La ragione del nazionalismo

Il nazionalismo quale risposta illusoria ai mutamenti spazio-temporali determinati dal mondialismo.


La ragione del nazionalismo

Partiamo da un dato di fatto: se il nazionalismo nostrano (e non solo) ottiene tanti consensi, una ragione – in senso strettamente causale, naturalmente – ce la deve avere e gliela dobbiamo dare. Ma allora: che ragione ha il furore nazionalista che per giorni si è materializzato, ancora una volta, in una barca senza possibilità di approdo definitivo? Inoltre: è possibile affrontare questo argomento mettendosi nel cono d'ombra delle tradizionali spiegazioni?

Ad essere onesti, non è così soddisfacente e pienamente ragionevole pensare che basti accennare alla paura delle persone, alla crisi, al razzismo e chissà cos'altro per arrivare alla profondità del fenomeno. Beninteso, sono tutte spiegazioni che hanno senso e in sé corrette ma, presentate così, sono solo parole e forse c'è bisogno di vedere cosa ci sia attorno a esse, di cercare di individuare il non detto di queste idee: il loro cono d'ombra. Per ‘cono d'ombra' non si vuole alludere al lato oscuro o al ‘male radicale' che si cela dietro l'attualissimo nazionalismo, bensì solo osservare quel contesto silenzioso e tuttavia pienamente operante, quel taciuto che accompagna ogni evento. L'ombra è ciò che ci è così vicino da non essere visto. Hegel, al proposito, affermava: “Il noto, in quanto noto, non è conosciuto”. Bene: questo noto-ignoto potrebbe essere la dimensione spazio-temporale innescata dal tardo capitalismo. Infatti, la percezione dello spazio e del tempo (che si tematizzino esplicitamente o meno) è alla base di qualsivoglia rappresentazione e conseguente concezione del mondo.

Per dare un po’ di senso a questo nazionalismo, così come si presenta di questi tempi (naturalmente indicando con questa parola un concetto che ha attraversato secoli assumendo connotati molto diversi), dovremmo convincerci, una volta per tutte, dell’efficacia della prospettiva materialista in ogni analisi sociale, quindi economica e culturale. Solo una pregiudizievole ostinazione ideologica può non riconoscere che la celebre teoria del rapporto tra struttura e sovrastruttura è, ancora oggi, non la teoria filosofica del comunista Marx ma semplicemente il miglior approccio, il più serio, allo studio della statica e della dinamica di ogni società (per quanto Marx ed Engels stessi ne abbiano relativizzato l'importanza). È una prospettiva, quella marxiana, integrabile, aggiornabile ma, va ripetuto, è l’unica via d’accesso per capire perché succede quel che succede.

Qualora qualcuno non conoscesse questa concezione del rapporto tra vita e base materiale riporto la definizione di Renato Caputo: “Questa notissima concezione può essere così esposta nel modo più sintetico: il corso storico ha inizio quando gli uomini si differenziano in modo decisivo dagli altri animali autoproducendo i propri mezzi di sussistenza. A tale decisiva attività primaria non può che essere subordinata la produzione delle idee. Come non si stancano di sottolineare Marx ed Engels: “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma al contrario è il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Dal momento che la produzione spirituale dell’uomo è condizionata storicamente dalla sua riproduzione materiale, la storia delle sovrastrutture – una storia autonoma dell’arte, della religione, della filosofia – è il prodotto di un’astrazione intellettuale. Nel mondo reale, le sfere giuridiche, politiche, culturali, religiose costituiscono degli aspetti sovrastrutturali che hanno alla base, come fondamento storico, uno stesso modo di produzione economico basato su determinati rapporti sociali”.

Ciò vale a dire: il modo in cui una società produce – in un determinato presente – determina quello che essa pensa, la mentalità che propone e, dunque, la cultura in senso lato a cui dà luogo (e ciò è fondamentale per capire sia le idee della classe dominante sia i motivi della reazione ad esse): dalla struttura economica della società e dai cambiamenti che essa comporta continuamente si genera la nostra vita di coscienza.

Questa struttura, va da sé, oggi come ieri si chiama capitalismo pur con la precisazione che quest’ultimo non è affatto inquadrabile una volta per tutte perché nella storia ha assunto varie forme. L’ultima di esse, che ancora perdura oggi, è quella iniziata negli anni ‘70 e che il grande filosofo David Harvey, nel suo capolavoro “La crisi della modernità”, chiama accumulazione flessibile.

Che tipo di capitalismo è quello basato sull'accumulazione flessibile? Diciamo quello che, venuta meno per ragioni strutturali la sostenibilità del capitalismo fordista-keynesiano (per intenderci: quello della grande produzione di fabbrica), dagli anni ’70 e in costante progressione fino ad oggi, ha cercato di rimanere in vita operando un sostanziale decentramento aziendale rispetto ai mercati nazionali, quindi instaurando una vera e propria internazionalizzazione del capitale anche grazie all'industrializzazione del Terzo mondo. Allo scopo di salvaguardare il sacro principio dell'accumulazione capitalistica (non più garantita dal fordismo), si sono cercati e creati nuovi mercati e, giocoforza, la concorrenza tra regioni geografiche prima escluse dalla circolazione del capitale ha innescato grandi cambiamenti globali.

Nello stesso tempo, strategicamente, è avvenuta la deindustrializzazione competitiva dei paesi occidentali che hanno così sviluppato massicciamente nuovi settori produttivi, in particolare il settore dei servizi, spesso vedendo il ricorso costante delle aziende a subappalti di ogni tipo. L'enorme sviluppo tecnologico e recentemente informatico è stato naturalmente il sostrato necessario di tali sommovimenti con tutto ciò che ha significato per gli individui in termini di ristrutturazione mentale e relazionale.

Ma ogni cambiamento epocale, ca va sans dire, ha sempre avuto un prezzo molto alto per chi non era coinvolto nei processi decisionali: cioè la maggioranza delle persone. La classe lavoratrice ha visto ridurre inesorabilmente il proprio potere economico, politico, sociale e intellettuale; è stato sferrato un pesante attacco a salari reali, intrapresa una lotta al potere sindacale (anche grazie a delocalizzazione e riduzione delle dimensioni degli stabilimenti), si è assistito ad una crescita costante di contratti a termine con conseguente diffusa precarietà, si è posta in essere una vera e propria privatizzazione dei bisogni collettivi ed un'educazione alla flessibilità presentata come obbligo ma anche come valore. Insomma, accumulazione flessibile ha significato e significa: processi produttivi flessibili, mercati del lavoro flessibili e, inutile dirlo, prodotti e modelli di consumo flessibili.

Assolutamente impossibile riassumere qui la corposa e dettagliata analisi di Harvey sulle ragioni di tale mutamento; tuttavia, un tema che l'autore prende in esame è quello che ci serve in questo caso: la modificazione spazio-temporale che tale transizione del capitalismo ha comportato. Sia chiaro, è da sempre che il capitalismo lo fa. Se vi sembra qualcosa di eccessivo, potete pensare a quale epocale cambiamento sia stato il cominciare, per ragioni sostanzialmente economico-commerciali, a misurare il tempo con gli orologi, a dare al tempo cioè una misura esatta e oggettiva, così come i viaggi di Colombo e colleghi (sempre a scopo commerciale) abbiano cambiato la nostra idea di spazio (questo è, come nota Marx, l'elemento positivo-rivoluzionario della borghesia).

Ecco, allora, che anche questi ultimi sommovimenti del Capitale hanno comportato un costo culturale, ‘percettivo', oltre che economico; facciamo un esempio: l'azione di concerto e collettiva non ha più senso? Allora l'individualismo rampante e gaudente degli anni ’80 diventa uno stile di vita, una moda, un way of life improntato alla leggerezza che, tuttavia, nasconde ragioni molto materiali. Più in generale, con una flessibilità così onnipervasiva comincia ad emergere una nuova ‘sostanza’ della realtà: il fuggevole, l'effimero, il transitorio e il contingente si candidano a rappresentare il vero senso del Reale. La famosa età del cosiddetto post-modernismo è solo il riverbero letterario e artistico di tali cambiamenti material-economici; la consapevolezza della fine delle grandi narrazioni, del fluire caotico incessante del vivere con i suoi molteplici sensi, la fuggevolezza e la liquidità del quotidiano, la sottolineatura dell’istantaneità e della sempre possibile eliminabilità di tutto (anche dei valori) viene da qui.

“Da questo punto di vista [mirabilmente espresso nella parte centrale del testo, ndr] ciò che determina quindi lo sviluppo del postmodernismo è il passaggio dall'accumulazione di tipo fordista all'accumulazione flessibile. Passaggio legato alle contraddizioni interne del sistema che ha funzionato fino alla metà degli anni ‘70 e poi viene sostituito dal sistema economico che ancora oggi è in vigore. Ovviamente l'analisi di Harvey si ferma prima ma alcune delle conseguenze che vedremo in azione nella crisi attuale sono già in nuce. Cosa accade? L'analisi di Harvey diventa quindi l'analisi di un fenomeno (per niente nuovo e ciclico) che viene denominato accelerazione spazio-temporale (oggi si direbbe globalizzazione finanziaria). Il post modernismo è quindi l'insieme di culture, stili di vita, costruzione del consenso che accompagna il nuovo modello di sviluppo” [1].

Questo punto va chiarito con forza: non è l'umanità che si è autonomamente liberata dal fardello dei valori per chissà quale scopo, o il fantomatico ‘progresso’ che ha indotto le persone a prendere coscienza che non esistono verità assolute, come piace pensare ai liberal-democratici di tutto il mondo. Trattasi, invece, del necessario adattamento degli uomini alla schopenhaueriana volontà di vivere del capitale. D'altronde, un'economia basata sui servizi, vista la breve vita ed evanescenza di essi rispetto a beni durevoli, e sulla temporaneità dell'impiego, non può che modellare una società che disapprova l'attaccamento alle cose, alle relazioni, alle persone, alle tradizioni e ai luoghi. Ed è quest'ultima cosa ad interessarci perché tutte queste nuove prospettive assiologiche hanno alla loro base oggettivi mutamenti nel radicamento spazio-temporale degli uomini.È la questione della compressione spazio-temporale operata dal capitalismo.

La progressione inarrestabile della globalizzazione ha comportato l'unificazione degli spazi e cioè l'annullamento dell'ultimo argine all'accumulazione capitalistica: la distanza; ciò ha reso inevitabilmente meno importanti i luoghi rendendoli tutt'al più base temporanea di riproduzione della forza-lavoro, comunque sinonimo di ostacolo identitario alla fluidificazione spazio-temporale, così che la tanto decantata flessibilità è stata ottenuta piegando forzosamente ogni resistenza localistica e ogni pretesa di una temporalità definita. Il capitalismo ha, globalizzando, unito gli spazi con il tempo. Paradossalmente, ma forse non più di tanto, unendoli ha disintegrato i luoghi nella loro qualità di 'spazi emotivi' perché ciò che importa è la velocità nel coprire gli spazi e non dare vita a luoghi a prescindere dal loro inserimento nel sistema produttivo. Per un certo periodo, una piccola provincia o un quartiere possono essere rivitalizzati dall'arrivo di una produzione ma… finché serve, dopo sarà il deserto.

Se non ci sono né luoghi e né tempi definiti nel circuito globale, la crisi di identità non può che esplodere perché spazio e tempo individuano un essere raccogliendo in un punto la sua storia. Il nazionalismo popolare sembra volersi riappropriare degli spazi come luoghi proprio fermando il tempo, il cambiamento. Questo disagio delle masse può solo essere acuito dal fenomeno migratorio. Centinaia di individui sconosciuti (perché appunto di essi si ignora storia e luoghi, cioè tempo e spazio, vale a dire principio di individuazione) sconfinano senza sosta, con quella determinazione che l'autoctono ha capito è meglio non avere di questi tempi, rappresentando un'ulteriore minaccia di distruzione dei propri luoghi. È una psicosi da accerchiamento, da tutti i lati sembrano giungere pericoli per il mio radicamento: c'è chi vuole renderlo impossibile (il Capitale) e chi sembra volerlo sostituire, se va bene sbiadirlo inquinandolo (lo straniero).

Al cittadino non rimane che dare fiducia al nazionalismo, all'illusione (capitalismo stante trattasi infatti d’ illusione) che il muro possa ridare quello che altri hanno tolto e continueranno a togliere. L'illusione è riversare sulla fantomatica Nazione, che spesso non si conosce né si ama davvero per intero, la rabbia di una realtà che non si riesce più a controllare né a vedere davvero, ed è così che uno spesso misero nazionalismo si tinge di nostalgie per un passato colorato dai desideri del presente. La Patria, l'orgoglio identitario, sono la comprensibile alienazione e la necessaria proiezione delle qualità dell'unico spazio emotivo rimasto, dell'unico vero luogo che resiste, la casa e la famiglia, in un'entità ideale e mai esistita (almeno nei termini in cui se la figurano coloro che la inneggiano): la Nazione.

Il leader politico, ben più scaltro di quello che appare, sa inoltre che in questo fluire caotico di immagini, voci, idee contraddittorie, confusioni identitarie, la semplicità del messaggio, l'identificazione con un'unica idea, rimane. Quell'uomo ha capito, più di tutti, che quello che le persone vogliono è qualcosa che rimanga davanti agli occhi e nella testa: che il tempo si fermi e lo spazio non si muova più. Il rimanere, dunque, sembra l'unico antidoto agli effetti intellettualmente nefasti del c.d. postmodernismo. Questo è il grande successo dei leader nazionalisti: aver dato qualcosa da capire perché si vede, e si vede perché il No, in tempi complessi, blocca il processo e tende a realizzarsi visivamente in modo immediato. Le cose cominciano ad avere un senso. Se metto un muro le persone si ammasseranno dall'altro lato. Il no crea effetti visibili e prevedibili i quali danno l'illusione, per così dire, di poter ridurre gli esponenti della realtà.

Il sì appare come un lusso, una compiaciuta esibizione di apertura mentale da parte di chi non è costretto a calcolare le conseguenze, ennesima suonata lirica mentre la terra si apre e ci inghiotte. Come si complica la questione con un sì! Cosa comporta dire sì ad uno sbarco? Ecco che arriva ancora l'ennesima nave (chi si ricorda il nome di tutte quelle arrivate e che hanno potuto far sbarcare i migranti? La Diciotti la ricorderemo per molto), tutti scendono frettolosamente avvolti da coperte e circondati dai sanitari, è notte e in breve tutti si disperdono, li vedo a volte nella mia città senza capire cosa facciano, effettivamente creano problemi… però mi fanno pena, ho paura… ma non devo essere razzista, sono sfortunati… ma io non ho colpa. Il sì mi sfugge come sabbia tra le dita, mi rende contraddittorio e non vedo concretamente quel che comporta. Non riesco a controllare visivamente e razionalmente le conseguenze. Il sì non mi obbedisce, il sì è l'ennesimo ‘+’ della produzione in serie di questo presente, è caos, e oggi la richiesta è di un cosmo.

Allora, in conclusione: come si può pretendere che in una società sradicata, confusa e impaurita si veda con favore avviare un processo che, sulle prime, si ha tutta la ragione del mondo a temere perché sembra procedere nella stessa direzione di tutto quello che ha distrutto il qui e ora? La soddisfazione per la fermezza dello Stato è la soddisfazione per atteggiamenti che non possiamo più permetterci nel privato, un’àncora alla quale un uomo che non sa più chi è deve aggrapparsi. D'altronde, questo già l'aveva capito un secolo fa il grande sociologo e filosofo Simmel: “In ogni caso, l’individuo è sempre meno all’altezza dello sviluppo lussureggiante della cultura oggettiva [...] l’individuo è ridotto ad una quantité négligeable, ad un granello di sabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, trasferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva”. Secondo Simmel, in tempi di frammentazione e incertezza riemerge il desiderio di valori stabili enfatizzando il ruolo che le istituzioni-base dovrebbero avere: famiglia, religione e… Stato; questo ruolo, diciamo noi, è percepito così importante proprio perché tali istituzioni lo esercitano offrendo tempo e spazio definiti, cioè senso: quello che oggi sembra sparito dall'orizzonte.


Note

[1] A cura di Genova City Strike NST-Genova “Note a margine su La crisi della modernità di David Harvey

[2] Cfr. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Milano, 1995.

26/01/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alberto Manicone

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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