Giulio Cesare Vanini: un precursore del materialismo e della laicità del pensiero (Parte III)

In questa terza e ultima parte del nostro sguardo sul pensiero di Vanini, si entra nel merito dei contenuti filosofici che il filosofo mette in campo e la sua visione del mondo materialistica e irreligiosa.


Giulio Cesare Vanini: un precursore del materialismo e della laicità del pensiero (Parte III)

Lo strumento della dissimulazione, descritto nella seconda parte di questo articolo, viene utilizzato da Giulio Cesare Vanini per veicolare importanti contenuti filosofici tentando di aggirare (purtroppo senza successo, come si è visto nella prima parte di questo articolo) la feroce repressione in atto all’epoca.

L’attacco alla tradizione è la premessa che sta alla base di tutti gli altri contenuti. Per tradizione si intende la cultura dominante del tempo e le sue fonti, soprattutto l’aristotelismo scolastico. Vanini utilizza la ragione per distruggere la tradizione e lasciar serpeggiare di rovina in rovina la sua secretior philosophia [1], che getta una luce nuova sul futuro dell’uomo e sul suo pensiero. L’intento di Vanini non è infatti solo distruttivo: egli dice: “tutto ciò che è nuovo modifica profondamente la sensibilità”, in altre parole, il nuovo non si limita a azzerare il vecchio, ma produce mutamenti. Per Vanini è fortissimo lo slancio verso la possibilità di cambiare i modi di vita e di pensiero dell’uomo.

In questa ottica, l’attacco al principio di auctoritas è netto – “Benché esse [obiezioni] siano di Aristotele, non le stimo un fico secco” [2] – e viene sempre tutto riportato all’indipendenza di pensiero. Svariati contenuti delle dottrine aristoteliche vengono confutati utilizzando le tecniche di dissimulazione elencate prima, mentre vi si contrappongono, mascherate dalla citazione, dottrine di stampo materialistico, formalmente esecrate come copertura ma rese in realtà molto convincenti. La deresponsabilizzazione dell’autore rispetto ai contenuti eretici avviene con diversi sotterfugi, per esempio con battute autoironiche (“la Luna, che alla mia nascita era piena, mi ha reso volubile” [3]) o con l’uso di scenari ad hoc, per esempio quello del pranzo che permette agli interlocutori di introdurre l’idea dell’influenza dei processi naturali come la digestione sulla psiche.

Parallelamente al rifiuto del principio di auctoritas troviamo quello del consensus gentium, ossia al valore di verità dato dall’opinione della maggioranza, dei molti, presente già in Bruno e importante nel successivo libertinismo.

Ulteriori attacchi alla tradizione sono rappresentati dalla critica all’antropocentrismo, all’idea che l’uomo sia un essere intermedio fra mortale e divino, alle teorie del tempo riguardo alla storia del mondo e all’origine dell’uomo (nel dialogo XXXVI del De admirandis intitolato “La generazione del primo uomo” vengono espresse idee che per certi versi anticipano le successive teorie evoluzionistiche, ovviamente attribuite a non meglio identificati “Atei” e riferite in modo scandalizzato dall’autore: “fantasticarono che il primo uomo sia nato dalla putredine di scimmie, di porci e di rane. A tali animali, in fatti, egli è molto simile nella carne e nei costumi” [4] o “vanno dicendo che i primi uomini camminavano curvi allo stesso modo dei quadrupedi” [5]). I luoghi tradizionali di formazione sono irrisi nel loro sterile e farraginoso trasmettere dogmi anziché fare una seria ricerca scientifica (“ti prego, lasciamo questi argomenti ai vecchi dotti della Sorbona e … esercitiamo il nostro ingegno in questioni filosofiche” [6]).

Un altro contenuto che Vanini comunica attraverso la dissimulazione – e che lo collega anch’esso al pensiero libertino – è l’attacco al finalismo. La demolizione dell’idea di provvidenza e la concezione di un universo non regolato da fini fanno parte del progetto più generale di escludere qualsiasi principio che sia esterno alla natura e al suo divenire meccanico e autosufficiente. È interessante notare come in certi passi di Vanini il finalismo venga invalidato restando volutamente nel suo stesso ambito di ragionamento, in un procedimento “per assurdo”, in modo che la sua smentita sia ancora più inattaccabile. Esemplare è la parte dell’Amphiteatrum dedicata alla questione dell’esistenza dei mostri, dove Vanini con intelligente umorismo finge di conciliare la loro esistenza con una visione teleologica, e dice che il loro fine è “la bellezza dell’universo” perché fanno apparire Dio “come artefice più degno di ammirazione”.

Anche i contenuti dottrinali e le forme di culto della teologia cattolica sono presi di mira da Vanini. Questo suo attacco alla teologia ha come base l’idea fondamentale della relatività storica di tutte le religioni. Un intero dialogo del De admirandis (il LII) è dedicato a questo tema, dove si esamina nascita, evoluzione e scomparsa dei culti pagani e con ciò si sottintende la storicità di tutte le religioni, minando l’assolutezza del cristianesimo. I fenomeni sociopolitici e religiosi, vengono concepiti come ciclici, legandosi al concetto pomponazziano di “oroscopo delle religioni”, in un ambito in cui la scienza astrologia è posta a base della filosofia della storia. Tutti i grandi avvenimenti umani (religioni comprese), non rinviano a nulla di trascendente bensì sono spiegabili nell’ambito di una causalità del tutto naturale. Vanini parte dunque dalla spiegazione atrologico-naturalistica di Pomponazzi ma va oltre, inserendo il tema dell’impostura religiosa (dice chiaramente che i miracoli “furono imposture dei sacerdoti”) e dell’uso politico della religione: le religioni (al plurale, perché siamo in ambito di relativismo storico) sono prodotti umani e vengono utilizzate politicamente a salvaguardia dei poteri attivi nelle diverse società (Machiavelli è evidentemente un’altra fonte fondamentale per Vanini).

Inserendo i contenuti scottanti in una cornice innocua pretestuosa, Vanini demolisce i principali fondamenti teologici cristiani, come l’immortalità dell’anima, l’idea di creazione, la stessa idea di Dio, i sacramenti, i miracoli… in sintesi, traccia una netta distinzione fra verità di fede e verità di ragione, negando però, a differenza della averroistica dottrina della doppia verità, ogni dignità alla prima.

Incastrata e scomposta nel testo come un rebus troviamo l’affermazione emblematica “vel Deus… vel Vaninus”.

Compatibilmente col contesto storico in cui vive, Vanini formula teorie a carattere scientifico che lo rendono molto proiettato verso il futuro. L’intento di una interpretazione scientifica del mondo è il presupposto dell’opera vaniniana. Nello spiegare tutti i fenomeni su basi materiali, include anche aspetti sociali: per esempio in un dialogo intitolato Gli affetti dell’uomo in cui parla della “irascibilità” della donna, non solo nega ogni origine demoniaca o sovrannaturale di tale caratteristica, riportandola sul piano fisico, ma la lega anche alle differenti condizioni materiali di vita, alla condizione economica e sociale della donna stessa. La spiegazione di ordine fisico-naturale si compenetra con l’aspetto socio-culturale. Anche nell’affrontare il tema della stregoneria, essa è collegata alle condizioni materiali di vita che favoriscono ignoranza e superstizione.

Vanini affronta con mentalità scientifica (anche se ovviamente distante dai presupposti del pensiero scientifico a lui successivo) la spiegazione di svariati fenomeni naturali in campo geologico, astronomico (dove propone l’idea copernicana di movimento della Terra), biologico ecc., in tal modo ribadendo la negazione dei dogmi creazionistici e finalistici della teologia.

Come abbiamo visto ateismo e materialismo connotano, attraverso la dissimulazione, tutto il dispiegarsi dei molteplici temi toccati nelle opere di Vanini. L’universo di Vanini è regolato da meccanismi materiali indagabili scientificamente, e viene negata ogni forma di trascendenza. Da sottolineare che l’indipendenza ontologica del mondo fisico si traduce anche nella possibilità per l’uomo di agire su di esso e modificarlo. Notevole il passo in cui dice che “niente è nell’intelletto se prima non è passato attraverso i sensi” [7], proponendo una gnoseologia di tipo induttivo, del tutto legata alla sfera sensibile dell’individuo. In un altro passaggio, utilizzando strumentalmente Talete e Cardano, monta una disquisizione sull’elemento acqua giungendo a proporre l’idea di una materia unica, eterna e in perenne trasformazione. Introducendo il tema dell’oro, lo definisce dissacrantemente “l’ente sommo”, e il lettore a cui si rivolge non farà fatica a capire che l’ente sommo, che sostituisce Dio, non è altro che la materia [8]. Svariati fenomeni di presunta origine sovrannaturale sono riportati dentro una spiegazione naturalistica, così come le malattie sono spogliate di ogni risvolto etico-morale (punizioni divine), nell’ambito di una descrizione totalmente fisiologica del corpo umano e della sua interazione meccanica con l’ambiente naturale. Le capacità divinatorie sono riportate all’“umore melanconico". Persino le passioni dell’uomo sono collocate su un piano materialistico, private di ogni aspetto metafisico, e non c’è soluzione di continuità fra ragione e istinto.

In campo etico, il materialismo di fondo porta a mettere la natura alla base di ogni norma di comportamento e di valutazione morale. In particolare la sfera sessuale viene spogliata dalla connotazione peccaminosa e da finalità divine. La sessualità è pienamente emancipata dall’ambito in cui la relega l’etica cristiana e la sua libera espressione è alla base della connotazione di “nobiltà” che acquista il piacere a essa legato, “sacrosanto” decreto di natura. Il piacere fisico viene descritto in diversi passaggi dettagliati e per l’epoca scabrosi [9] in modo da prospettare una sessualità vissuta in modo libero e istintivo.

Infine, la salvaguardia della libertà di pensiero si configura come ragione stessa di esistenza della dissimulazione. Una volta distrutti i principi di auctoritas e di consensus gentium ed emancipato il pensiero dalla pressione di qualunque dogma, il sapere diventa un dinamico progressivo arricchimento fatto attraverso nuove scoperte e revisione degli errori passati. La libera ricerca è esposta a immediato pericolo di morte nel contesto storico repressivo in cui vive Vanini: questo è il dato di fatto che Vanini ha in mente nel procedere con lo scudo protettivo della dissimulazione. In certi passaggi, nel tipico cambiare argomento quando la questione si fa scottante, scrive candidamente che lo fa perché ci tiene alla pelle. Questo passo dell’Amphiteatrum, sarcastico e potente, riassume la sua condanna e sdegno verso i mezzi violenti di repressione della Chiesa: “Cadono, e vanno in rovina … le eresie, in quanto quegli eroi fortissimi della Chiesa militante, che chiamiamo Gesuiti, impegnano tutti gli espedienti fisici e spirituali per annientarle e per distruggerle” [10].

 

Note:

[1] Nelle prime pagine del De admirandis l’interlocutore del dialogo chiede a Giulio Cesare (Vanini): “Hai tu tale invidia della gioventù del nostro secolo da non permetterle di gustare neppure una goccia delle ricchissime fonti della tua filosofia più segreta?” – Giulio Cesare Vanini, De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis – edizione italiana: Dei meravigliosi segreti della natura, a cura di F. P. Raimondi e L. Crudo, Congedo editore, Galatina (Lecce), p. 3.

[2] Ibidem, p. 193.

[3] Ibidem, p. 172.

[4] Ibidem, p. 233.

[5] Ibidem, p. 234.

[6] Ibidem, p. 235.

[7] Ibidem, p. 346.

[8] Ibidem, p. 95.

[9] Per esempio nel dialogo XLVIII intitolato “Il tatto e il titillamento” – Ibidem.

[10] Giulio Cesare Vanini, Amphiteatrum aeternae Providentiae - edizione italiana: Anfiteatro dell’eterna Provvidenza, introduzione di A. Corsano, curatori F. P. Raimondi e L. Crudo, Congedo editore, Galatina (Lecce), p. XIII.

24/06/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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