La parabola dell’economia politica – Parte XIV: I concetti chiave della teoria marginalista

La scuola marginalista introduce nell’analisi eleganti e sofisticati algoritmi. Ma lo fa a scapito della capacità di rappresentare la realtà del capitalismo e le sue leggi di movimento. Ne viene fuori un Eden dove tutto funziona a meraviglia.


La parabola dell’economia politica – Parte XIV: I concetti chiave della teoria marginalista

Prosegue la rielaborazione di un mio articolo pubblicato dalla rivista dell’Università di Urbino “Materialismo Storico” n. 2/2021 (vol. XI) dedicato ai marginalisti.

Nel precedente articolo è mostrato come John Stuart Mill, abbia attuato – senza ammetterlo – una significativa rottura rispetto agli economisti classici, individuando un contributo del capitale e dell’utilità alla creazione di valore. Si tratta della più importante anticipazione della successiva scuola dei marginalisti per la quale i diversi tipi di reddito (salari, profitti e rendite) sono intesi come ricompensa per il contributo di ciascun fattore produttivo. Per ironia della sorte la corrente marginalista è denominata – impropriamente, vista questa importante rottura – anche neoclassica.

Se Stuart Mill aveva introdotto questo vero e proprio cambiamento di paradigma in maniera piuttosto confusionaria, ammettendo, almeno formalmente, un certo primato del lavoro, i marginalisti, più coerentemente, abbandonano del tutto ogni riconoscimento di questa supremazia ed eliminano ogni differenza fra il contributo del lavoro e il contributo del capitale

Tra gli ultimi decenni dell’800 e i primissimi decenni del secolo scorso, una serie di autori (Vilfredo Pareto, Carl Menger, Léon Walras, Alfred Marshall, William Jevons, Lionel Robbins, Eugen von Böhm-Bawerk, per rammentare i più noti), ciascuno dei quali vi immette qualche mattone, contribuiscono a costruire un nuovo edificio teorico che si contrappone alla critica marxiana attraverso ragionamenti sofisticati ed eleganti. Ragionamenti che però, anche rispetto agli economisti classici, sono un arretramento sia per la loro capacità di rappresentare le condizioni storiche specifiche della produzione capitalistica, sia per l’ampiezza del campo di indagine dell’economia politica, che infatti Robbins, in una sua celebre definizione ancora largamente impiegata, circoscrive allo “studio della condotta umana nel momento in cui, data un graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi” [1]), sia infine per l’utilità applicativa di tale teoria. 

Lo scopo della nuova “scienza” è quello di dimostrare le implicazioni logiche di gusti o bisogni dati a fronte della scarsità e piena versatilità, nel senso della facile sostituibilità fra di loro e della loro trasportabilità da una produzione all’altra, delle risorse, come pure della sostituibilità fra beni di diversi per raggiungere un determinato livello di soddisfazione del consumatore. Suo presupposto è l’esistenza di un homo oeconomicus in grado di prendere decisioni con la massima razionalità perché a perfetta conoscenza delle condizioni del mercato e delle soddisfazioni che si possono trarre da ciascun uso di tali risorse.

La concorrenza perfetta è considerata il regime “naturale” dei mercati. In tale regime ogni bene – non si parla più di merci, a conferma dell’assenza di considerazioni di carattere storico-sociale – viene offerto da un gran numero di imprese, ciascuna avente dimensioni talmente piccole che non le permettono di incidere sui prezzi di mercato, così come gli acquirenti che si muovono fra queste imprese in completa indifferenza. Il monopolio viene trattato solo come un’eccezione a questa regola. 

Pertanto, in questo mondo idealizzato e basato sull’individualismo metodologico, non vengono presi in considerazione i comportamenti delle classi sociali. Sarà invece la semplice somma dei comportamenti dei singoli atomi a determinare il risultato complessivo che, vedremo, costituirà l’ottimale allocazione delle risorse [2].

Il campo di indagine viene qui ristretto allo studio dell’allocazione ottimale dei fattori produttivi e all’ottimizzazione delle scelte dei consumatori, negando la possibilità che il potenziale produttivo resti sottoutilizzato (teoria della crisi), negando la dialettica fra le classi e astenendosi dalla ricerca delle determinanti dello sviluppo economico, cioè dallo studio di come ampliare la disponibilità di tale potenziale. 

Siamo di fronte in sostanza a una teoria dell’equilibrio di piena occupazione, stazionario, perfettamente concorrenziale, e senza classi sociali, nel quale esistono solo individui/atomi alla ricerca del massimo edonistico individuale e poveri di nessi sociali.

Da qui anche la nuova denominazione di questa disciplina: non più “Economia politica” ma “Economics” o, secondo la traduzione in auge in Italia, “Scienza economica”. Secondo questa nuova impostazione, il valore del prodotto discende dal grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori gli attribuiscono e dal grado di produttività dei fattori produttivi. 

Dal lato della soddisfazione dei bisogni individuali – cioè della domanda – si afferma la teoria dell’utilità marginale secondo cui, per il singolo consumatore, l’utilità di un determinato bene va diminuendo progressivamente: via via che il bisogno viene soddisfatto, l’utilità prodotta dal consumo di ciascuna dose aggiuntiva dello stesso bene decresce. Il consumatore ha così di fronte a sé un ventaglio di possibili consumi e ogni dose successiva di reddito disponibile verrà utilizzata per acquisire il bene che in ogni momento ha per lui una maggiore utilità marginale (l’utilità della dose finale). Un corollario di questo assunto è che un bene può avere valore solo in quanto scarso. Se se ne dispone in quantità illimitata la sua utilità marginale si azzera e con essa il suo prezzo. La scarsità è pertanto considerata un altro fattore costitutivo del valore.

Dati il “vincolo di bilancio”, cioè la disponibilità di denaro spendibile, e i prezzi di mercato, il consumatore può determinare il mix di beni acquistabili che massimizzi la sua soddisfazione. Questo comportamento viene modellizzato attraverso le curve di indifferenza, un fascio di curve che hanno convessità verso l’origine degli assi cartesiani, le quali rappresentano stati che vengono ordinati per livello di soddisfazione. Ciascuno di questi stati coincide con un determinato livello di appagamento raggiungibile con mix alternativi di consumi, essendo i beni perfettamente sostituibili tra di loro. Mentre la considerazione razionale del vincolo di bilancio e del rapporto fra i prezzi (rappresentati da una retta decrescente, in cui la pendenza rappresenta il rapporto fra i prezzi e la distanza dall’origine degli assi la dotazione di bilancio) consente di raggiungere la tangenza con quella curva di indifferenza che massimizza la soddisfazione individuale data la disponibilità finanziaria e il punto in cui tale curva viene toccata definisce il mix dei consumi che consente tale massimizzazione. Ogni altra curva di indifferenza o non tocca il vincolo di bilancio, e pertanto rappresenta un livello di soddisfazione irraggiungibile, o lo interseca in due punti e rappresenta un livello di soddisfazione inferiore al massimo possibile. 

Naturalmente, all’aumentare del prezzo di un bene si determina una riduzione della sua domanda in quanto il consumatore razionale modifica il proprio paniere di acquisti riducendo questo bene e sostituendolo con un altro. La curva della domanda ha quindi un andamento decrescente: all’aumentare del prezzo diminuisce la quantità domandata. Lo stesso discorso vale per la domanda dei mezzi di consumo in quanto anch’essi, come vedremo, si assumono come perfettamente sostituibili tra di loro e aventi produttività marginale (quindi utilità marginale) decrescente. Cioè il contributo alla produzione del singolo fattore produttivo decresce progressivamente qualora si introducano nella tecnica di produzione data successive unità del fattore stesso. Per esempio, se i fattori sono un determinato “bene capitale” e il lavoro, ferma restando una data quantità di capitale, ogni unità di lavoro aggiuntivo introdotto è meno redditizia di quelle impiegate precedentemente. Un altro presupposto è quindi che esista almeno un fattore “scarso”, non solo in generale, come lo sono tutti quelli aventi un mercato, ma nell’ulteriore senso che non è incrementabile nel breve periodo.

La nota funzione della produzione Q=f(L,K), dove Q, la quantità del prodotto, è una funzione di L, il lavoro, e K, il capitale, è divenuta l’abc di tutti i corsi universitari di economia. In particolare, lo è diventata quella con la forma assegnatale da C.W. Cobb e P.H. Douglas, Q=A(LaKb), in quanto ha proprietà matematiche che agevolano il calcolo della produttività dei fattori e rappresenta la loro perfetta sostituibilità (elasticità di sostituzione uguale a 1) e le diverse situazione dei rendimenti di scala: costanti con a+b uguale a 1, crescenti con a+b maggiore di 1 e decrescenti con a+b minore di 1.

Per il singolo imprenditore, nel breve periodo, i costi marginali sono crescenti per via della diminuzione della produttività marginale, mentre il ricavo marginale, in regime di concorrenza perfetta, è costante, in quanto il prezzo è per lui un dato del mercato: ciascuno delle miriadi di produttori non può individualmente incidere sui prezzi di mercato. Per lui ci sarà dunque convenienza ad ampliare la produzione fintanto che il costo marginale rimane inferiore al ricavo marginale, potendo così avere un utile dalle dosi di prodotto aggiuntivo. Non avrà invece più interesse a produrre ulteriori quantità del proprio prodotto quando il costo marginale raggiungerà il livello del ricavo marginale: in tale situazione, infatti, un’unità ulteriore di prodotto farebbe ammontare il costo di quella unità al di sopra del ricavo e quindi quella produzione aggiuntiva, anziché fornire un utile, provocherebbe una perdita. Questa situazione di uguaglianza fra costi e ricavi marginali costituisce la posizione di “equilibrio” dell’impresa “rappresentativa”, cioè del modello ideale di impresa. Finché ci sono margini di guadagno l’impresa incrementa la propria produzione. Da notare la linea orizzontale del ricavo marginale o prezzo: per la singola impresa il prezzo rimane costante qualunque sia la quantità di prodotto da essa offerta.

Il grafico successivo evidenzia anche la curva del costo medio (parabola rossa). Per l’impresa marginale tale costo deve coincidere con il ricavo marginale, di modo che il suo utile sia pari a zero. Se si abbassa il prezzo di mercato l’impresa chiude i battenti, se si innalza l’impresa non è più marginale e può guadagnare. Nel lungo periodo l’intersezione fra il ricavo marginale e il costo marginale (ramo di parabola nero) coincide anche con il valore minimo dei costi medi, cioè con la situazione dell’impresa marginale. Il motivo è che in situazione di concorrenza perfetta, finché ci sono margini di profitto, altre imprese entreranno nel mercato incrementando la produzione fino a fare scomparire il margine di guadagno, cioè fino a quando il costo medio raggiunge il suo minimo. Oltre tale volume della produzione infatti, tenderebbe a crescere anche il costo medio e con ciò le imprese andrebbero in perdita. L’equilibrio delle imprese corrisponde quindi al massimo dell’efficienza (costo medio minimo), non ulteriormente migliorabile.

Il caso del monopolio è visto come un caso particolare in cui la curva di domanda non è costante ma il prezzo di domanda decresce al crescere della quantità offerta, in quanto l’impresa monopolistica ha un peso tale per cui la propria offerta incide sul prezzo di mercato. Basta sostituire la retta parallela all’asse delle ascisse rappresentante il prezzo con una curva decrescente e il gioco è fatto [4].

Il grafico evidenzia anche che in regime di monopolio l’equilibrio non è raggiunto con la minimizzazione dei costi medi, e che quindi per il sistema economico nel suo complesso il monopolio è meno efficiente della concorrenza perfetta. La motivazione ufficiale delle regole dell’Unione Europea a tutela della concorrenza (che in realtà combattono i monopoli solo quando sono pubblici o sono assistiti dal pubblico) sta in questo grafico. Cioè in una teoria costruita sulla sabbia, come si potrà dimostrare nei prossimi articoli.

Da notare che all’interno di una determinata tecnologia il mix di fattori produttivi ottimali può essere variamente composto. Si può cioè, per produrre una determinata quantità di beni, ridurre un fattore produttivo incrementandone un altro. Si determinano in questo modo curve di isocosto aventi una forma analoga a quella delle curve di indifferenza del consumatore. Anche in questo caso la considerazione del rapporto fra i prezzi dei fattori consente, a parità di somma impiegata, di raggiungere l’isocosto che rappresenta il livello produttivo massimo possibile date le risorse e la tecnologia disponibili e il mix ottimale di fattori produttivi. In presenza di due tecniche alternative, rappresentabili da due curve di isocosto non parallele e che si intersecano in un punto, la somma impiegabile e il rapporto fra i prezzi consentono, in aggiunta, di scegliere quella ottimale. Il punto di incontro tra gli isocosti costituisce una sorta di spartiacque: la retta decrescente che rappresenta il rapporto fra i prezzi e il vincolo di bilancio, in ragione della sua pendenza potrà essere infatti tangente all’una o all’altra delle due curve ma in ogni caso una delle due sarà sempre preferita alla sinistra di quel punto e l’altra alla destra.

Vedremo che l’economista italiano Piero Sraffa sosterrà l’erroneità di questa costruzione, prevedendo il cosiddetto ritorno delle tecniche.

Finalmente, aggregando le produzioni di equilibrio delle singole imprese, si può determinare la curva dell’offerta che ovviamente è crescente rispetto all’andamento dei prezzi: maggiore è il prezzo di mercato più le imprese trovano conveniente realizzare una quantità superiore di prodotto. L’uguaglianza fra costo e ricavo marginale viene raggiunta cioè a un livello superiore di prezzo e di quantità producibile vantaggiosamente e sempre nuove imprese troveranno conveniente entrare in questo mercato.

L’incrocio delle curve di domanda e di offerta determina il prezzo di equilibrio. A quel prezzo, nessun consumatore richiederebbe una quantità inferiore o superiore del bene e nessun produttore ne offrirebbe. Uno scostamento da questo livello (per esempio, l’offerta di una quantità superiore alla domanda) determinerebbe, tramite i movimenti dei prezzi, aggiustamenti che riporterebbero all’uguaglianza fra domanda e offerta.

Il mercato consente quindi di raggiungere sempre un equilibrio che è un ottimo paretiano, e cioè una situazione in cui nessun operatore può migliorare la propria posizione senza peggiorare quella di un altro.

Dovendo commentare questo costrutto, è innegabile che i prezzi si formino tenendo conto della domanda e dell’offerta. Tuttavia, tornando un attimo a Marx, i prezzi di mercato oscillano attorno al centro di gravità rappresentato dai prezzi di produzione, i quali scaturiscono a loro volta dalla trasformazione, in un contesto di concorrenza, dei valori; trasformazione che ha per risultato la redistribuzione del plusvalore fra i vari capitali alla ricerca del massimo saggio del profitto. Qui invece la natura del valore è molto più fumosa: l’utilità marginale, la scarsità, la produttività marginale... Insomma, dietro a formalismi matematici spinti, di cui faccio grazia al lettore, più che una rappresentazione del capitalismo c’è un idealistico mondo ineguagliabile, nel quale ognuno sa alla perfezione ciò che per lui è più vantaggioso fare e nel quale ogni fattore produttivo riceve un compenso in base al contributo che dà alla produzione: in base alla produttività marginale del lavoro per i lavoratori, a quella del capitale per i capitalisti, della terra per i proprietari fondiari e così via. 

Vedremo nel prossimo articolo che questo Eden assicurerebbe anche la piena occupazione, il pieno utilizzo dei mezzi di produzione e l’equilibrio nel mercato finanziario.

 

Note:

[1] L. Robbins, Essay on the Nature and Significance of Economic Science, McMillan, London, 1945.

[2] Solo in ciò questo approccio può essere considerato figlio della “mano invisibile” di smithiana memoria.

[3] La somiglianza di questa ipotesi con quella di Ricardo relativa ai rendimenti decrescenti della terra è solo formale. Per Ricardo infatti il rendimento decrescente derivava dalla messa a coltura di terreni sempre meno fertili e non si riferiva a dosi successive di un terreno di identica qualità. Cfr. D. Ricardo, Principles of Politica Economy and Taxation, Prometheus Books, 1996, Cap. II, pp. 45 e segg.

[4] Ciò non va confuso con l’idea di una curva di costi decrescenti derivanti da rendimenti di scala crescenti, che è anch’essa associabile a una situazione di monopolio, come vedremo in dettaglio trattando il contributo di Piero Sraffa.

22/07/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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