Gramsci e la natura degli assetti sociali

Occorre far emergere la storicità degli assetti sociali, per far intendere che la loro razionalità, che li fa apparire naturali, si fonda su condizioni determinate al mutare delle quali non sono più giustificati, ma divengono irrazionali.


Gramsci e la natura degli assetti sociali

La natura dell’uomo non è la stessa nelle differenti epoche storiche e, dunque, come fa notare Antonio Gramsci, “la «natura umana» non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (e il fatto che si adoperi la parola «genere», di carattere naturalistico, ha il suo significato) mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri” [1]. Tanto più che “neanche la facoltà di «ragionare» o lo «spirito» ha creato unità o può essere riconosciuto come fatto unitario, perché concetto solo formale, categorico. Non il «pensiero», ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini. Che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali» è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali” (ibidem). Perciò non si può parlare di una natura umana in generale; i rapporti sociali, difatti, «sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale. L’uomo è aristocratico in quanto è servo della gleba ecc” (ibidem). Del resto, a parere di Gramsci, la “natura” dell’uomo non è altro che “l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita” (16, 12: 1874), che è la sola a stabilire cosa sia da considerarsi “naturale” o contrario alla natura. Del resto, lo stesso insieme dei rapporti sociali è una totalità contraddittoria in costante svolgimento. Tale contraddittorietà si riflette tanto nella coscienza dei singoli, quanto in quella dei gruppi sociali. Essa è particolarmente evidente nelle classi subalterne, che debbono battersi per emanciparsi dall’ideologia dominante. A tale proposito, “ottiene molta fortuna perché pare ovvio e semplice” (ivi: 1875) l’appello alla natura contro le sovrastrutture sociali e una cultura che appare imposta dall’esterno. Tuttavia Gramsci considera da ripudiare ogni imposizione esteriore, ma non i contenuti culturali che sono stati storicamente imposti e che ora andranno ri-formati secondo i bisogni dei ceti subordinati.

Occorre, dunque, in primo luogo far emergere la storicità degli assetti sociali, per far intendere che la loro razionalità, che li fa apparire “naturali”, si fonda su condizioni determinate al mutare delle quali “non sono più giustificati, ma «irrazionali»” (14, 67: 1727). Tanto più che il marxismo sorge dalla storicizzazione del modo di produzione capitalistico e dei suoi automatismi e con ciò si pone quale critica dell’economia politica [2] che li concepisce “come «eterni», «naturali»” (11, 52: 1478). Gramsci osserva inoltre chela critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all’apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la «caducità» e la «sostituibilità» della scienza criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente , e presenta l’«erede» che sarà presuntivo finché non avrà dato prove manifeste di vitalità ecc.” (ibidem).

Allo stesso modo Gramsci critica la sociologia che considera il prodotto delle ideologie evoluzioniste e positiviste dominanti nella seconda metà dell’Ottocento. Essa tende a naturalizzare la situazione politica esistente, dando a intendere che “con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata un’epoca di «evoluzione» «naturale», che la società avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali” (15, 10: 1765). Per cui, da una parte la sociologia indaga la politica con il metodo delle scienze naturali, con il conseguente impoverimento delle categorie storiche essenziali della politica come quella di Stato, dall’altra essa si riduce a dar conto delle schermaglie fra le cricche parlamentari, favorendo il qualunquismo antipolitico. Del resto la presunta obbiettività da scienziato naturale dei positivisti, li porta a considerare le masse “con «distacco», come «natura» estrinseca” (23, 56: 2250).

Più in generale Gramsci avversa – anche dal punto di vista politico – la concezione secondo la quale vi sarebbero leggi oggettive, pensate in analogia alle leggi naturali, alla base dello sviluppo storico. Detta concezione si fonda su “un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso”, per cui sarebbe inutile e persino dannosaogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano” (13, 23: 1612).

Gramsci critica il “centralismo organico” o burocratico, in quanto pretende fondare una formazione politica “per «cooptazione» intorno a un «portatore infallibile della verità», (…) che ha trovato le leggi naturali infallibili dell’evoluzione storica” (13, 38: 1650), anche se nel presente gli eventi non confermano affatto tali previsioni [3]. Tanto più che, in una organizzazione del genere, la direzione sarebbe assunta da intellettuali tradizionali, i quali tendono a porsi come dei sacerdoti. Per di più una tale organizzazione politica sarebbe retta da “un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato, (…) qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente (come un vestito sulla pelle, e non come la pelle che è organicamente prodotta dall’intero organismo biologico animale)” (3, 56: 337). Al contrario, secondo Gramsci, la base teorica di una organizzazione politica dovrebbe formarsi da un punto di vista storico, quale prodotto di una dialettica incessante fra diverse posizioni. Mentre il fondamento dottrinario inamovibile, alla base delle ideologie fondate sul centralismo burocratico, regola solo formalmente l’attività dell’organizzazione, che dovrà necessariamente adattarsi alle circostanze. Gramsci ne conclude che “il centralismo organico immagina di poter fabbricare un organismo una volta per sempre, già perfetto obbiettivamente. Illusione che può essere disastrosa, perché fa affogare un movimento in un pantano di dispute personali accademiche” (3, 56: 337).

Allo stesso modo, Gramsci avversa le concezioni politiche non realiste, prive di “sperimentalità”: a suo avviso la “volontà collettiva” non si forma né spontaneamente, né meccanicamente, poiché non è “un dato di fatto naturalistico” (15, 35: 1789). Del resto, a ciò che si considera naturale si suole contrapporre l’“artificiale”, ovvero il convenzionale. Da parte sua, se Gramsci ha un atteggiamento critico nei confronti di ciò che è presentato come “naturale”, utilizza il termine opposto, “artificiale”, in una accezione negativa in riferimento alla sfera individuale, mentre in relazione a fenomeni di massa esso assume la valenza di “acquisito attraverso lo svolgimento storico” (16, 12: 1878). Sarebbe, dunque, errato considerarlo negativamente, poiché è penetrato “anche nella coscienza comune con l’espressione di «seconda natura». Si potrà quindi parlare di artificio e di convenzionalità con riferimento a idiosincrasie personali, non a fenomeni di massa già in atto. Viaggiare in ferrovia è «artificiale» ma non certo come il darsi il belletto alla faccia” (ibidem). In effetti, come osserva a ragione Gramsci, spesso “i termini «artificiale» e «convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dallo sviluppo della civiltà e non già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente artificiose” (11, 20: 1419). Così, ad esempio, “le nozioni di «Oriente» e «Occidente»” non “cessano di essere «oggettivamente reali» seppure all’analisi si dimostrano niente altro che una «costruzione» convenzionale cioè «storico-culturale»” (ibidem). Tale esempio è utilizzato da Gramsci per far comprendere come il mondo esterno, pur essendo il prodotto della storia umana, ciò nondimeno conservi una sua realtà “oggettiva”.

Il termine “artificiale” è, invece, generalmente usato da intellettuali conservatori per criticare, in nome di un metodo che si vuole ispirato alle scienze naturali, non solo le rivoluzioni, ma lo stesso concetto di eguaglianza, considerati artifici contrari alla natura. Tali posizioni sottintendono, a parere di Gramsci, una concezione di ciò che sarebbe naturale “veramente convenzionale e artificiale perché la realtà lo ha distrutto” (2, 91: 249). Del resto, secondo Gramsci, da tali prospettive conservatrici e scientiste si finisce per considerare naturali e legittime le sole azioni storiche che tendono “a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto «ideologico», «astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è stato effettuato e anzi molto più” (ibidem).

Infine, Gramsci mostra come anche nel popolo penetrino, attraverso strumenti più o meno deleteri di diffusione della cultura, “tutta una serie di atteggiamenti «artificiosi» di vita popolare, di modi di pensare” (8, 46: 969). In tal caso il termine “artificioso”, almeno nella sua accezione deteriore, non soddisfa pienamente Gramsci, “perché negli elementi popolari questa artificiosità assume forme ingenue e commoventi. Il barocco, il melodrammatico sembrano a molti popolani un modo di sentire e di operare straordinariamente affascinante, un modo di evadere da ciò che essi ritengono basso, meschino, spregevole nella loro vita e nella loro educazione per entrare in una sfera più eletta, di alti sentimenti e di nobili passioni” (ibidem).

Note:

[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, Vol. II, p. 885. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e (dopo i due punti) il numero di pagina di questa edizione.

[2] Gramsci aggiunge, inoltre, che date le “condizioni in cui è nata l’economia classica, perché si possa parlare di una nuova «scienza» o di una nuova impostazione della scienza economica (il che è lo stesso) occorrerebbe aver dimostrato che si sono venuti rilevando nuovi rapporti di forze, nuove condizioni, nuove premesse, che cioè si è «determinato» un nuovo mercato con un suo proprio nuovo «automatismo» e fenomenismo che si presenta come qualcosa di «obbiettivo», paragonabile all’automatismo dei fatti naturali. La economia classica ha dato luogo a una «critica dell’economia politica» ma non pare che finora sia possibile una nuova scienza o una nuova impostazione del problema scientifico” 11, 52: 1478.

[3] Del resto, come fa notare Gramsci, “l’applicazione delle leggi della meccanica e della matematica ai fatti sociali, ciò che non dovrebbe avere che un valore metaforico”, diventa, al contrario “il solo e allucinante motore intellettuale (a vuoto)” (13, 38: 1650) di un tale progetto politico.

 

24/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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