come nelle migliori tragedie – e al contrario di quanto avviene nella maggior parte dei film – i fatti tragici narrati non sono mai sbattuti sotto l’occhio dello spettatore, ma sono raccontati, spesso in modo ellittico e allusivo al protagonista impegnato a tentare di ricostruirli al telefono.

Nonostante il protagonista e vero e proprio mattatore del film sia un rappresentante degli apparati repressivi di uno Stato borghese e filo imperialista, il regista e sceneggiatore e l’attore fanno in modo che difficilmente lo spettatore possa immedesimarsi completamente e acriticamente nel protagonista. Il rappresentante dell’apparato repressivo ci viene infatti presentato in modo realistico e dialettico come il tipico guardiano dell’ordine costituito in un paese imperialista. Anzi rappresenta l’espressione più tipica di come dovrebbe essere il poliziotto secondo l’ideologia dominante, ossia uno spietato esecutore della legge, pronto a usare tutti i mezzi, anche quelli più brutali, violenti e illegali per punire coloro che mettono in questione l’ordine costituito. Ha, quindi, le tipiche attitudini di praticamente tutti i rappresentanti degli organi repressivi dello Stato imperialista che ci sono stati propinati in infinite varianti di un unico tema dall’industria culturale, temibilissimo strumento dell’egemonia della classe dominante.

Tuttavia il nostro protagonista, pur essendo il solito vendicatore senza macchia e senza paura, spietato e pronto a tutto pur di salvaguardare l’ordine costituito, è al contempo realisticamente rappresentato in modo umano, troppo umano… In effetti, considerando assolutamente valido l’ordine costituito che deve difendere e, di conseguenza, rappresentante del male assoluto chi sembra metterlo in questione, è evidentemente un dogmatico, fondamentalista e fanatico pronto a utilizzare qualsiasi mezzo, anche il più illegale e violento, pur di far trionfare il presunto Bene. Inoltre è, naturalmente, e tipicamente un individualista assoluto, che vede in tutti i colleghi e persino nei capi – che lo richiamano a limitarsi a fare il proprio lavoro, senza violare le regole e le leggi, che lo invitano a fare lavoro di squadra – un’oggettiva minaccia alla sua missione da cavaliere della virtù. Così i suoi stessi colleghi non possono che apparirgli come dei grigi burocrati, in quanto si limitano ad applicare le regole e a fare la loro parte, mentre tutto ciò non può che apparire come un insieme di lacci e lacciuoli che non possono che essere d’ostacolo alla sua libera iniziativa privata. Ecco che allora il cavaliere della virtù, che si pone come paladino della legge e dell’ordine costituito, comportarsi da masnadiero e violarlo sistematicamente nella sua pretesa di imporlo a tutti con le buone o con le cattive. Secondo il noto adagio, così caro all’ideologia dominante, si vis pacem, para bellum, per cui quelli che sono presentati come i maggiori difensori dell’ordine internazionale sono nei fatti i principali artefici di ogni tipo di aggressione, azione bellica terroristica, utilizzo di armi proibite etc.

Siamo, dunque, dinanzi a una variante superiore della banalità del male delineata da Hannah Arendt per giudicare gli artefici della shoah e, più in generale, delle malefatte dei regimi totalitari: uomini incapaci di pensare con la propria testa, che divengono dei ciechi esecutori delle leggi liberticide che caratterizzano un regime totalitario. Nel nostro caso, invece, in un sistema liberal-democratico la banalità del male è espressione proprio di chi vede nelle garanzie costituzionali, nello stato di diritto, nelle leggi uguali per tutti e, in generale, nella democrazia formale un ostacolo alla compiuta affermazione dell’ordine costituito conto ogni forma di devianza. Perciò visto che il fine giustifica i mezzi, ma il fine – la difesa dell’ordine costituito in quanto tale – è assunto acriticamente come assoluto, le azioni del nostro “superuomo”, che si pone al di là del bene e del male, risultano prive di razionalità.

In tal modo, questo puro agire sulla base dell’istinto, per affermare la propria volontà di potenza, che si ritiene assoluta, in quanto posta a difesa dell’ordine costituito – considerato acriticamente come l’unico possibile – non può che avere un esito sommamente tragico. In altri termini, il nostro anti-eroe non potrà in nessun modo riconoscersi nel prodotto delle proprie azioni, che essendo irrazionali, non hanno potuto che produrre l’esatto opposto di ciò cui miravano.

Qui, tuttavia, al culmine della tragedia – al contrario di quello che vuol far credere il pensiero unico dominante – non può che esservi la catarsi. Infatti, come notava in modo esemplare Antigone, personaggio tragico per essenza, la sofferenza che ci provocano le nostre azioni non possono che portarci alla conclusione che la nostra prospettiva, considerata assolutamente valida, era in realtà unilaterale e, dunque, parziale e, proprio perché considerata assoluta, necessariamente errata. In tal modo, il dominio del pensiero unico dominante non ci viene più presentato come naturale , come necessario , come un oscuro destino. Allo stesso modo l’altro, ciò che non è assolutamente conforme all’ordine costituito, non appare più come il puro male da debellare, ma come qualcosa di umano, di troppo umano. Così riconoscendo la propria unilateralità e i propri errori, si comprendono anche gli errori altrui e si vede così anche l’uomo al di là della colpa e del colpevole. È possibile ricomprendere e perdonare l’altro nel momento in cui si riconosce la propria altrettanto colpevole unilateralità e, così, anche le proprie azioni che apparivano imperdonabili possono essere superate. Tanto che la giusta pena non appare più un oscuro destino, da evitare a ogni costo – in nome della propria buona fede – ma come lo strumento necessario a superare la propria colpa e tornare a essere di nuovo parte a tutti gli effetti della società civile.

All’ottimismo della ragione, che ha analizzato in modo impeccabilmente e implacabilmente realistico la situazione oggettiva, segue così l’altrettanto necessario ottimismo della volontà. Se le premesse, dettate dal prevalere apparentemente incontrastato dell’ordine costituito, per quanto irrazionale esso possa essere divenuto, sono necessariamente nere, anche la notte più lunga non è eterna. Le contraddizioni reali, prodotte da un sistema sempre meno razionale, non possono che provocare crescenti sofferenze, che finiscono per essere, anche per i più biechi esecutori dell’ordine costituito, un campanello d’allarme che c’è qualcosa di sostanziale che non va. Tant’è che anche il nostro cieco e spietato uomo d’azione, proprio perché relativamente impossibilitato a continuare ad agire d’istinto – sulla base del presupposto acritico di essere sempre e comunque dalla parte del bene assoluto – inizia a riflettere e a comprendere tutti gli enormi limiti delle proprie passate azioni irrazionali.

Ecco che allora, meritevolmente, l’opera non si chiude in quell’orizzonte di un esistente, che si scopre sempre più privo di razionalità, non termina in un vicolo cieco, ma apre una realistica prospettiva che lascia catarticamente allo spettatore l’esigenza di tesaurizzare la tragedia, divenendo da spettatore passivo, un soggetto attivo, intenzionato a cambiare radicalmente quella miseria esistente in cui siamo generalmente così immersi da non renderci nemmeno conto di quanto siamo caduti in basso.

Concludiamo, per non essere a nostra volta unilaterali, evidenziando anche i limiti di questo bel film. Dal punto di vista formale, anche per la povertà dei mezzi, l’opera rischia di curare troppo poco lo specifico filmico, di servirsi troppo poco degli strumenti propri ed esclusivi di questo mezzo espressivo, tanto da apparire una sorta di dramma teatrale filmato. Nel senso che la sceneggiatura sembra più adatta a un’opera teatrale, che cinematografica.

Inoltre, l’aver incentrato l’intero plot su un unico personaggio tende a far apparire, le azioni tragiche a cui assistiamo, non come qualcosa di tipico in questo perverso sistema, ma di anomalo, quasi si trattasse dell’eccezione piuttosto che della regola. Come se appunto si trattasse della mela marcia, che il sistema ha già individuato e isolato, per non permettere di compromettere le altre mele normalmente buone. Tanto più che alla fine non c’è nemmeno bisogno della giusta punizione da parte di un sistema buono nei confronti di un servo infedele, in quanto quest’ultimo è da solo capace di ravvedersi e di riparare, per quanto gli è possibile, ai propri torti. Proprio questi limiti, per altro, consentono di spiegare il consenso unanime che ha incontrato questo film presso la critica e il pubblico.

13/01/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.mymovies.it/film/2018/the-guilty/

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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