Gramsci Dirigente del PCI - 1921-1926 (Prima Parte)

Il 15 gennaio del 1921 si apriva a Livorno il XVII Congresso nazionale del Psi. Gramsci non prese la parola. La maggioranza massimalista di Serrati (o comunisti unitari) ottenne 98.000 voti, 58.000 i comunisti “puri” e 14.000 i riformisti turatiani. 


Gramsci Dirigente del PCI - 1921-1926 (Prima Parte) Credits: @Thomas Hirschhorn, Gramsci Monument, 2013

 

La vicenda di Antonio Gramsci ed il suo ruolo di dirigente politico negli anni drammatici che vanno dalla fondazione del Pdc’I con il Congresso di Livorno del 1921 all’arresto e l’incarcerazione da parte del regime fascista nel 1926. Una significativa ed affascinante coincidenza tra biografia personale e storia di un partito, di una nazione, di una classe. In questa prima parte si ripercorrono passaggi quali la fase pionieristica del nuovo partito, le relazioni con la Terza Internazionale che muoveva i primi passi, l’avvento del fascismo, l’Aventino, le dinamiche interne al partito tra il gruppo di Bordiga e le altre componenti, le prime ondate di arresti e lo smantellamento dell’organizzazione del partito e l’avvio della lunga fase di clandestinità.  

di Lelio La Porta

Il 15 gennaio del 1921 si apriva a Livorno il XVII Congresso nazionale del Psi. Gramsci non prese la parola. La maggioranza massimalista di Serrati (o comunisti unitari) ottenne 98.000 voti, 58.000 i comunisti “puri” e 14.000 i riformisti turatiani. Il 21 gennaio, nel Teatro San Marco, la minoranza dei comunisti “puri” dava vita al Pcd’I del quale Amadeo Bordiga e la sua “allucinazione particolaristica”, come la definiva Gramsci, erano dominatori assoluti. Intorno all’inclusione di Gramsci nel Comitato Centrale (Cc) ci fu uno scontro aspro (qualcuno riesumò le accuse di filointerventismo relative ad un articolo scritto da Gramsci nel 1914) [1]. Alla fine Gramsci entrò, unico ordinovista insieme a Terracini, che fu anche membro dell’Esecutivo, nel Cc: "La reazione si è proposta di ricacciare il proletariato nelle condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo: disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere una unità e aspira al potere. La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione" [2].  

Oltre ad essere membro del Cc Gramsci era anche direttore, dal 1° gennaio, dell’Ordine nuovo quotidiano. Il dominio assoluto di Bordiga all’interno del neonato partito era facilmente verificabile dal taglio assunto dalle tre testate comuniste: L’Ordine Nuovo (direttore Gramsci a Torino), Il Lavoratore (direttore Pastore a Trieste), Il Comunista (direttore Togliatti a Roma); la libertà di elaborazione teorica era diventata un “optional”. Perché Gramsci, pur sostenitore di un punto di vista alternativo a quello bordighiano, non contrattaccava? Perché era consapevole del prestigio di cui Bordiga godeva all’interno del partito e presso i dirigenti dell’Internazionale dopo la sua formale denuncia dell’estremismo. E poi, c’era il fascismo: sempre più violento, sempre più armato; da tale belva bisognava difendersi uniti. D’altronde avrebbe potuto entrare in polemica con il segretario del partito un compagno come Gramsci battuto nelle candidature alle elezioni politiche del 15 maggio del 1921? Tutta l’originalità dell’analisi gramsciana del fascismo, della sua vocazione reazionaria, dell’appoggio di cui beneficiava da parte della piccola borghesia veniva offuscata dal formale allineamento alle posizioni bordighiane anche se, soprattutto nella conduzione dell’Ordine Nuovo, erano presenti aperture nei confronti dei lavoratori non comunisti e verso gli intellettuali di opposizione in genere, attenzioni particolari verso i cattolici di sinistra e battaglie contro l’anticlericalismo di molti ambienti del proletariato piemontese.

Il Pcd’I, con la scissione dal Psi, aveva compiuto quello che Lenin aveva definito il “certo passo a sinistra”; ora, sempre sulla base di un’indicazione leniniana, andava compiuto “qualche passo a destra”: insomma, dopo essersi separati da Turati, i comunisti dovevano creare con lui un fronte unico per resistere all’offensiva reazionaria. Questa era l’indicazione del III Congresso dell’Internazionale (giugno-luglio 1921); tradotto in termini politici ciò significava che obiettivo primario della classe operaia italiana non era da intendersi la dittatura del proletariato bensì la difesa delle libertà democratiche e, per questo, c’era bisogno dell’alleanza con i socialisti.  

La posizione di Bordiga nei confronti dell’Internazionale fu di resistenza; una resistenza alla quale, per certi versi, si allineò Gramsci, salvo riconoscere le sue divergenze qualche anno dopo.

Nel marzo del 1922 si tenne a Roma il II Congresso nazionale del Pcd’I. Le tesi congressuali, ovviamente di ispirazione bordighiana, respingevano il fronte unico, sconfessavano l’Internazionale. Contrari a tale impostazione erano Tasca e la destra del partito; Gramsci enunciava le sue critiche soltanto in privato; in seguito scriverà: “A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo [cioè Bordiga] perché esse erano presentate come una opinione per il IV congresso [dell’Internazionale] e non come un indirizzo d’azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l’ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell’organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò; politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l’attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo. (…) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava di per sé nel movimento rivoluzionario” [3].  

Una posizione sapientemente equidistante dall’Internazionale e da Bordiga. Il Congresso designò Gramsci a rappresentare i comunisti italiani nell’Esecutivo dell’Internazionale a Mosca (va notato che, per incarico dell’Internazionale, si era già recato a Lugano e a Berlino). Dopo undici anni di residenza torinese lasciava la città piemontese e la direzione dell’Ordine nuovo. A Mosca lo attende un incarico politico di impegno assoluto e totale. Appena arrivato è costretto, soprattutto dietro le insistenze di Zinoviev, a ricoverarsi nel sanatorio di Serebriani Bor. Qui, alla metà di luglio, conosce Giulia Schucht, la sua futura compagna e madre dei suoi due figli, Delio e Giuliano.  

28 ottobre del 1922: la marcia su Roma, il re affida a Mussolini l’incarico di formare il governo. Nell’aprile del 1920 Gramsci aveva scritto: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario … o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa” [4].  

Il 5 novembre si apre a Mosca il IV congresso dell’Internazionale. All’ordine del giorno il modo con cui affrontare le violenze reazionarie. In ordine sparso, per conto proprio oppure uniti agli altri partiti antifascisti, compreso, com’è ovvio, il Psi? Bordiga, appoggiato da Terracini, continuava ad opporsi al fronte unico. La differenza fra gli antifusionisti e i fusionisti la faceva l’analisi del fascismo. Per i primi, infatti, fascisti e socialdemocratici, Mussolini e Turati, governo fascista e governo borghese erano la stessa cosa. Insomma, a nessuno veniva in mente che una dittatura borghese che usava il fascismo come strumento era un’altra cosa dalla democrazia borghese. A nessuno, ma non a Gramsci che, proprio grazie alla sua originale analisi del fascismo, fu avvicinato da alcuni dirigenti dell’Internazionale che gli offrirono di diventare il capo dei comunisti italiani scalzando Bordiga. Gramsci si oppose.  

Nel frattempo propose la fusione con i “terzini”, ossia la frazione terzinternazionalista all’interno del Psi, sulla base del rispetto di 14 punti, a fissare e ad applicare i quali fu nominata un’apposita commissione così composta: Bordiga, che rifiutò, e fu sostituito da Gramsci; Scoccimarro e Tasca per i comunisti; Serrati e Maffi per i socialisti. Nonostante le resistenze della maggioranza di comunisti e socialisti, il lavoro per la fusione procedette malgrado l’arresto di Serrati e l’espatrio di Tasca. Gramsci stava, in sostanza, lavorando sodo.  

Era il febbraio del 1923 quando a Mosca giunse la notizia che contro Gramsci era stato spiccato un mandato di arresto. In Italia era in corso un giro di vite poliziesco che aveva condotto in carcere Bordiga e Grieco disgregando il Partito già molto provato dall’immobilismo e dal settarismo del gruppo dirigente. Inoltre i compagni scampati all’ondata di arresti non sembravano interessati più di tanto alle questioni della riorganizzazione del partito quanto piuttosto alle dispute verbali intorno alla fusione. Di fronte a questa evidente situazione di crisi fu Gramsci stesso a richiedere l’intervento d’imperio dell’Internazionale che designò per il Partito italiano un nuovo Esecutivo il quale, però, sorpreso nella sua totalità dalla polizia a Milano, non ebbe neanche il tempo di avviare il lavoro. Allora, per seguire più da vicino le vicende del Partito italiano, Gramsci fu incaricato di trasferirsi a Vienna nel novembre del 1923. Questo incarico, di fatto, voleva dire che per l’Internazionale era lui il nuovo leader dei comunisti italiani.  

A Vienna, come si evince dall’epistolario, la solitudine e l’isolamento erano le condizioni normali del vivere quotidiano. Avere notizie sia dalla Russia sia dall’Italia era complicato. Comunque, Gramsci era a conoscenza delle divergenze all’interno del Partito comunista russo, acuite anche dalla paralisi che aveva colpito Lenin allontanandolo di fatto dalla vita politica. Non è che il Partito italiano stesse granché meglio: Bordiga in carcere e quindi estromesso dall’Esecutivo; lo scontro pressoché continuo fra la maggioranza di Togliatti, Scoccimarro e Terracini e la minoranza di Tasca, Vota e Graziadei.  

In questo clima di estrema confusione e di conflittualità interna, Bordiga lanciò dal carcere l’iniziativa della rottura della maggioranza con l’Internazionale. A tal fine propose la stesura di un manifesto che fosse firmato da tutti i dirigenti esclusi quelli della destra. Il no di Gramsci fu secco e deciso, come spiegò qualche tempo dopo: “In verità dopo la pubblicazione del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell’Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l’esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto l’esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. Non voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio” [5].  

Se questa può sembrare una contrapposizione solo dal punto di vista formale, dietro c’era la sostanza di un atteggiamento da sempre antisettario, favorevole al dialogo e alle aperture. Al dunque, a Gramsci si ponevano due problemi: dissuadere Bordiga e creare un nuovo gruppo dirigente allineato con l’Internazionale. Sulla prima questione, conoscendo Bordiga, non si faceva troppe illusioni arrivando a sostenere la necessità di una polemica chiara ed esplicita che pervenisse anche a soluzioni per nulla compromissorie con il primo segretario del Pcd’I. Quindi, si dedicò alla soluzione del secondo problema, alla formazione, cioè, di un nuovo gruppo dirigente comunista. Attraverso un contatto sempre più assiduo con Togliatti e Scoccimarro, soprattutto, il nuovo gruppo dirigente cominciava ad assumere connotati chiari. (....continua nel prossimo numero..).  

Note

[1] A. Gramsci, Neutralità attiva ed operante in A. Gramsci, Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, pp. 10-15. L’articolo, apparso su Il Grido del Popolo del 31 ottobre 1914, era stato giudicato eccessivamente favorevole all’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale e filomussoliniano in quanto Mussolini aveva pubblicato un editoriale sull’Avanti! del 18 ottobre intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante.  

[2] Lettera a Togliatti da Mosca dell’agosto del 1923 in A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, p. 127.  

[3] Lettera a Togliatti, Scoccimarro ed altri da Vienna del 5 aprile del 1924 in Ivi, p. 316.  

[4] Per un rinnovamento del Partito socialista, documento redatto da Gramsci nella prima metà di aprile del 1920 e comparso sull’Ordine Nuovo dell’8 maggio con la seguente premessa redazionale: “La seguente relazione fu presentata al Consiglio nazionale di Milano dai rappresentanti della Sezione socialista e della Federazione provinciale torinese e servì come base alla critica dell’opera e dell’indirizzo della direzione del Partito” in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1987, p.511.  

[5] Lettera a Scoccimarro da Vienna il 5 gennaio del 1924 in A. Gramsci. Lettere 1908-1926, cit., pp. 159-160.  

 

 

17/07/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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