L’importanza della questione coloniale e la libertà negativa

La libertà formale tanto decantata dai liberali è stata negata e lo è tuttora proprio dall’Occidente liberale: l’Inghilterra nell’Ottocento non l’ha mai applicata ai popoli coloniali e tale discriminazione non avviene solo nelle colonie, ma anche nella metropoli, basti pensare alla condizione dei neri americani negli USA.


L’importanza della questione coloniale e la libertà negativa

Dal punto di vista filosofico, il marxismo, dopo il successo degli anni ’60 e ’70, ha attraversato una profonda crisi negli anni ’80, intensificatasi dopo l’89. A parere di Domenico Losurdo tale crisi non è dovuta unicamente al crollo del cosiddetto socialismo reale nell’Est Europa, le cause vanno ricercate anche nello stesso impianto teorico del marxismo, in particolar modo in quello occidentale. In gran parte del marxismo occidentale, anche negli anni del suo massimo sviluppo, è rimossa la questione coloniale. Nel saggio Come nacque e morì il marxismo occidentale [1] Losurdo riporta il dibattito inaugurato da Norberto Bobbio nel 1954 [2] e due differenti repliche, una di un politico, l’altra di un intellettuale marxista, entrambi italiani. Tale questione ci sembra estremamente utile a comprendere la tesi di Losurdo.

Bobbio, “pur giustamente insistendo sulla irrinunciabilità della libertà «formale» e delle sue garanzie giuridico-istituzionali” [3], riconosce agli Stati socialisti il merito di avere introdotto istituti di democrazia formale, quali il suffragio universale, l’elettività delle cariche ecc., nonché di democrazia sostanziale come, ad esempio, la collettivizzazione degli strumenti di produzione. Questo giudizio positivo del filosofo torinese è dovuto alla grande influenza che in quel momento storico gode il marxismo, tant’è che Bobbio rivendica anche l’importanza della democrazia sostanziale, quindi dei diritti economico-sociali [4]. Tuttavia il filosofo torinese, allo stesso tempo, critica gli Stati socialisti nella misura in cui non sono riusciti a introdurre “il governo della legge e i meccanismi garantisti liberali” e la “limitazione del potere” [5].

La reazione di un politico di professione quale Palmiro Togliatti al dibattito provocato dal filosofo liberale è quella di mettere in evidenza come la libertà formale tanto decantata dai liberali è stata negata e lo è tuttora proprio dall’Occidente liberale: la tanto celebrata Inghilterra nell’Ottocento non ha mai applicato ai popoli coloniali quei princìpi liberali di cui si ritiene custode e tale discriminazione non avviene solo nelle colonie, ma anche nella metropoli, basti pensare alla condizione dei neri americani nei liberali Stati Uniti.

Di tutt’altro stampo è, invece, la risposta di un autorevole filosofo marxista come Galvano Della Volpe il quale, per giustificare il ritardo nell’applicazione della libertà formale nell’Unione sovietica, invece di “addurre lo stato d’eccezione permanente imposto al paese nato dalla rivoluzione d’Ottobre e la minaccia nucleare che pesava su di esso” [ivi: 396], celebra la maggiore importanza della libertas maior, cioè della libertà positiva, quella che riguarda le condizioni materiali di vita, rispetto alla libertas minor, cioè i diritti civili e la libertà formale. In questo modo non fa che avvalorare la tesi di Bobbio, ossia la tesi che ascrive, erroneamente secondo il parere di Losurdo, alla tradizione liberale la difesa della libertà formale.

La posizione di Losurdo è, invece, più vicina a quella di Togliatti, il quale non sottovaluta la libertà formale e colpisce il punto debole dell’argomentazione di Bobbio, ovvero l’attribuzione alla tradizione liberale della difesa della libertà negativa/formale. Losurdo, infatti, contrasta l’immagine del liberalismo come “la storia della progressiva affermazione della «libertà negativa»” affermando che essa, invece, non è altro che “un’auto-rappresentazione ideologica in stridente contraddizione con lo svolgimento storico reale” [6]. La schiavitù delle colonie non è solo reale, ma viene teorizzata dai pensatori liberali: “da Locke a Mill, nei classici del liberalismo, la teorizzazione della libertà negativa procede di pari passo con l’enunciazione di clausole d’esclusione” [7], esclusione che non riguarda solo i popoli coloniali e di origine coloniale, ma anche lavoratori bianchi spesso sottoposti a condizioni servili o semiservili “ancora nell’America post-rivoluzionaria” [8]. Della Volpe invece, rimuovendo l’importanza della questione coloniale, lascia alla tradizione liberale la difesa dei diritti civili e della limitazione del potere.

Anche Ernst Bloch, nell’opera Diritto naturale e dignità umana del 1961 [9], parlando di Grozio e di Locke, dimentica come tali autori giustifichino la schiavitù. Losurdo ricorda invece come Locke, il grande teorico del liberalismo, “vorrebbe sancito nella Costituzione di una colonia inglese in America il principio per cui «ogni uomo libero della Carolina deve avere assoluto potere e autorità sui suoi schiavi neri qualunque sia la loro opinione e religione»” [10]. Del resto lo stesso J. S. Mill, il cui inno alla libertà viene osannato da Bobbio, giustifica proprio nel saggio On Liberty “il «dispotismo» dell’Occidente sulle «razze» ancora «minorenni», tenute ad osservare un’«obbedienza assoluta», in modo da poter essere avviate sulla via del progresso” [11]. Bloch quindi, pur non sottovalutando diversamente da Della Volpe la libertà negativa, tace sulla “barbara discriminazione” dei popoli coloniali da parte dell’occidente liberale, ascrivendo così la libertà formale alla tradizione liberale, cui rimprovera unicamente di “propugnare un’«uguaglianza formale e soltanto formale»” [12].

Nel marxismo occidentale si possono riconoscere due tipi di giudizio riguardo la libertà negativa/formale: quello di chi, come Della Volpe, sottovaluta la libertà negativa a favore di quella positiva e quello di chi, come Bloch, pur tenendone conto, la ritiene insufficiente, in quanto libertà unicamente formale. In entrambi i casi la libertà formale viene ascritta alla tradizione liberale, poiché tutt’e due i filosofi tacciono sulla “barbara discriminazione” che avviene nelle colonie, dove risulta evidente il mancato rispetto, da parte dei liberali, delle libertà fondamentali [13]. Tutt’e due le posizioni risentono, in un certo senso, dell’egemonia dei liberali, perché avallano la rappresentazione che questi ultimi danno di se stessi, presentandosi come i difensori e propugnatori della libertà negativa lungo il corso della storia.

Losurdo, nel libro Marx e il bilancio storico del Novecento mostra con dovizia di particolari come sia alquanto inattendibile la tesi secondo cui il principio ispiratore del liberalismo sia l’inviolabilità della sfera privata dell’individuo, ovvero la libertà negativa. Abbiamo visto come i teorici del liberalismo difendano l’istituto della schiavitù nelle colonie. L’esclusione dai diritti non riguarda però solo i popoli coloniali o di origine coloniale; Losurdo sottolinea come “ancora nell’America post-rivoluzionaria, anche numerosi lavoratori bianchi, i cosiddetti indentured servants” [14] erano in condizioni di semi-schiavitù, in quanto “vengono venduti e acquistati in un regolare mercato, annunciato dalla stampa locale, e a cui viene data la caccia in caso di fuga o di allontanamento indebito dal luogo di lavoro” [15]. Nell’Inghilterra liberale della fine del ’700 sono più o meno esclusi dalla libertà negativa gli stessi lavoratori inglesi, per non parlare di disoccupati e vagabondi spesso rinchiusi in quelle istituzioni totali che sono le workhouses. Del resto, lo stesso Locke era convinto che “disoccupati e vagabondi” dovevano “essere totalmente sottoposti allo Stato” [16]. Il controllo dall’alto, però, non riguarda solo l’attività lavorativa: Mandeville, liberale della prima ora e propugnatore di una morale laica, è convinto che i poveri la domenica dovrebbero andare in chiesa per avere un indottrinamento religioso e quello dovrebbe essere il loro unico svago. Mill, invece, nella seconda metà dell’Ottocento, è convinto che lo Stato è legittimato a vietare il matrimonio ai poveri. Del resto è solo nel 1967 che negli Stati Uniti “la Corte Suprema […] dichiara definitivamente incostituzionali le leggi che, in alcuni Stati del Sud ancora vietavano i matrimoni interrazziali, violando gravemente la libertà negativa non solo dei neri ma degli stessi bianchi” [17].

È chiaro, quindi, secondo Losurdo, che la tesi che identifica tradizione liberale e libertà negativa non ha nessun fondamento, vista l’esclusione dalla stessa libertà negativa e formale di “determinati gruppi sociali e etnici” [18]. Il punto è che i liberali comprendono il nesso tra libertà positiva e negativa: essi riconoscono che i lavoratori salariati non sono liberi a causa delle loro condizioni materiali di vita che non gli permettono di essere liberi dal bisogno. Da ciò, però, traggono la conclusione che non ha senso estendere i diritti politici a coloro che sono schiavi della propria esistenza. “La distinzione tra libertà negativa e positiva rinvia ad una successiva fase di sviluppo della tradizione liberale, allorché si tratta di bloccare il processo di emancipazione delle classi popolari, alle quali bisogna pur concedere qualche libertà” [19]. Quindi, quando non si può fare a meno di riconoscere qualche libertà anche alle classi popolari, i liberali stanno bene attenti a limitare tali libertà alla sola sfera negativo-formale.

Marx ed Engels, invece, a differenza dei liberali, hanno sempre rivendicato per operai, schiavi neri e disoccupati la libertà negativa e, di fronte alla contraddizione tra sfera economico-materiale e sfera giuridico-politica, non hanno tentato di superarla adeguando la seconda alla prima “come intendeva il proto-liberalismo, ma al contrario, mediante radicali trasformazioni dei rapporti e delle condizioni materiali di vita” [20].

Diversamente da come afferma Bobbio, per Losurdo il contrasto tra tradizione marxista e tradizione liberale non parte dai contenuti, ma dal soggetto della libertà. A tale proposito Losurdo scrive: “lo schiavo da Locke viene escluso dal godimento della libertà perché non è neppure propriamente sussunto sotto la categoria di uomo. Ad essere esclusi in primo luogo dalla tradizione liberale dal godimento della libertà sono i popoli coloniali e di origine coloniale. Ma anche i lavoratori della metropoli, cui talvolta nega la stessa libertà negativa, la tradizione liberale fa fatica a sussumerli pienamente sotto il concetto di uomo: le loro conoscenze – sottolinea Locke – non vanno e non possono andare, «per il naturale e inalterabile stato di cose in questo mondo», al di là di quelle del «cavallo da soma»” [21].

Nei paesi liberali l’uomo nella sua universalità non è il soggetto della libertà liberale e neanche strettamente, a parere di Losurdo, di quella democratica; basti pensare al paese considerato da Tocqueville il democratico per eccellenza, gli Stati Uniti, che procede al genocidio dei Pellirossa e tiene i neri in condizioni di schiavitù. Locke, quando condanna il dispotismo perché tiene gli uomini in schiavitù, ha in mente “non l’«uomo» in generale”, ma “l’Englishman” o ancor meglio il “gentleman”, perché è convito che vi sono degli uomini per legge di natura “soggetti al dominio assoluto e all’incondizionato potere dei loro padroni” [22]. Ma anche J. S. Mill, due secoli dopo, fa valere lo stesso principio di discriminazione di Locke per i popoli coloniali, e la stessa cosa fa Kipling che li considera “metà bambini e metà diavoli”, quindi, bisognosi di tutela da parte delle potenze colonizzatrici. Fino ad arrivare a Popper, “il quale per un verso esclude le ex-colonie dalla comunità del «mondo civile» per un altro verso le assimila ad un «asilo infantile», che troppo sbrigativamente e semplicisticamente le grandi potenze hanno abbandonato a se stesso” [23].

Marx ed Engels, al contrario, si sono sempre battuti per la conquista dei diritti civili e politici anche per le classi subalterne. Sulla questione coloniale si può pensare a Lenin per il quale la democrazia e la libertà sono pensabili solo attraverso “la democratizzazione dei rapporti internazionali” [24], quindi, solo attraverso la liquidazione del dispotismo sui popoli coloniali da parte delle potenze occidentali.

Certo, il considerare – da parte della tradizione liberale – la libertà negativa come un privilegio, sancendo la logica dell’esclusione e poi la limitazione della libertà alla sola sfera giuridica, escludendo l’aspetto economico-sociale, ha portato la tradizione marxista a liquidare come formale la libertà liberale o “democratico-borghese”, “cui ha contrapposto più ancora che la libertà «sostanziale», il mito dell’estinzione dello Stato” [25]. A parere di Losurdo, questa è però una soluzione sbagliata a un problema reale “che ha, comunque, fortemente ostacolato il processo di sviluppo democratico della società nata dalla rivoluzione d’Ottobre” [26]. La convinzione di un rapido dileguarsi del potere dello Stato ha fatto perdere di vista, nei paesi in transizione al socialismo, la necessità della sua limitazione, ostacolando così l’acquisizione degli aspetti più significativi del liberalismo.

Losurdo, con questa sua significativa critica sia alla storia del liberalismo che alla tradizione marxista, si conferma come autore originale ed eterodosso. Egli mostra, inoltre, grazie ai suoi importanti studi sul liberalismo [27], di essere un autore sicuramente più autonomo e meno egemonizzato dal pensiero dominante rispetto a diversi altri intellettuali che ancora oggi si richiamano al marxismo.

 

Note:

[1] Losurdo, Domenico, Come nacque e morì il “marxismo occidentale”, in a cura di Cingoli, M., e Morfino, V., Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, Edizioni Unicopli, Milano 2011, pp. 395-418.

[2] Cfr. Bobbio, Norberto, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1977.

[3] Losurdo, D., Come nacque…, op. cit., p. 395.

[4] Dopo la Seconda guerra mondiale e con il crollo delle dittature fasciste si assiste, in occidente, a una forte espansione della democrazia e ciò si riflette anche in molti autori liberali che, in questo periodo, si soffermano sull’importanza dei diritti economico-sociali. Queste aperture alla democrazia sostanziale, presenti in pensatori come Bobbio e Popper, verranno da questi autori successivamente abbandonate. Tale questione è sviluppata da Losurdo nel libro Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993, cfr. in particolare pp. 244-47.

[5] Ibidem.

[6] Id., Marx e il bilancio storico del novecento, La scuola di Pitagora editrice, Roma, 2009, pp. 59-60.

[7] Ivi, p. 61.

[8] Ibidem.

[9] Cfr. Bloch, Ernst, Diritto naturale e dignità umana, traduzione di Russo G., Giappichelli, Torino 2005.

[10] Losurdo, D., Marx e il bilancio…, op. cit., p. 60.

[11] Id., Come nacque…, op. cit., p. 396.

[12] Ibidem.

[13] Nel marxismo orientale, invece, a parere di Losurdo, la questione coloniale e il problema dell’esclusione viene messo decisamente in primo piano. Così mentre, ad esempio, “Bloch critica la rivoluzione borghese per il fatto che essa «limitò l’uguaglianza a quella politica»; con riferimento agli afroamericani, Mao fa notare che «la maggior parte di loro è privata del diritto di voto». Ridotti a merce e de-umanizzati dai loro oppressori, per secoli i popoli coloniali hanno condotto battaglie memorabili per il riconoscimento, ma in Bloch si può leggere: «il principio per cui gli uomini nascono liberi e uguali è già presente nel diritto romano; ora dev’essere presente anche nella realtà». Ed ora vediamo la conclusione dell’articolo di Mao già citato del 1963: «Il malvagio sistema colonialista-imperialista si sviluppò con la riduzione in schiavitù e la tratta dei neri, ed esso giungerà certamente a termine con la loro completa liberazione».” Ivi, p. 397. Sulla stessa linea di Mao Zedong si muove Ho Chi Minh, che mette sotto accusa le atrocità perpetrate dall’imperialismo francese a danno dei vietnamiti completamente privi di diritti. In questo senso il marxismo orientale risulta, per Losurdo, molto più vicino alla lezione di Lenin e di Marx, che in molte pagine hanno denunciato le continue violazioni di diritti da parte dei paesi liberali nei confronti dei popoli coloniali e delle minoranze nazionali (cfr. ivi, p. 398), rispetto a quello occidentale che, molto spesso, ha taciuto la logica dell’esclusione propria del liberalismo.

[14] Id., Marx e il bilancio…, op. cit., p. 61.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 63.

[17] Ivi, pp. 63-64.

[18] Ivi, p. 64.

[19] Ivi, p. 66.

[20] Ivi, p. 68.

[21] Ivi, pp. 68-69.

[22] Ivi, p. 70.

[23] Ivi, pp. 70-1. Losurdo si riferisce all’intervista rilasciata da Popper a «Der Spiegel» il 23 marzo 1992 e a «La Stampa» il 9 aprile 1992.

[24] Ivi, p. 71.

[25] Ivi, p. 74.

[26] Ibidem.

[27] L’opera di Losurdo più importante su questo tema e tradotta in diverse lingue è sicuramente Controstoria del Liberalismo, Laterza, Bari 2005.

28/04/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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