Diritti astratti e bisogni concreti in Marx

Ogni misura legislativa volta a porre un limite allo sfruttamento viene contrastata dagli apologeti della società borghese quale violazione del fondamento stesso dei diritti umani: la libertà


Diritti astratti e bisogni concreti in Marx Credits: https://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Marx

Il capitalismo sembra latore della reale emancipazione degli individui, la stessa libertà – che appariva privilegio di sfere particolari nei precedenti assetti sociali – pare finalmente universalizzarsi. Tuttavia tale, per quanto indispensabile, processo di universalizzazione finisce, come non si stanca di denunciare K. Marx, con il mistificare il suo fondamento sociale reale, il particolarismo predominante nella moderna società civile su cui, contraddittoriamente, si fonda.

In effetti, nella società capitalistica ognuno appare libero di poter espandere la propria intangibile proprietà, su cui si basa la libertà personale che è, dunque, pensata in forma antagonistica all’universalità su cui si fondano gli stessi diritti di cittadinanza del medesimo individuo. In tal modo la maggioranza degli individui, come svela Marx, resta proprietaria unicamente delle funzioni meramente riproduttive, mentre la quasi totalità dell’attività sociale e del suo prodotto finisce con l’essere alienata nel capitale. La piena libertà di poter disporre, da parte del lavoratore nella società capitalista, della propria forza-lavoro corrisponde in effetti alla sua contemporanea “liberazione” dagli strumenti di produzione e dai mezzi di sussistenza indispensabili alla sua riproduzione. Come denuncia Marx “è il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà […]; questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro” [1].

D’altra parte, per poter trasformare il suo denaro in capitale il proprietario dei mezzi di produzione deve poter incontrare nella sfera della circolazione il lavoratore quale persona giuridica, libera nel duplice senso d’essere proprietario della propria forza-lavoro ridotta a merce e di non poter disporre, senza doverla alienare, dei mezzi di sussistenza e riproduzione di tale capacità di lavoro. Ecco, dunque, che i diritti universali, naturali, innati – tanto sbandierati dall’ideologia borghese – sono compiutamente trasfigurati, per cui la stessa uguaglianza al centro degli ideali democratici si riduce, come denuncia a ragione Marx, all’eguale “grado di sfruttamento della forza-lavoro” [2] ridotta a merce.

Placatosi il secolare processo rivoluzionario necessario alla conquista del potere da parte della borghesia e alla conseguente piena affermazione del modo di produzione capitalista, i tre grandi diritti universali di questa fase eroica, uguaglianza, libertà e fraternità, non devono più porre in discussione, come era avvenuto nella fase giacobina, la sicurezza d’una proprietà molto particolare: quella dei mezzi di produzione e di sussistenza di cui sono privati un numero sempre crescente di uomini, ridotti a “macchine bipedi” e costretti a vendere l’unica cosa che gli resta, la forza lavoro, nelle peggiori condizioni e sotto il costante ricatto della disoccupazione. Così, per ricordare un caso particolarmente esemplare di tale dinamica storico-sociale, la liberazione della proprietà privata del suolo dai vincoli feudali presuppone il diritto monopolistico, ovvero il privilegio, da parte di alcuni di disporre arbitrariamente di porzioni del globo del cui diritto naturale hanno spogliato il resto della comunità. Mentre nessuna legge, all’interno del modo di produzione capitalistico, stabilisce il diritto del lavoratore alla terra per la quale “il suo lavoro è altrettanto necessario della pioggia e del sole” [3].

Come mette in luce Marx, lo stesso “sacro” diritto umano “borghese” alla proprietà privata posto a fondamento della tradizione liberale, si rovescia inesorabilmente nel suo opposto. In effetti, come osserva a questo proposito Marx, “la legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci ossia la legge della proprietà privata si converte evidentemente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica” [4]. Nella società moderna, nonostante la forza-lavoro sia l’artefice della produzione, il prodotto del suo lavoro diviene parte integrante della proprietà privata del borghese che, consumandola, la sfrutta a proprio vantaggio, “non in virtù delle sue qualità personali o umane”, sottolinea Marx, “ma in quanto è proprietario del capitale” [5]. Perciò, l’accrescersi della polarizzazione delle ricchezze, a seguito dello sviluppo della riproduzione su scala allargata dei capitali, non comporta affatto un’identità di interessi fra lo sviluppo sociale e lo sviluppo monopolistico della proprietà, con il conseguente aumento della rendita.

Al contrario, “sotto il predominio della proprietà privata, l’interesse che un individuo ha alla società è inversamente proporzionale all’interesse che la società ha per lui, allo stesso modo che l’interesse dell’usuraio per lo sperperatore non s’identifica affatto con l’interesse dello sperperatore” [6]. Anzi, come osserva acutamente, Marx: “le leggi economiche dell’accumulazione capitalistica consentono di svelare il nesso nascosto che lega la crescita del consumo dilapidatore dei possidenti alla crescente miseria che tormenta gli strati operai più laboriosi” [7]. Scoperto è invece il nesso, per limitarci a un caso esemplare, fra il progressivo possesso monopolistico dei mezzi di produzione e la crescente miseria delle condizioni abitative dei salariati. Il progressivo miglioramento delle condizioni abitative nei quartieri borghesi corrisponde al peggioramento delle condizioni abitative dei salariati costretti a trovare rifugio in squallidi quartieri dormitorio, in quartieri degradati nei centri cittadini, quando non in baraccopoli prive dei servizi essenziali. Del resto la speculazione edilizia, speculando sui bisogni di sussistenza dei salariati, impone prezzi di mercato crescenti in misura paradossalmente proporzionale allo stato di miseria delle abitazioni destinate al proletariato.

La forma del libero scambio finisce, dunque, con l’essere nei fatti una mera mistificazione del processo di produzione del capitale, il cui contenuto nascosto, come sottolinea a ragione Marx, “è che il capitalista torna sempre a permutare contro sempre maggiore quantità di lavoro altrui vivente una parte del lavoro altrui già oggettivato che egli si appropria incessantemente senza equivalente” [8]. Dal punto di vista fenomenico dello scambio, anche il plus-lavoro appare retribuito e la stessa forma del salario cela, come denuncia Marx, il surplus di lavoro estorto al produttore, che si è visto costretto ad alienare come merce la propria forza-lavoro. Su tale forma fenomenica, che cela il rapporto reale e fa apparire il suo opposto, si fondano le mistificazioni del modo di produzione capitalistico e quelle della sua ideologia giuridica, come non si stanca di mettere in evidenza Marx. Tanto più che lo stesso capitale non è altro che, scrive Marx, “lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia” [9].

Così, durante l’intera fase di gestazione della società civile moderna le misure legislative sono volte a prolungare l’orario di lavoro, tanto più che il capitalista ha bisogno del costante intervento del potere politico per costringere il “libero” proprietario della forza-lavoro “a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro, sia costretto a vendere la sua primogenitura per un piatto di lenticchie” [10]. Solo con il pieno affermarsi della libera compravendita della forza-lavoro e sotto la pressione crescente delle lotte sociali, il capitale si vede costretto a limitare la giornata lavorativa cresciuta a dismisura, anche per evitare che uno sfruttamento troppo intenso guasti la qualità della prestazione e il riprodursi, in misura tale da contenerne il prezzo, della forza-lavoro. L’appello a tale “diritto” alla riproduzione sociale diviene decisivo per il proletariato per preservare l’unica ricchezza di cui dispone, la prole, dalla “libertà del lavoro” cui continuano, al contrario, ad appellarsi i possessori dei mezzi di produzione e di sussistenza, per tentare di impedire ogni limitazione giuridica alla durata del suo sfruttamento.

In effetti, ogni misura legislativa volta a porre un limite allo sfruttamento viene contrastata dagli apologeti della società borghese quale violazione del fondamento stesso dei diritti umani: la libertà. Come dimostra in modo esemplare Marx: “se a un padrone il parlamento può impedire di far lavorare i suoi dipendenti per 12, 16 o per qualsiasi altro numero di ore, allora, dice il ‘Times’, ‘l’Inghilterra non è più un paese in cui possa vivere un uomo libero’. Non diversamente il gentiluomo della Carolina del sud che dovette comparire davanti a un magistrato londinese e fu condannato per aver frustato in pubblico il nero che aveva portato con sé dall’altra sponda dell’Atlantico, esclamò al colmo dell’esasperazione: ‘E voi chiamate libero un paese come questo dove a un uomo è proibito frustare il proprio negro!’” [11].

Dunque, mediante l’emancipazione politica, conquistata dalla borghesia attraverso le sue gloriose rivoluzioni antifeudali, solo la società civile, alla cui base vi è la sfera economica, si libera realmente, mentre l’uomo s’emancipa solo astrattamente, in quanto i suoi ideali diritti di cittadinanza che si è conquistati restano giustapposti alla subordinazione reale a dei rapporti di produzione che disumanizzano il produttore, degradandolo a merce, per altro del più infimo valore di mercato. A questo proposito, per ricordare un caso particolarmente esemplare, dalla prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo fino ai decenni finali del diciannovesimo secolo i lavoratori salariati verranno esclusi dal diritto d’associazione, in quanto esso limiterebbe, secondo l’ideologia dominante, il “diritto naturale” dell’uomo alla libera compra-vendita, come denuncia Marx.

Anche in seguito il diritto di associazione per i lavoratori salariati è stato più volte limitato ogniqualvolta i proprietari disponevano d’un rapporto di forza a loro vantaggioso o nel momento in cui il rafforzarsi delle associazioni proletarie pareva poter porre in discussione il dominio borghese sulla società civile. “Essi – ossia i capitalisti, come denuncia Marx, – non sono disposti a consentire che l’organizzazione [dei capitalisti] da loro creata sia controbilanciata da un’analoga organizzazione creata dai lavoratori. Essi si prefiggono di rafforzare il monopolio del capitale con il monopolio organizzativo. Essi vogliono dettare i loro termini come associazione, ma i lavoratori non possono opporsi se non come individui. Essi intendono attaccare in ranghi compatti, ma non ammettono di essere contrastati se non in scontri individuali. Questa è la libera competizione come la intendono i radicali di Manchester, i liberoscambisti esemplari” [12].

Note

[1] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, Nuova Italia, Firenze 1968, p. 279.

[2] Id., Il capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 329.

[3] Ivi, pp. 744-45.

[4] Ivi, p. 639.

[5] Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 29.

[6] Ivi, p. 57.

[7] Id., Il capitale, vol. I, cit., p. 719.

[8] Ivi, p. 640.

[9] Ivi, p. 267.

[10] Ivi, pp. 306-07.

[11] K. Marx, F. Engels, Opere complete, marzo 1853febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Ed. Riuniti, Roma 1978, pp. 195-96.

[12] Ivi, p. 260.

12/05/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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