Un Oscar alla capacità di egemonia della società dello spettacolo

 Come da pronostico della vigilia è Birdman, del regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu, ad aggiudicarsi le 4 statuette più ambite: miglior film, regia, fotografia, sceneggiatura. Nonostante fosse stato a ragione ignorato dalla giuria del Festival di Venezia, la Fox ha puntato tutto su questo film iper-formalista


Un Oscar alla capacità di egemonia della società dello spettacolo

 

Il pensiero unico, al servizio della classe dominante, imperante fra i giurati dell’Academy, premia il secentismo programmatico, la neo-arcadia e il sergente di Full Metal Jacket, mentre taglia fuori chi denuncia l’ipocrisia della società liberaldemocratica, tanto più se si tratta di una donna nera, come la regista Ava DuVernay, che pur esprime una critica dall’interno del sistema

 di Rosalinda Renda e Renato Caputo

Come da pronostico della vigilia è Birdman, del regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu, ad aggiudicarsi le 4 statuette più ambite: miglior film, regia, fotografia, sceneggiatura. Nonostante fosse stato a ragione ignorato dalla giuria del Festival di Venezia, la Fox ha puntato tutto su questo film iper-formalista e del tutto privo di sostanza ed è riuscita a fargli strappare un bottino talmente ricco, da dover rinunciare all’unica statuetta che forse davvero poteva ambire ad aggiudicarsi, ovvero quella per il miglior attore protagonista, che non va a Michael Keaton (unica risorsa contro il sonno che coglie lo spettatore durante il film), ma a Eddie Redmayne per il suo ruolo nel mediocre La teoria del tutto, dove interpreta lo scienziato Stephen Hawkins. Egualmente mediocre è Still Alice il film che ha permesso a Julienne Moore di conquistare, dopo una lunga e onorata carriera, il premio per la miglior attrice protagonista. Non a caso i grandi elettori per l’assegnazione degli Oscar sono in maggioranza attori al servizio delle grandi imprese hollywodiane, generalmente indotti a vendere la propria forza lavoro al servizio di opere votate unicamente al raggiungimento del massimo profitto immediato e destinate, subito dopo, a finire giustamente nel dimenticatoio, ovvero in quella vera e propria pattumiera che è la memoria dei cinephile. In Still Alice la Moore interpreta un insegnante colpita dal contrappasso dell’Alzheimer, secondo uno schema tipico del pensiero unico, volto costantemente a umiliare i lavoratori della mente per sfruttarli meglio, facendogli ricordare che non sono altro che servi inutili del capitale. A conferma che l’ideologia dominante è improntata a una visione della storia, impregnata dall’aria stantia di una sacrestia, che ha come uniche protagoniste le vittime, innocenti come può esserlo un’anima bella che non prende posizione, ritenendo più prudente l’indifferenza. 

Un altro dei favoriti della vigilia, ovvero il bel Boyhood di Richard Linklater, resta inaspettatamente a bocca asciutta: solo un statuetta per la migliore attrice non protagonista a Patricia Arquette. Il film è stato probabilmente sanzionato per essere un film indipendente, un’opera d’arte disinteressata e, quindi, non piegata ideologicamente al pensiero unico dominante. Il preannunciato testa a testa fra le due pellicole, utile a creare la suspense su un’edizione che si è poi rivelata quanto mai improntata all’aurea mediocritas imperante, non c’è stato. Birdman si è imposto su tutta la linea, dimostrando ancora una volta che nella società capitalista all’epoca della sua putrefazione il medium (pubblicitario) è il messaggio. Rischiamo di precipitare così in un eterno e noiosissimo ritorno dell’identico, tanto più che se a decidere continueranno a essere gli impiegati di lusso dell’industria dei narcotici hollywoodiana, un succedaneo dell’oppio dei popoli che sta relegando sempre più a un residuo del passato la religione, tanto che quest’ultima o prova con il nuovo pontifex a sfidare Hollywood sul suo stesso piano, o si arrocca nella difesa di una tradizione inventata ad hoc, come fanno i settori più reazionari del mondo islamico, non a caso quelli coperti politicamente dall’imperialismo statunitense e nostrano. 

Una sconfitta annunciata è invece quella di Selma della regista afroamericana Ava DuVernay, che avrebbe meritato molto di più. Delle due nomination ricevute: miglior film e miglior canzone, si aggiudica solo il secondo premio, segno che essere donne e per lo più di colore negli Stati Uniti è ancora un problema; del resto non ci sono altre nomination ad afroamericani in questa edizione dell’Academy.

Particolarmente deprecabile è il riconoscimento dato dai giurati dell’Accademy più che a K. Simmons come miglior attore protagonista al ruolo che interpreta. Un ruolo che segna la piena riabilitazione del sergente-insegnante dai metodi nazistoidi del pessimo Whiplash, premiato anche per il mixaggio sonoro e per il montaggio. Si tratta in quest’ultimo caso del meritato riconoscimento per chi con poche idee, ma confuse, appena sufficienti per un servile cortometraggio è riuscito a spacciarsi come autore indipendente e innovativo. A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che il piccolo è bello è espressione caratteristica dell’ideologia piccolo borghese che ritiene la merce prodotta dalle piccole imprese più genuina di quella prodotta dalle grandi multinazionali, come se fosse la semplice differenza di dimensione a determinare la qualità di un prodotto.

Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, divertissement in stile crepuscolare ben confezionato e comunque pregevole, ottiene il premio per la miglior scenografia, colonna sonora, trucco e infine costumi, dove è Milena Canonero che per la quarta volta riceve l’Oscar. Come da copione, i media sciovinisti italioti – si farebbe prima a scrivere i mezzi di comunicazione italiani tout court – hanno esaltano il premio come un “Oscar per l’Italia”, quando proprio al contrario bisognerebbe denunciare la totale incapacità del nostro Stato di mettere a frutto il patrimonio di intellettuali che è ancora in grado di produrre. La signora Canonero è l’ennesimo esempio dell’intellettuale cosmopolita italico, che in piena continuità per dirla con Gramsci con i chierici cattolici, cerca fortuna all’estero, anche perché ha la certezza che le proprie qualità in Italia non saranno mai riconosciute e valorizzate, oltre che decentemente retribuite. Discorso analogo vale per i tre disegnatori italiani Giovanna Ferrari, Alessandra Sorrentino e Alfredo Cassano, il cui film d’animazione ha ricevuto una nomination: peccato che il film Song of the sea è stato prodotto e realizzato in Irlanda e non nel nostro paese, che è riuscito a sprecare quel poco di potenzialità creativa destinata inevitabilmente a sparire con le nuove contro-riforme in programma, volte a dequalificare ulteriormente l’istruzione e la ricerca pubblica. I tre disegnatori infatti dichiarano su Repubblica.it "Da noi non c'è futuro per l'animazione" [1] e se non fossero malati di specialismo, avrebbero potuto tranquillamente sostituire il più appropriato termine cultura al riduttivo animazione. 

Dunque gli italiani, incapaci di cambiare un sistema e una mentalità che costringe da secoli alla fuga molti dei cervelli più dotati, continuano a consolarsi con il premio per i costumi assegnato a una costumista che per lavorare ed essere riconosciuta è dovuta emigrare negli Stati Uniti. Resta la capacità degli Usa di arruolare, un po’ come la chiesa cattolica con i chierici di estrazione proletaria, intellettuali dei paesi incapaci di valorizzarli.

Il premio per il miglior film d’animazione, come da copione, lo vince però la Disney con Big Hero 6, a ulteriore dimostrazione, un po’ come nei premi nobel, che tali istituzioni borghesi sono infallibili nel selezionare sempre ciò che è più funzionale a sviare l’attenzione dinanzi all’incancrenirsi dell’attuale modo di produzione, edificando l’ennesimo Grand hotel sull’abisso. 

Non poteva infine mancare l’ormai scontatissimo riconoscimento da parte della giuria all’uso ideologico dello pseudo-concetto liberale di totalitarismo, vero e proprio pass partout del rovescismo storico imperante. Il premio per il miglior film straniero va, infatti, a Ida di Pawel Pawlikowski, film straniero neanche citato dai grandi mezzi di comunicazione italiani, ormai più realisti del re, tanto da ignorare i film non prodotti negli Usa. Ida è un film volto a denunciare lo squallore e l’aberrazione del nazismo e del suo antidoto, il comunismo, indicando come unica via di fuga la casa dell’oppio, alias il convento. Magra consolazione per gli italiani, ci porta a ricordare che non c’è fine al male, dal momento che esistono paesi europei i cui intellettuali tradizionali sono ancora più reazionari dei nostri.

In conclusione possiamo osservare che il meccanismo perverso dell’Oscar tende diabolicamente a perpetrare se stesso. Infatti ad avere diritto di voto per l’assegnazione dei premi è chi è stato già premiato, generalmente per il suo conformismo e il suo inchinarsi, da buon Tui, al pensiero unico dominante. Fino a che a votare non saranno dei critici veramente indipendenti dalle majors è evidente che gli impiegati della società dello spettacolo saranno mediamente portati a utilizzare il proprio voto per confermare la propria disponibilità a farsi sfruttare dai grandi monopoli che controllano l’industria cinematografica dell’intrattenimento e della fittizia evasione.

Unico dato positivo, il sacrosanto mancato riconoscimento ad American Sniper, che si aggiudica il solo premio al miglior montaggio sonoro, mostrando come molti critici della a-sinistra italiana siano anch’essi divenuti più realisti del re, chiedendo a gran voce l’Oscar per un film che Chomsky non ha esitato a definire espressione della mentalità terroristica delle politiche estere americane, mentre Seth Rogen lo ha paragonato al fittizio film di propaganda nazista su un analogo cecchino tedesco, proiettato in Bastardi senza gloria [2]. Incuranti che il loro andare contro corrente si riduca in ultima istanza a critica da destra la stessa ideologica dominante, che si esprime nella giuria dell’Academy, detti giornalisti non hanno esitato a unirsi al giudizio acriticamente positivo dei neocons statunitensi, primo fra tutti il repubblicano McCain, quello delle riunioni operative con l’Is per intenderci. Del resto gente cosa ci si può aspettare da intellettuali che invece di formarsi come un tempo su Hegel, Marx e Gramsci si sono formati su Nietzsche, Deleuze e Foucault? 

 

Note

[1]Available:http://www.repubblica.it/speciali/cinema/oscar/edizione2015/2015/02/20/news/un_po_di_italia_agli_oscar-107791271/]

[2] «Alias», supplemento al quotidiano «Il manifesto» di sabato 21 febbraio 2015, p. 2.

26/02/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: