Il salario reale

Lo sviluppo delle forze produttive non solo semplificando il lavoro aumenta la concorrenza fra i lavoratori, ma anche fra forza-lavoro viva e morta. Cioè le macchine tendono a sostituirsi progressivamente ai salariati. In ultima istanza, dunque, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, in particolar modo la forza sociale dei lavoratori stessi, non soltanto non è loro pagata ma è diretta contro di essi.


Il salario reale

Pur aumentando le possibilità del lavoratore salariato di soddisfare i propri bisogni, il godimento sociale che essi dovrebbero assicurare al contrario diminuisce “in confronto con gli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio, in confronto con il grado di sviluppo della società in generale. I nostri bisogni e i nostri godimenti sorgono dalla società; noi li misuriamo quindi sulla base della società, e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa” [1]. La posizione sociale dei salariati peggiora nella misura in cui si accentua la disparità fra il livello di vita loro e quello della classe dei padroni. Perciò, nella misura in cui “il potere della classe capitalista sulla classe operaia è aumentato, la posizione sociale del lavoratore è peggiorata, è stata sospinta un gradino più in basso al di sotto di quella del capitalista” [2]. Il salario reale va sempre considerato una grandezza non fisica ma sociale e, dunque, inversamente proporzionale al profitto del capitalista, cioè al livello di sfruttamento della forza-lavoro. Anche se il salario nominale crescesse, ma aumentasse il plusvalore nella stessa o in misura superiore, il prezzo di costo della forza-lavoro, ovvero il salario reale rimarrebbe eguale o diminuirebbe. “Il capitalista, prolungando la giornata di lavoro, può pagare salari più elevati, e ciò nonostante ridurre il valore del lavoro se l’aumento del salario non corrisponde alla maggiore quantità di lavoro estorto e al conseguente più rapido logoramento della forza-lavoro” [3]. Dunque se è vero che l’aumento del salario è favorito dalle fasi di sviluppo della produzione e molto più difficilmente, se non per niente, in fasi di crisi in cui aumenta la disoccupazione e quindi l’offerta di forza-lavoro in relazione alla diminuita domanda, tuttavia la comunanza di interessi fra salariati e capitalisti anche in tali fasi è solo apparente. In tali fasi lo sviluppo dei profitti in relazione ai salari è molto più rapido e quindi aumenta anche la potenza del capitale di contro alla forza-lavoro: “in altri termini, il lavoratore non può raggiungere condizioni di vita sopportabili che a condizione di produrre e rafforzare la potenza a lui ostile, la sua stessa antitesi” [4]. Lo sviluppo delle forze produttive non solo semplificando il lavoro aumenta la concorrenza fra i lavoratori, ma anche fra forza-lavoro viva e morta, cioè le macchine tendono a sostituirsi progressivamente ai salariati. Inoltre, “via via che il capitale produttivo si sviluppa, cresce la concorrenza tra i lavoratori, dato che la divisione del lavoro è semplificata e che ogni tipo di lavoro è più accessibile a tutti. La concorrenza tra i lavoratori aumenta, inoltre, perché essi entrano anche in concorrenza con le macchine stesse che li gettano sul lastrico” [5]. In ultima istanza, dunque, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, “in particolar modo la forza sociale dei lavoratori stessi, non soltanto non è loro pagata ma è diretta contro di essi” [6].

La riproduzione allargata del capitale, che ha in sé la tendenza alla costituzione del mercato mondiale, deve allargando la produzione aumentare il monte salari complessivo a livello mondiale, cioè ridurre allo stato di proletari una parte sempre crescente della popolazione per aumentare in termini assoluti il plusvalore estorto. D’altra parte ha la tendenza opposta a ridurre il tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro e ad aumentare con il pluslavoro relativo anche il plusvalore intensificando i ritmi di produzione e eliminando ogni momento morto (il tempo libero va ridotto al massimo in quanto non è produttivo) non solo all’interno della giornata di lavoro, ma anche nella parte restante sempre più interamente destinata alla sola riproduzione della forza-lavoro. La riorganizzazione dei cicli produttivi grazie all’automazione del controllo, consentita dalla cosiddetta rivoluzione informatica, e al controllo assoluto del comando sul lavoro dopo la sconfitta del movimento operaio negli anni ottanta accresce con l’intensità dello sfruttamento della forza lavoro anche la condensazione e la saturazione volta alla cancellazione di ogni tempo morto per massimizzare l’estorsione di pluslavoro.

L’aumento della giornata-lavorativa in termini assoluti (durata) o relativi (intensità e aumento della parte destinata a creare il plusvalore) costituiscono un oggettivo attacco al salario reale e, dunque, come ricordava Marx, gli operai dovrebbero scrivere sulla loro bandiera: riduzione della giornata lavorativa (ovviamente a parità di salario e di ritmi). Da questo punto di vista le parole d’ordine che hanno sostituito la riduzione d’orario in questi ultimi anni: lavori socialmente utili (che nel modo di produzione capitalistico sono quelli che favoriscono l’estorsione di plusvalore), reddito di cittadinanza, autoproduzioni, non profit ecc. vanno considerati come residui del radicalismo piccolo-borghese del socialismo utopista che si illude di potere trasformare dall’interno il sistema capitalista rifugiandosi in spazi liberati dalla logica del profitto. Ovviamente la lotta per la riduzione d’orario, che come ricorda Marx può essere ottenuta solo per via legislativa, ha dei prerequisiti indispensabili: la lotta al cottimo, in cui lo stesso tempo di impiego della forza-lavoro sembra scomparire, alla delocalizzazione della produzione a sub-fornitori che appaiono come lavoratori autonomi per quanto siano completamente eterodiretti, al lavoro a domicilio e al ricorso sempre più conveniente per le imprese al lavoro straordinario. La questione della riduzione dell’orario di lavoro è particolarmente attuale nella nostra epoca in cui sempre più il capitale tende a soggiogare non solo la forza-lavoro maschile, ma anche la femminile; per cui, se il reddito da lavoro per nucleo familiare è aumentato nel complesso, esso corrisponde in realtà a un ulteriore abbassamento del salario, poiché esso non è certo raddoppiato, mentre è raddoppiato il monte ore che ogni nucleo familiare deve alienare al capitale. Senza contare che i lavori per la cura e la riproduzione della forza-lavoro finiscono per impiegare l’intero restante tempo dei due partner e aumentano in più le spese per sub-appaltarne le componenti che non possono essere direttamente svolte (a cominciare dalle baby-sitter, per arrivare alle badanti per le persone anziane) [7]. Ciò permette di comprendere le amenità di quanti sostengono oggi che l’intero tempo di vita è finalizzato alla valorizzazione capitalista; il che o è una banalità in quanto nel concetto di modo di produzione capitalistico il tempo libero non è per i lavoratori che un’utopia, oppure è un’idiozia che per altro occulta la natura reale dello sfruttamento capitalistico mediante l’estorsione di plusvalore. Infine, lo sviluppo delle forze-produttive tende a semplificare le mansioni, al contrario di quanti blaterano di lavoro immateriale e simili ameni tentativi della forza-lavoro intellettuale di difendere corporativamente i propri meschini privilegi. Più il lavoro si semplifica, più diviene noioso e estraneo più aumenta la concorrenza, più scende il prezzo della forza-lavoro dal momento che è meno specializzata. Per mantenere il proprio posto e il precedente tenore di vita il salariato sarà spinto a lavorare con maggiore intensità e a prolungare la giornata lavorativa con gli straordinari: “il risultato è il seguente: più egli lavora, meno salario riceve, e ciò per la semplice ragione che nella stessa misura in cui egli fa concorrenza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi compagni di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stesse cattive condizioni alla quali egli si offre, perché, in ultima analisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quanto membro della classe operaia” [8]. La concorrenza fra proprietari della sola forza-lavoro aumenta non solo quando la si offre a più buon mercato degli altri, ma anche quando si aumenta l’orario di lavoro in termini assoluti o relativi. D’altra parte, dal momento che sul mercato è sempre il prezzo più basso a dominare quello più alto, saranno sempre i disoccupati, il loro numero e il livello della loro disperazione (particolarmente alto per la forza-lavoro immigrata) a stabilire il prezzo e la condizione di lavoro anche degli occupati. Il peso determinante dell’esercito industriale di riserva sul prezzo della forza-lavoro – favorito dal fatto che il lavoratore non può rifiutarsi di vendere per un tempo troppo prolungato la propria forza-lavoro a un prezzo svantaggioso pena la fame – spiega perché la disoccupazione sia tenuta artificialmente alta dal capitale (con il ricorso a forza lavoro immigrata, meglio se clandestina) e il motivo della precarizzazione delle condizioni di lavoro dei nuovi assunti [9]. Ciò permette di comprendere quanto sia velleitaria la parola d’ordine della piena occupazione all’interno del modo di produzione capitalista, fonte di false illusioni piccolo-borghesi sulla possibilità di risolvere le contraddizioni sociali di tale sistema senza rinunziare agli assetti borghesi di proprietà. La valorizzazione del capitale necessita la sovrapproduzione di forza-lavoro per tenerne basso il prezzo, indispensabile all’incremento dei profitti.

 

Note:

[1] Marx, Karl, Il salario, Laboratorio politico, Napoli 1995, p. 41-42. Come osserva a tal proposito Marx: “una casa, per quanto piccola, fino a tanto che le case che la circondano sono ugualmente piccole, soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una casa. Ma se, a fianco della piccola casa, si erge un palazzo, la casetta si ridurrà a una capanna. La casetta dimostra ora che il suo proprietario non può far valere nessuna pretesa, o solamente pretese minime; e per quanto ci si spinga in alto nel corso della civiltà, se il palazzo che le sta vicino si eleva in egual misura e anche più, l’abitante della casa relativamente piccola si troverà sempre più a disagio, sempre più scontento, sempre più oppresso fra le quattro mura” ivi, p. 41.

[2] Ivi, p. 44.

[3] Id., Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 76.

[4] Id., Il salario, op. cit., p. 76. Condizione essenziale per l’aumento del salario è lo sviluppo più rapido possibile del capitale produttivo. Di conseguenza, la condizione essenziale perché il lavoratore si trovi in una situazione sopportabile è anche che egli peggiori sempre più la sua situazione rispetto a quella della classe borghese, cioè che aumenti il più possibile la potenza del suo avversario: il capitale.

[5] Ivi, p. 77.

[6] Ivi, p. 81.

[7] “Al posto dell’uomo che la macchina ha eliminato, la fabbrica occupa forse ora tre ragazzi e una donna. Il salario dell’uomo non avrebbe dovuto bastare per tre bambini e una donna?  Il salario minimo non avrebbe dovuto bastare per conservare e accrescere la razza? (…) ora vengono consumate quattro volte più vite operaie di prima, per guadagnare il sostentamento di una sola famiglia operaia” ivi, p. 56.

[8] Ivi, p. 54.

[9] “C’è d’altronde una legge generale per cui non ci possono essere due prezzi di mercato: il prezzo più basso domina (a pari qualità). Siano 1000 lavoratori di uguale qualificazione di cui 50 senza occupazione; il prezzo sarà allora determinato dai 50 disoccupati, non dai 950 che lavorano. Ma questa legge del prezzo di mercato si applica più rigidamente alla merce-lavoro che a qualunque altra merce, perché il lavoratore non può accumulare la sua merce; egli deve continuare la sua attività vitale o, privato dei mezzi di sussistenza, è condannato a morire” ivi, p. 62.

21/07/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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