Dal teatro epico al teatro dialettico

Come era possibile, si domandava l’ultimo Brecht, sottomettersi all’esigenza di una trattazione epica imposta dai nuovi contenuti conservando, però, le caratteristiche fondamentali attribuite dalla tradizione al genere drammatico, ovvero la sua capacità di sintetizzare e di dare rappresentazione sensibile a quei contrasti ideali che caratterizzano e vivificano le relazioni interumane?


Dal teatro epico al teatro dialettico

Sarebbe errato considerare l’esigenza avvertita da Bertolt Brecht di riconsiderare la teoria del teatro epico un semplice tentativo dettato dal quieto vivere, dall’esigenza di scendere a patti con quella parte della critica che intendeva difendere a ogni costo la drammaturgia tradizionale, tanto che la stessa definizione di teatro epico doveva apparirgli provocatoria. È opportuno ripeterlo: il teatro epico, benché fosse considerato sotto certi aspetti insufficiente, costituiva, comunque, per Brecht un punto di non ritorno, una componente imprescindibile del dramma “moderno”. Così, come ci è testimoniato da Schumacher, ad esempio, Brecht tornato nel 1950 a Berlino, poneva al primo posto tra i suoi progetti la realizzazione scenica, in rappresentazioni modello, della concezione epica del teatro elaborata durante l’esilio [1]. 

Si tratta, quindi, di comprendere in che modo Brecht pensasse di poter giungere a una superiore ricomposizione drammatica senza dover, perciò, rinunciare alle indubbie conquiste della sua teoria. Dai frammenti degli anni cinquanta sembra evidente che il teatro epico, pur rimanendo uno scopo da raggiungere, appariva a Brecht – al tempo stesso – un limite, un ostacolo da infrangere e superare per dar vita a un teatro veramente adeguato alle esigenze dell’epoca moderna.

Queste due esigenze brechtiane, così fortemente contraddittorie, sono sviluppate in un lasso di tempo tanto breve da rendere difficilmente credibile che la seconda implicasse, in rapporto alla prima, una radicale inversione di tendenza. Si tratta, piuttosto, di un’evidenziata in quanto voluta aporia, che può essere in qualche modo composta solo considerando entrambi veri i suoi due termini, benché su due differenti livelli.

Detto altrimenti, Brecht riconosceva tutta l’importanza e la necessità dell’elemento epico per la sua rivoluzione drammaturgica nonostante, o meglio, proprio per il suo carattere di transitorietà. È proprio questo carattere di transitorietà, di frammentarietà della sua idea di un teatro epico che ne svela e salvaguarda la sua funzione di premessa, di traccia del teatro del futuro.

D’altra parte, pur non potendo individuare un termine veramente appropriato e adatto a sostituire quello di epico, il problema della sua insufficienza permaneva e, anzi, la sua stessa ricerca era resa più urgente dalla riflessione di Brecht su quegli autori che tra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo si erano interrogati sulla relazione che doveva intercorrere tra arte drammatica e narrazione epica

La questione se fosse possibile rimettere in discussione la netta bipartizione della tradizione aristotelica tra genere drammatico ed epico era stata al centro del carteggio tra Schiller e Goethe ed era presente nella stessa estetica di Hegel, nel difficile equilibrio ivi ricercato tra l’adesione alla poetica classica dei generi e le nuove esigenze della rappresentazione artistica, tematizzate dalla poetica romantica.

Brecht aveva trovato conferma in queste eminenti riflessioni dell’importanza della questione da lui stesso presa in esame: come era possibile sottomettersi all’esigenza di una trattazione epica imposta dai nuovi contenuti conservando, però, le caratteristiche fondamentali attribuite dalla tradizione al genere drammatico, ovvero la sua capacità di sintetizzare e di dare rappresentazione sensibile a quei contrasti ideali che caratterizzano e vivificano le relazioni interumane?

La tarda riflessione di Brecht sull’arte drammatica era, infatti, costretta a muoversi tra due necessità egualmente sentite, ma sostanzialmente opposte. Brecht avvertiva l’esigenza, ereditata e dalla Poetica aristotelica e dall’estetica hegeliana, di un dramma che, come genere ultimo dell’evoluzione storica, fosse in grado di ricomprendere al suo interno l’essenziale momento narrativo del genere epico, purificandolo però degli elementi più eterogenei alla sua essenza: le maggiori concessioni fatte dall’epico all’irrazionale e alla disparità del materiale, che opponevano una perpetua resistenza alle necessità di coerenza dell’opera drammatica [2].

Non bisognava però dimenticare il rischio che necessariamente correva questo tentativo di ricomposizione drammatica: la sua tendenza a sacrificare alla produzione di un dramma bello, alla sua stessa pienezza e completezza espressiva il dover essere morale della ricerca, finendo così per occultare dietro le esigenze di totalità, concordanza interna e perfezione formale, la discordanza ineliminabile del reale, le tendenze disgregatrici dell’epoca moderna, limitandosi a opporre un’artificiosa armonia e verità al “morbo” beffardo e disgregatore di quello scetticismo assoluto appena velato dal piatto prosaicismo del quotidiano.

Bisogna, dunque, chiedersi in che modo Brecht pensasse di poter superare questo doppio ordine di difficoltà, adempiendo però ad entrambi i compiti che la contraddittoria espressione di teatro epico imponeva senza dover, perciò, rinunciare all’esigenza di una superiore ricomposizione drammatica. La questione è estremamente complessa, tanto più che lo stesso Brecht sembra rinviarne continuamente la soluzione in quanto non sembrava in grado, o forse semplicemente non era intenzionato, a rispondervi in modo diretto, non accontentandosi di risultati parziali o unilaterali. Neppure l’appello agli ultimi scritti di Brecht è in grado di fornire un chiarimento definitivo a questo problema.

Certamente l’ultimo Brecht, in parte per difendere i punti deboli della sua teoria, in parte per far emergere le relazioni delle sue idee con la tradizione, in parte, infine, per ricucire la polemica con Lukács – di cui in questi ultimi anni aveva accettato almeno parzialmente le critiche – si ripropose di sostituire la definizione di teatro epico con un’altra maggiormente appropriata al nuovo compito espressivo e meno atta a creare equivoci. 

Qualche elemento utile in questo senso Brecht sembra indicarlo in alcuni brevi frammenti composti probabilmente nel 1955 e raggruppati dopo la sua morte seguendo delle indicazioni da lui lasciate. In particolare in un frammentario scritto di questi anni, Teatro epico e teatro dialettico, si trova un’importante dichiarazione di intenti: “ora si sta facendo il tentativo di passare dal teatro epico al teatro dialettico” [3]. Tanto più che, come ci è testimoniato da Manfred Wekwert e da Käthe Rülicke, negli anni cinquanta Brecht si proponeva di rivedere la sua teoria drammatica ponendo maggiormente attenzione ai suoi aspetti dialettici.

Ciò non significa, però, un puro e semplice rifiuto dei risultati precedenti – “secondo il nostro modo di vedere e la nostra intenzione, la prassi e il concetto globale del teatro epico non erano assolutamente antidialettici; e senza l'elemento epico nessun teatro dialettico potrà sussistere” – e tuttavia Brecht ha in mente “una trasformazione abbastanza profonda [Ziemliche grosse Gestaltung]” [4]. Benché non intendesse rinunciare alla sua passata riflessione sulla drammaturgia epica, in cui non era certo assente la componente dialettica, egli ne avvertiva chiaramente le insufficienze. Dal resto del frammento, però, non veniamo a sapere tanto di più su questa progettata trasformazione. Di essa sappiamo soltanto una cosa: deve essere dialettica.

Non è, però, semplice rintracciare nei pochi scritti contemporanei o posteriori, del resto molto spesso frammentari anch’essi, delle evidenti tracce di questa trasformazione, né degli indizi inequivocabili della direzione in cui avrebbe dovuto compiersi. Anche gli altri brevi frammenti, raggruppati sotto il promettente titolo di Teatro epico e teatro dialettico, sembrano contenere pochi elementi nuovi utili alla comprensione del concetto di “teatro dialettico” [5]. 

Brecht non manca di sottolineare, in tali frammenti, l’importanza che ha avuto per la sua riforma drammaturgica l’introduzione nella forma drammatica tradizionale della funzione narrativa, consentita appunto dall’impostazione epica, e la necessità che lo stesso spettatore sia portato a farsi parte attiva di questa struttura narrativa che dà forma al nuovo dramma. Egli ricorda, inoltre, la funzione “strumentale” che ha svolto in questo processo di rivoluzione drammaturgica il termine “teatro epico”. Una volta, però, che “l’elemento narrativo implicito in ogni tipo di teatro” sia stato adeguatamente sottolineato e rafforzato, una volta che questo processo sia stato adeguatamente recepito dalla coscienza culturale del tempo, la sua funzione deve ritenersi esaurita. Non appena “esso ha assolto il proprio compito” può, anzi, deve essere sostituito con un termine maggiormente adeguato ad evidenziare i compiti del nuovo dramma. Bene inteso: “ciò non significa affatto tornare indietro” [6]. 

La lunga sperimentazione del teatro epico deve rappresentare la base del teatro del futuro, la peculiarità del quale, la sua stessa novità, consisterà proprio nella capacità di sviluppare consapevolmente “certi tratti – quelli dialettici – del teatro precedente”. Se ora, sulla base di queste enunciate peculiarità, sappiamo che la stessa definizione di teatro epico appariva al suo autore “del tutto generica, vaga, quasi formalistica” [7], troppo poco ancora sappiamo di questa dialettica che dovrà assumere un ruolo così importante nel nuovo teatro. 

Purtroppo, mancano quasi del tutto negli scritti degli ultimi anni delle precise definizioni, delle delucidazioni che permettano di stabilire una volta per tutte il significato attribuito da Brecht al concetto di dialettica, tanto più che appare estremamente difficile determinare inequivocabilmente il valore semantico del termine stesso per le molteplici sfumature di senso che assume nei diversi contesti in cui è impiegato [8]. 

Note:

[1] Cfr. Schumacher, E.,  Brecht. Theater und Gesellschaft im 20. Jahrhundert, Henschelverlag, Berlin 1981, p. 8.

[2] Come ha osservato John Willet, il genere epico era caratterizzato dalla “stessa debole connessione fra gli avvenimenti che ritroviamo nelle «histories» shakespeariane o nel romanzo picaresco, ed è in questo senso che il termine veniva usato dagli scrittori tedeschi del settecento – per esempio, Goethe e Schiller nella loro corrispondenza o il precursore di Büchner, Lenz.” Willet, John, The Theatere of Bertolt Brecht. A study from eight aspects, Methuen, London 1959, tr.it. di E. Capriolo, Id., Bertolt Brecht e il suo teatro, Lerici, Milano 1961, pp. 241-42.

[3] Brecht, Bertolt, Schriften zum Theater, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1957, tr. it. e cura di Castellani, E., Id., Scritti teatrali, 3 voll., Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 280.

[4] Ibidem.

[5] Brecht, del resto, utilizzava il concetto di dialettica già nel 1920 (cfr. Brecht, B., Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K. Delef-Müller, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-2000, 30 voll., vol. 21, p. 48) e già nel 1931 aveva definito dialettica la sua drammaturgia (cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a.M. 1967, 20 voll., vol. 15, pp. 211 ss).

[6] Id., Scritti teatrali…op. cit., vol. II, p. 281.

[7] Ibidem.

[8] Sono talmente diverse e difficili da determinare con precisione le accezioni con cui questo termine è utilizzato da Brecht che anche i critici che sembrano averlo accettato come inequivocabile soluzione alle aporie del teatro epico incontrano poi delle difficoltà non trascurabili a spiegare fino in fondo questa loro presunta panacea.

14/04/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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