Il rapporto fra insegnamento e divertimento nel dramma di Brecht

Brecht riteneva che la coscienza della tragica serietà della condizione dell’individuo moderno facesse dell’ironia un presupposto indispensabile all’attività poietica. La produzione brechtiana è caratterizzata dal continuo intrecciarsi di una prospettiva ironica, capace di rimettere in questione la prosaicità contemporanea, e di una comicità amara volta a impedire ogni illusione nel potere consolatorio dell’esperienza estetica.


Il rapporto fra insegnamento e divertimento nel dramma di Brecht

La poliedricità che il nuovo dramma brechtiano contrappone all’univocità del vecchio non deve significare, però, il definitivo abbandono della possibilità stessa di ricomporre in qualche modo questa maggiore complessità. Una qualche unità è, in effetti garantita, pur nell’apparente disorganicità su cui sembra strutturarsi il nuovo dramma, dal tono “epico” con cui l’autore presenta la sua materia ed i suoi personaggi. 

Dietro la distanza e la freddezza con cui Brect costruisce “epicamente” personaggi e situazioni si cela una profonda ironia per diversi aspetti affine all’ironia romantica, almeno nella forma che essa ha assunto negli scritti di Friedrich Schlegel e nei drammi di Tieck. Come in questi autori, in Brecht l’ironia non si abbassa mai a colpire un personaggio o una situazione particolare, non è mai vuoto scherno, ma avvolge l’intera pièce, disgregando sottilmente, quasi impercettibilmente, le diverse posizioni delle dramatis personae, costrette dalla stessa forma drammatica a presentare il loro particolare punto di vista come assoluto. Brecht riteneva che proprio la coscienza della tragica serietà della condizione dell’individuo moderno facesse dell’ironia, della parodia, dei presupposti indispensabili alla stessa attività poietica. La tarda produzione brechtiana è caratterizzata dal continuo intrecciarsi di una prospettiva ironico-giocosa, capace di rimettere in questione la prosaicità contemporanea, e di una comicità amara, di un risentito grottesco, volti ad impedire ogni illusione in un qualche potere consolatorio dell’esperienza estetica

D’altra parte in Brecht l’ironia non si limita più allo sguardo superiore che l’autore getta sulle proprie creature, al sorriso con cui contempla il loro vano sforzo di liberarsi dai fili con i quali le muove, compiacendosi allo stesso tempo di esse perché frutto della propria fantasia, semplici tasselli della superiore armonia cui ha ridotto la disparità della materia e dei personaggi. L’ironia, quindi, non ha più la funzione di smascherare il carattere totalmente fittizio dell’opera, non mira più a ridurre a vano segno, a vuota finzione scenica l’orizzonte veritativo cui l’arte, per sua stessa essenza, tende. 

Allo stesso modo, la contemplazione distanziata dei propri personaggi non ha più unicamente la funzione di ridurli a semplici proiezioni dell’autocoscienza dell’autore. Ogni personaggio si nega al ruolo di semplice portavoce dell’autore per imporsi, nella sua irriducibile individualità, come portatore di una delle diverse voci che concorrono nel loro insieme a dar vita alla polifonica armonia che costituisce la struttura portante dell’opera brechtiana. Una struttura dialogica volta a dare piena rappresentanza alle diverse concezioni del mondo di cui si fanno latori i personaggi. Concezioni che, se pur in stridente contrasto l’una con l’altra, non si sovrappongono, non si annullano in un’idea unitaria stabilita a priori dall’autore. L’autore deve limitarsi, per salvaguardare quell’ironico gioco di contrasti su cui l’opera si struttura, a negare ogni posizione che, nella sua unilaterale singolarità, pretenda di valere come assoluta [1]. Le stesse concezioni dell’autore, che attraverso l’io epico si fa personaggio tra i personaggi, debbono collocarsi in questo gioco ironico. Esse, pur aspirando a imporre la loro individuale tendenza all’orizzonte veritativo, non si possono arbitrariamente sottrarre alla legge generale dell’ironia che regola e relativizza il punto di vista di ogni individualità agente. I personaggi si collocano, infatti, a pari diritto al fianco dell'io epico – proiezione del punto di vista dell’autore – e sono liberi non solo di non condividerne le opinioni, ma persino di metterle in discussione. In altri termini, l’io epico dell’autore non ha più la funzione di un direttore del coro che guidi lungo la strada già fissata dal tema dominante le singole voci dei personaggi. Egli deve essere considerato un solista come un altro, forse in qualche modo più autorevole, tutto assorto però come gli altri in continue variazioni, in improvvisazioni e divagazioni sul tema generale proposto, ma non imposto, dalla struttura dell’opera. Si ha così un’incredibile pluralità di voci, di singole e problematiche autocoscienze che intrecciano continuamente tra loro un instancabile e acceso dialogo sui grandi temi dell’uomo e della società. Un fitto dialogo che deve coinvolgere al proprio interno lo spettatore, costantemente chiamato in causa in quanto è l’unico che dall’esterno, da una posizione privilegiata, ha la possibilità di sciogliere in qualche modo quell’intricato nodo di prospettive diverse e contrastanti, in continuo confronto-scontro tra loro.

Per Brecht, in effetti, “non è sufficiente per l’istruzione dello spettatore che un avvenimento abbia luogo; esso non è compreso se è solo visto” [2]. L’arte non poteva, quindi, limitarsi a un’impressionistica riproduzione del proprio oggetto, ma tale oggetto doveva esser estrapolato dalla serie dei nessi causali che lo legavano al mondo empirico e reinserito nella totalità dotata di senso dell’opera. Brecht scrive, infatti, che “si può riconoscere un oggetto solo in quanto lo si trasforma” [3], ma questo significa concretamente: in quanto lo si mette la realtà alla prova, in quanto lo si sperimenta. Brecht condannava, perciò, quell’ipertrofia della riproduzione dell’apparenza delle cose rivolta unicamente all’aspetto esteriore del fenomeno. In questo modo andava perduto il carattere funzionale del fenomeno rispetto all’esecuzione del compito espressivo. Non si permetteva, così, all’autore e, tanto meno, allo spettatore di porsi al di là dell’apparenza quotidiana delle cose per coglierne il legame reciproco

Brecht riteneva altresì necessario ricomporre, in qualche modo, l’apparente contraddizione tra la vocazione veritativa dell’arte ed il piacere estetico. Ogni intensificazione del primo aspetto, infatti, sembra portare necessariamente con sé un indebolimento del secondo. Brecht, cosciente delle carenze e unilateralità presenti nella sua teoria, cercò con il Kleines Organon di riequilibrarla, recuperando alcuni aspetti restati fino a quel momento in secondo piano. Alla componente didattica vennero così affiancati gli elementi necessari al godimento estetico [4].

Brecht osserva che lo stesso potenziamento del momento conoscitivo, raggiunto grazie all’assunzione nell’opera di nuovi ambiti contenutistici legati al mondo moderno, ha permesso di riconquistare all’arte una parte del suo valore sociale, ma sembra andare a tutto discapito dell’esperienza peculiarmente estetica. Se l’arte deve mantenere una funzione formativa, in quanto mira a restituire una rappresentazione il più possibile universale del mondo, essa deve rappresentare al tempo stesso il suo contenuto concretamente, in immagini. L’importanza assegnata al momento riflessivo e astraente non deve significare, allora, il dominio di un astratto contenuto sul potere figurativo, sulla ricchezza metaforica dell’opera. La stessa presa di coscienza del pubblico non può essere raggiunta, in effetti, con il solo utilizzo di strumenti intellettuali, dato che il tratto specifico dell’arte consiste nel permettere allo spettatore di raggiungere la conoscenza solo attraverso quel gioco vivo delle passioni, che dà concretezza alla rappresentazione artistica nella sua tensione a proporsi come espressione sensibile del sovrasensibile.

A questa esigenza si aggiunge ora, nella riflessione di Brecht, quella di un’opera che non costringa più il pubblico ad abbandonare il distacco critico indispensabile alla comprensione dell’evento rappresentato. Da ciò deriva tutta l’importanza assegnata da Brecht al momento della sospensione nell’ambito denotativo dell’opera. La nuova arte drammatica, allora, non può più sottrarsi al compito di palesare la natura illusionistica del gioco scenico se intende coinvolgere attivamente lo spettatore nel suo sforzo di ri-composizione degli elementi del reale. A questo scopo era necessario reimpostare radicalmente il rapporto palcoscenico-platea, rendendo innanzitutto perspicuo il rapporto interprete-personaggio.

Brecht intende rendere il pubblico consapevole del dualismo di fondo insito nella funzione stessa dell’attore, quale veicolo segnico scenico per eccellenza. Mentre il teatro fondato sull’immedesimazione dell’attore nel suo personaggio e del pubblico nell’attore tende di necessità a occultare la presenza fisica e sociale dell’attore nella sua funzione simbolica di semplice organo di trasmissione del testo dell’autore, nel teatro epico egli deve mettere ben in evidenza la sua funzione rappresentativa, segnica. In altri termini, benché l’interprete debba rappresentare sulla scena il suo personaggio, ne deve al tempo stesso narrare le gesta. Egli non deve nascondere allo spettatore la maggiore coscienza che ha del corso dell’azione rispetto a quella del personaggio che rappresenta. L’attore per non restare mero veicolo scenico del testo drammatico deve, allora, trasmettere il testo mettendone bene in evidenza le virgolette, deve, cioè, evidenziare in tutta la sua pregnanza quel processo di semiotizzazione implicito necessariamente in ogni rappresentazione scenica.

 

Note:

[1] Nei primi anni cinquanta, in una discussione con il critico Ernst Schumacher, Brecht ha osservato: “il teatro può cogliere i problemi di oggi solo in quanto siano i problemi della commedia. Tutti gli altri si sottraggono alla raffigurazione diretta. La commedia ammette soluzioni, la tragedia – nel caso che ancora si creda alla sua possibilità – no. La commedia rende possibile, anzi necessariamente determina la distanza e con ciò una chiara comprensione dei nessi” E. Schumacher, “Er wird bleiben”, in Neue Deutsche Litteratur n. 10, Berlino 1956, ora anche in a cura di H. Witt, Erinnerungen an Brecht, Leipzig 1964, p. 22. Come ha scritto Chiarini, la necessità di una trattazione ironica della tragicità contemporanea accomuna Brecht sia a Thomas Mann che al Musil de L’uomo senza qualità e, si potrebbe aggiungere, anche a Joyce. Anzi, in un certo senso fu proprio la situazione di crescente complessità e astrazione, ma anche di grottesca assurdità che caratterizzano la nostra epoca, a spingere questi autori a servirsi dell’ironia come mezzo critico espressivo per eccellenza.

[2] B. Brecht, Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a. M. 1967, vol. 15, p. 526.

[3] Id., Gesammelte Werke, op. cit., vol. 20, p. 172.

[4] Anche il precedente atteggiamento di rifiuto nei confronti dell’arte e dell’estetica della tradizione, soprattutto di quella classica, fu, almeno in parte, rivisto da Brecht. Tuttavia, come è chiaro già dal titolo di quest’opera, si trattava di soluzioni provvisorie. Brecht in questo “piccolo” Organon si era limitato ad individuare i punti carenti della precedente riflessione, mentre la sua nuova teoria doveva essere affrontata in un “grande” Organon, che il poeta, morto di lì a poco, non riuscì mai a comporre.

11/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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