Ingrao: cent'anni di rivoluzione

Contrariamente a quanto divulgato dai media di oggi, Pietro Ingrao non è stato un antesignano del liberalismo “alla Gorbaciov”, ma un autentico comunista.


Ingrao: cent'anni di rivoluzione Credits: Maurizio Di Loreti

Contrariamente a quanto divulgato dai media di oggi, Pietro Ingrao non è stato un antesignano del liberalismo “alla Gorbaciov”, ma un autentico comunista e quindi un convinto fautore della democrazia interna al partito che aveva intuito la natura del neocapitalismo italiano e prospettato un altro modello di sviluppo da raggiungere grazie a una nuova programmazione democratica: ovvero la centralità della classe operaia in alleanza con le classi medie. Ha avuto funerali di Stato con la presenza delle più alte autorità politiche italiane, Renzi incluso, ma anche con tante bandiere rosse e pugni chiusi. Una contraddizione tipica del gruppo dirigente del PCI.

di Pietro Antonuccio e Stefano Paterna

Nato in un paese agricolo del basso Lazio durante la prima guerra mondiale, il compagno Pietro Ingrao è morto a Roma cento anni dopo in uno scenario italiano e mondiale profondamente mutato. La sua vita ha attraversato eventi e passaggi storici epocali tra cui la Rivoluzione d’Ottobre, le due guerre mondiali, il nazi-fascismo, la Resistenza, le età della decolonizzazione e della nascita degli stati socialisti, la guerra fredda, la crisi del socialismo reale, l’affermarsi del neocolonialismo e delle nuove forme del dominio capitalista ed imperialista “post-moderno”, l’intera parabola politica italiana dal Regno prefascista e fascista, all’affermazione della Repubblica e della Costituzione, fino alle involuzioni più recenti della seconda (e terza) repubblica.

In questo arco temporale così lungo e denso di rivolgimenti, conflitti e contraddizioni, Ingrao ha sempre fatto sentire la sua voce sia con opera fattiva (a partire dal diretto impegno nella Resistenza antifascista) sia con originali elaborazioni e letture dei fenomeni sociali e politici. Le sue prese di posizione hanno spesso fatto discutere perché, condivisibili o meno, avevano comunque il pregio di introdurre importanti spunti di confronto e di arricchimento per tutto il mondo comunista e non, lo caratterizzavano come voce critica ma anche come uomo del dialogo, come intellettuale comunista aperto agli apporti di culture e tradizioni diverse, anche in ambiti non strettamente politicisti: si pensi alle sue ricerche e sperimentazioni in ambito letterario e in generale artistico (a partire dalle antiche esperienze cinematografiche), alla sua sensibilità per la dimensione spirituale fino alla condivisione, da non credente, delle istanze del cristianesimo di base e al particolare sodalizio con Ernesto Balducci.

In tutto il suo lungo e complesso itinerario, però, Ingrao non ha mai smesso di porre al centro la sua fondante identità politica di comunista e di rivoluzionario, testardamente rivendicata, anzi, in tutte le circostanze, fino all’ aperta opposizione al progetto occhettiano della Bolognina e fino ancora, da agguerrito novantenne, alla pubblica adesione al Partito della Rifondazione Comunista.

Una volta scomparso, Ingrao ha avuto funerali di Stato, con la presenza, tra gli altri, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del presidente del Senato Piero Grasso, della presidente della Camera Laura Boldrini e del capo del Governo (il giovane Renzi), di un governo che di sicuro gli piaceva meno di niente. Tanti gli applausi, tanta la commozione e i canti, tanti i pugni chiusi e le bandiere rosse... nonostante i funerali di Stato.

Ma la contraddizione ora così visibile, quella che fa riferimento a un rivoluzionario omaggiato da chi di certo non lo è, non è attribuibile a Ingrao, bensì è il risultato di una tensione che ha logorato il suo partito, il PCI, si può dire dall'immediato dopoguerra (svolta di Salerno?) all'epilogo della Bolognina. Ingrao, forse è stato il dirigente più sensibile alla dimensione esplosiva di questa contraddizione e si può dire che tutta la sua militanza, tutto il suo lavoro politico è stato dedicato al disinnesco dell'ordigno che il PCI covava in sé stesso o meglio nel suo agire politico.

Basta ricordare alcuni aspetti tra i tanti che possono essere utili oggi ad una riflessione su quella storia e sui nodi ancora da sciogliere nel faticoso percorso per la rifondazione comunista.

Il 27 gennaio 1966 Pietro Ingrao fece il suo intervento all'XI congresso del PCI e suscitò lo scandalo della nomenklatura con la ben nota frase “non mi avete convinto”, riferita alle tesi della maggioranza di Longo e di Amendola. In questi giorni la stampa borghese, ricordando il “grande vecchio” della Sinistra italiana, lo ha “inchiodato” a quella frase, quasi tratteggiandola come una sintesi del pensiero e dell'azione sua e della sua area politica, i famosi “ingraiani” (Magri, Rossanda, Parlato, Natoli, Caprara, Castellina).

Secondo questa vulgata, lui era il comunista “eretico”; quello che voleva abolire la rigida disciplina leninista del cosiddetto “centralismo democratico” e far inondare il corpo irrigidito del partito comunista dai fluidi rigeneranti del dibattito pluralista, dai fermenti giovanili dell'epoca, insomma dal mondo. Nulla però sul merito della polemica che divise cosi aspramente il PCI in quell’XI congresso, sulla divaricazione delle posizioni tra Ingrao e il pezzo di partito che lo seguiva e il suo avversario Giorgio Amendola. C'è qui una distorsione della figura e della vicenda storica di Ingrao: se non si riportano alla luce i termini di quel dibattito lo si può liquidare come un “liberale”, un “antesignano di Gorbaciov”, mentre, peraltro, Ingrao era un convinto fautore del centralismo democratico, in quanto appunto democratico (cit. Pietro Ingrao, “La democrazia interna, l'unità e la politica del nostro partito, “Rinascita”, 1956, n. 5-6, pp. 316-317).

Il centralismo democratico in Ingrao (e nella migliore tradizione comunista) non è l'unanimismo o quello che egli definiva una “disciplina militaresca”, ma una organizzazione che consente il più ampio e democratico dei dibattiti, riconducendolo solo infine a una decisione che in quanto riconosciuta come corretta dalla maggioranza deve essere applicata da tutti i membri del partito. Ma l'esito appunto deve essere incerto, la maggioranza contendibile (per usare una terminologia da “primarie” oggi in voga), a nessuno - nemmeno al segretario di sezione, di federazione oppure nazionale - deve essere elargita una rendita di posizione.

Chiarito questo punto, c'è da affrontare la parte più importante ovvero la natura del dissenso che divideva Ingrao da Amendola e dal resto della maggioranza del PCI. Facciamo parlare uno dei protagonisti, Lucio Magri in un articolo sull'XI congresso pubblicato sul numero 24 de “La Rivista del Manifesto”del gennaio 2002: “La ‘sinistra ingraiana’ attribuiva al centro-sinistra un valore effettivo di novità, un disegno di integrazione culturale e sociale di una parte del movimento operaio, una capacità di durare e perciò un pericolo, per lo stesso PCI, di subalternità e omologazione. La storia successiva, di lungo periodo, avrebbe nel complesso confermato quella interpretazione. La ‘destra amendoliana’ considerava al contrario il centro-sinistra un tentativo abortito, oltre il quale già riemergeva l’incapacità delle classi dirigenti italiane di guidare la modernizzazione del Paese, di conquistare il consenso su basi nuove, e proprio perciò nutriva maggior fiducia in un rapido e pieno recupero della tradizionale unità tra comunisti e socialisti”.

E' questa l'intuizione (a noi sembra corretta) che caratterizza il pensiero e l'opera di Ingrao rispetto a quella che era allora, e rimarrà sino alla fine, la prassi del PCI che cederà sempre di più alla tentazione di essere partito delle istituzioni e non più partito rivoluzionario (nemmeno nella prospettiva). E oggi non sembra neanche un caso che allora, come dopo, dall'altra parte della barricata (e all'epoca individuato come segretario in pectore) ci fosse Giorgio Napolitano, futuro Presidente della Repubblica e tra i massimi sponsorizzatori dell'attuale governo. Da una parte, la volontà di costruire un partito e una sinistra in grado di mettere in discussione lo sviluppo neocapitalista, proponendo, a partire da un ruolo egemone della classe operaia, alle classi medie una programmazione economica in grado di delineare un altro modello di società; dall'altro la deriva (che poi c'è stata) verso un riformismo sempre meno radicale e poi infine la dissoluzione dettata dall'aver introiettato addirittura la visione del mondo del grande capitale.

Un’altra importante ed originale analisi venne svolta e sviluppata da Ingrao intorno ai numerosi e cruciali eventi dell’ “indimenticabile 1956” sui quali non smetterà di ritornare anche in epoche successive, anche sottoponendo ad autocritica le posizioni assunte nell’immediatezza dei fatti. In particolare risulta ancora oggi di estremo interesse il modo in cui egli criticò “da sinistra” le modalità e i contenuti della denuncia di Kruschev della gestione staliniana del potere sovietico, una denuncia rispetto a cui Ingrao evidenziava la carenza di un approccio marxista al problema e in particolare di una consapevolezza delle retrostanti ragioni materiali e politiche. Un approccio che poi Ingrao manterrà rispetto a tutte le esperienze del “socialismo reale”.

In un lucido testo del 1971 (successivamente raccolto in “Masse e Potere”)che andrebbe oggi interamente riletto, Ingrao afferma tra l’altro in ordine alla denuncia kruscheviana svolta al XX congresso del PCUS: “Certo: quando noi guardiamo alla violenza e radicalità dell’accusa, colpisce subito la estrema sommarietà dell’analisi e delle categorie sotto cui si volle raccogliere le vicende esaminate. Quella vicenda, difatti, metteva in discussione le forme - se non le basi sociali - del potere edificato sotto la direzione di Stalin e la sua gestione per tutto un ventennio decisivo. La critica invece a questa gestione del potere fu raccolta sotto la formula davvero superficiale ed ambigua del “culto della personalità”: formula che non soltanto sembrava avere poco a che spartire con un’analisi marxista, ma soprattutto sembrava ricondurre tutto ad una confusa distorsione soggettiva, di cui non si individuavano né le radici, né le tappe. Come si era giunti al “culto della personalità” nel processo di costruzione del potere sovietico? E che significava questa deviazione nell’edificio generale dell’URSS e negli altri paesi socialisti? E in che rapporto esso stava con le conquiste materiali e politiche della Rivoluzione d’Ottobre? Tutte queste domande rimanevano senza alcuna risposta reale.” [1]

Certamente molto rimane ancora da approfondire e anche da criticare nel lascito di Ingrao, nonché nei limiti e nelle contraddizioni che, a partire dalla sua opera, si sono sempre più accentuate soprattutto nelle generazioni successive che si sono richiamate all’ingraismo; ma senza dubbio oggi tutti i comunisti, di fronte alla scomparsa di questo importante dirigente, non possono che chinare le proprie bandiere.

Note

1. P. Ingrao, “L’indimenticabile 1956” in “Masse e Potere”, pag.121, Editori Riuniti 1977.

10/10/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Maurizio Di Loreti

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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