Marx e la concezione borghese dei diritti umani

Le astratte libertà giuridiche e politiche borghesi hanno carattere formale e sono strumentalizzate dall’ideologia dominante per occultare le differenze reali, materiali socio-economiche.


Marx e la concezione borghese dei diritti umani Credits: https://sociologicamente.it/karl-marx-quando-la-critica-diventa-un-lavoro/

La libertà puramente giuridica dell’uomo, l’eguaglianza formale – conquistate con il passaggio dalla società feudale, ancora fondata sul rapporto servo-padrone, e la “libera” società borghese – corrisponde alla liberazione operata dal cristianesimo delle origini della sola anima dell’uomo (visto che il corpo non era sottratto a schiavitù e servitù) nell’ineffettualità d’una comunità solo rappresentata, la città di dio che funge da compensazione ideale al mantenimento della schiavitù reale dell’esserci sociale.

L’uomo, formalmente libero e giuridicamente eguale della società capitalistica – per quanto limitato dal suo asservimento reale al proprietario monopolistico dei mezzi di produzione e quanto mai diseguale dal capitalista per il quale lavora dal punto di vista economico – viene rappresentato dall’ideologia dominante, che si esprime nelle formulazioni borghesi dei diritti umani, come l’homme naturale. Ciò avviene perché la borghesia ancora rivoluzionaria, prima della conquista del potere politico, per affermare il proprio dominio particolare, di classe doveva spacciarlo per interesse generale, per poter sollevare, strumentalmente, le masse popolari indispensabili alla sconfitta delle classi dominanti che controllavano gli apparati repressivi dello Stato. A tale uomo lo Stato si presenta non più come la comunità in cui realizza la propria essenza individuale, ma quale Moloch animato da regole che non possono che apparire estranee al singolo, tanto che può farle proprie unicamente facendo getto della propria soggettività. Né tale uomo può trovare rifugio in una società civile dove domina la differenza economica e la concorrenza più spietata, ovvero la naturale legge del più forte.

La vita sociale borghese è, dunque, liberata dai vincoli feudali in un duplice significato: è più indipendente rispetto a tutte le società precedenti, ma è deprivata di ogni elemento sostanziale. Ogni vincolo sociale viene progressivamente meno, si afferma il diritto dell’individuo all’autodeterminazione nel momento stesso in cui lo si priva dei nessi che lo legavano agli altri, alla comunità sociale. Dal dominio politico sulla società civile si passa, mediante il fissarsi delle differenze politiche in differenze sociali giuridicamente determinate, alla compiuta liberazione degli spiriti animali della società civile borghese. La positività della norma giuridica sancisce la compiuta separazione fra sfera del diritto e sfera della morale e dell’etica. Ciò porta già il giovane Marx a denunziare che il pieno affermarsi della società civile borghese, tendenzialmente liberata da ogni vincolo di natura politica, “rende esteriori all’uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici” [1].

Anzi, la piena affermazione dei rapporti di produzione capitalistici porta necessariamente con sé, come denuncia Marx, la progressiva e inesorabile scomparsa d’ogni residuo di eticità “naturale”. In effetti, giunta al potere – osserva acutamente Marx insieme a Engels – la borghesia “ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato ‘pagamento in contanti’. Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese” [2].

Mirando a garantire l’arbitrio dell’individuo, le sue libertà-privilegi particolari, secondo l’ideologia liberale, la società borghese libera l’impiego della forza-lavoro da ogni considerazione morale o metafisica sino a ridurla a una merce come le altre. La liberazione dell’uomo, in quanto individuo atomizzato dai vincoli corporativi della società feudale, è dunque una mera parvenza in quanto, come mostra Marx, funzionale alla sua riduzione all’universale astratto della merce forza-lavoro in cui qualsiasi differenza individuale svanisce. La perdita di valore di tutto ciò che è pertinente all’essenza sociale dell’uomo, fa notare a ragione Marx, “cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose” [3]. In tal modo, la società civile borghese arriva ad emanciparsi da ogni connotazione politica, di modo che “il rapporto tra proprietario e lavoratore si riduca al rapporto economico tra sfruttatore e sfruttato” [4].

Portando più a fondo, nella seconda metà del XIX secolo, la critica dell’economia politica Marx potrà approfondire la concezione hegeliana della società civile, fino a scardinare la rappresentazione dell’economia politica borghese che si limitava a riprodurne il suo solo aspetto fenomenico, ovvero la sua parvenza. La società civile, in effetti, non si fonda su diverse monadi isolate, come i pescatori e cacciatori isolati di cui favoleggiano le robinsonate degli A. Smith e dei D. Ricardo e, poi, soprattutto degli economisti “volgari” neoclassici. Essa è, al contrario, come mostra Marx, uno stato d’interdipendenza generalizzato che lega indissolubilmente gli individui gli uni agli altri, seppur vissuto inconsapevolmente dal singolo. Tale sistema necessariamente intersoggettivo, sociale è strutturato sulla base di una divisione del lavoro e di un sistema dei bisogni finalizzato esclusivamente alla riproduzione su scala allargata del modo capitalistico di produzione. Tale è la traduzione operata da Marx, in termini scientifici, della rappresentazione idealistica borghese, di ascendenza smithiana, di una mano invisibile del mercato che opererebbe alle spalle dei singoli agenti, trasmutando i loro fini in sé meramente utilitaristici nell’utile collettivo, sociale, secondo la presunta teodicea, l’eterogenesi dei fini della insocievole socievolezza.

Tuttavia l’homme isolato della società civile, portatore degli imprescrittibili diritti delle dichiarazioni borghesi dei diritti umani, non è una mera costruzione ideologica, ma ha la sua esistenza nella sfera socio-economica della circolazione, quale momento del modo di produzione capitalistico. L’individuo finalmente liberato, per quanto in duplice e contraddittorio senso, dai vincoli socio-politici della società feudale, che si rapporta al suo simile come a un eguale mediante il prodotto del proprio lavoro – garantito dal diritto formale di proprietà – e che realizza nello scambio di merci, regolato dal contratto, il proprio utile, è l’uomo della circolazione. Come osserva, acutamente, a tal proposito Marx: “se dunque la forma economica, lo scambio, pone da tutti i lati l’uguaglianza dei soggetti, il contenuto, la materia, sia individuale sia oggettiva, che spinge allo scambio, pone la loro libertà” [5].

Nella fictio iuris del contratto trova il suo fondamento, la sua ragione di essere la parvenza ideologica per la quale lavoratore e capitalista non sarebbero individui socialmente determinati, appartenenti a una specifica classe, ma bensì libere persone giuridiche, poste in tal modo in uno stato di eguaglianza (formale, ben inteso) [6]. Sul piano fenomenico della circolazione pare, dunque, conseguita la libertà e l’autonomia dell’individuo che realizza il valore d’uso prodotto dal suo lavoro mediante il riconoscimento del suo valore di scambio e con ciò soddisfa il suo bisogno materiale collaborando al contempo allo sviluppo sociale. Nota a questo proposito ancora Marx: “non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato sui valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà” [7].

La dottrina giuridica moderna, i diritti umani borghesi, hanno il loro fondamento reale, materialistico nella sfera della circolazione in cui si rapportano individui svincolati da ogni forma di soggezione diretta, politica che alienano la loro proprietà secondo la propria autonoma volontà sulla base d’un contratto che ne sancisce l’eguaglianza sul piano giuridico (astratto). Tale Eden dei diritti umani (borghesi) non è che, denuncia Marx, la mera superficie sul fondo della quale “si verificano ben altri processi nei quali questa apparente eguaglianza e libertà dell’individuo” sarà compiutamente revocata, negata. Nella semplice determinazione del valore di scambio e del denaro, che presiedono alla sfera della circolazione, in cui ogni differenza assume un carattere meramente formale e, dunque, indifferente, “è contenuta – osserva a ragione Marx – in forma latente l’antitesi tra lavoro salariato e capitale” [8].

I grandi ideologi della borghesia rivoluzionaria, animati da uno spirito umanistico, riconducono l’intero valore all’attività produttiva dell’uomo. Così, persino i padri del liberalismo tendono a riconoscere pienamente l’autonomia dell’individuo nella sua libera attività produttiva e quest’ultima quale essenza soggettiva della proprietà privata, riconducendola all’interno delle forze produttive dell’uomo dalla figura oggettivata, alienata che assume quando si incarna in capitale e rendita (comunque lavoro morto). Tuttavia, presupposto celato dell’intero sistema economico moderno (capitalistico) è la coercizione sociale che fa si che l’oggettivizzazione dell’attività sociale dell’uomo sia riappropriata dal produttore solo mediante l’esito positivo d’un processo le cui condizioni di realizzazione sono completamente al di fuori del suo controllo. Non solamente la sua posizione sociale, ma la sua stessa esistenza materiale dipende dalla capacità di realizzazione del valore di scambio del proprio lavoro che, a sua volta, come fa notare Marx: “presuppone una divisione del lavoro ecc., nella quale l’individuo è già posto in rapporti del tutto differenti da quelli dei semplici individui che scambiano” [9].

La stessa proprietà privata, al contrario di quanto sostengono gli ideologi liberali della borghesia, non è una categoria naturale, ma un concetto sociale, come mostra Marx. Essa, in effetti, è sempre un rapporto di proprietà prodotto dallo sviluppo storico-sociale e, in primis, da una certa forma di divisione del lavoro. L’accrescersi delle differenze sociali, al punto da ridurre la maggioranza degli uomini a non aver altro da scambiare che la propria forza-lavoro, è giustificata dagli apologeti del sistema borghese con l’idillio edificante del “peccato originale” dei lavoratori che, comportatisi da oziosi in un passato dai contorni indefiniti, avrebbero consentito agli imprenditori di concentrare nelle proprie mani il monopolio dei mezzi di produzione e sussistenza (il processo di accumulazione primitiva). Tale rappresentazione è, tuttavia, falsificata non solo dalla realtà della società borghese in cui chi più lavora meno possiede, mentre chi detiene i mezzi di produzione si arricchisce progressivamente (senza nessun bisogno di lavorare), ma lo è anche dalla genesi della proprietà privata borghese. Il diritto di proprietà borghese si fonda sulla sua sistematica violazione nella fase della cosiddetta accumulazione originaria. Strumenti dell’accumulazione primitiva non sono stati gli idilliaci lavoro e diritto, chiamati in causa dagli apologeti della società borghese, ma denuncia Marx: la conquista, il soggiogamento, l’assassinio e la rapina, in breve la “violenza” [10] che hanno dominato il corso storico.


Note

[1] Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 205.

[2] K. Marx, F. Engels, Opere complete 1845-1848, tr. it. di P. Togliatti, vol. VI, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 488.

[3] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 71.

[4] Ivi, p. 64.

[5] Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, Nuova Italia, Firenze 1968, p. 214.

[6] Cfr, su questi temi il significativo studio di Thomas Humphrey Marshall e Thomas B. Bottomore, Cittadinanza e classe sociale [1950], tr. it. di S. Mezzadra, Laterza, Roma-Bari 2002.

[7] Karl Marx, Lineamenti…, cit., p. 214.

[8] Ivi, p. 218.

[9] Ibidem.

[10] Id., Il capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 778.

13/04/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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