L’anima e le forme

Nella scissione di forma e vita ciascuna forma, che aspira all’incondizionatezza e all’assolutezza, è una delle tante posizioni relative a un aspetto particolare della vita, ma a cui è precluso poterne abbracciare la totalità.


L’anima e le forme

Elio Matassi ravvisa già ne Il dramma moderno, prima monografia del giovane Lukács, una ipostatizzazione della forma tragica come forma esemplare del dramma, sebbene in compresenza e in contrapposizione con il profilo metodologico storico-filosofico: “la rottura non avviene cioè nella direzione pantragica, se la suddetta dimensione è già presente in Mdft (leggi: Il dramma moderno), ma in direzione «dialettica», dove, in questo caso, «dialettica» sta per interpretazione del tragico strettamente correlata e subordinata a quella del saggio” [1]. L’istanza saggistica, che nelle analisi di Fehér rimane in ombra, viene ad assumere nella tesi di Matassi un’importanza chiave nell’evoluzione del pensiero del giovane Lukács. La forma tragica perde quella posizione di forma assoluta attribuitale, per esempio, da Lucien Goldmann [2] e viene ridimensionata a una delle forme possibili, sulla base dell’approccio sperimentalistico proprio del saggio. Il saggio, forma intermedia tra letteratura e filosofia – nel rinunciare a ogni pretesa di verità assoluta con un atteggiamento problematico e ironico nei confronti degli oggetti occasionali della ricerca – rappresenta un tentativo di mediazione dialettica [3] nei confronti della scelta assoluta, la morte tragica. La forma saggistica, che Matassi dilata fino a farvi rientrare la Teoria del romanzo del 1920, non ha una costituzione autonoma, ma sussiste unicamente nella relazione con forme già strutturate. Se, in generale, la forma è un polo del rapporto che l’anima istituisce con la vita, il saggio è una relazione della relazione, uno specchio su cui si riflettono le altre forme “«Saggismo» equivale dunque ad una forma di relazione nella quale la Seele deve presupporre necessariamente la mediazione estetica delle forme e se il concetto di Form postula già con sé l’idea di un rapporto, quello di saggio sarà una sorta di «rapporto al quadrato», Verhalten di un Verhalten e dunque trasparente rispecchiamento e conseguente esasperazione del problematicismo connesso al «relazionismo» formale” [4]. Non esiste dunque un’unica forma privilegiata capace di inglobare la totalità della vita. La frammentarietà dell’esistenza, la mancanza di senso dell’anarchia della vita consentono più punti di vista, ovvero una pluralità di forme possibili. Nella scissione di forma e vita ciascuna forma, che aspira all’incondizionatezza e all’assolutezza, è una delle tante posizioni relative a un aspetto particolare della vita, ma a cui è precluso poterne abbracciare la totalità. La forma saggistica è la presa d’atto di tale situazione: in essa le molteplici soluzioni formali trovano un punto di mediazione in cui si esprime l’esigenza di una totalità sistematica.

L’ironia, carattere distintivo del saggio, con il suo problematicismo è già di per sé una forma di mediazione, “la manifestazione originaria dell’istanza dialettica”. La forma, investita dalla forza dissolvente dell’ironia, mette a nudo il carattere precario della sua pretesa assolutezza e, perdendo la sua rigidità entra a far parte dell’universo mediato dal saggismo. Questa interpretazione può essere illustrata mettendo a confronto due forme di esistenza antitetiche, contemplate da Lukács ne L’anima e le forme.

Nel saggio su Kierkegaard, il gesto del filosofo danese – la rottura del fidanzamento con Regina Olsen – nasce dal rifiuto di ogni compromissione con l’esistente, con la sfera dello spirito oggettivo, la cui inautenticità è contrassegnata dalla relatività contraddittoria dei valori. Kierkegaard, nel volersi sottrarre alla temporalità degradata del finito, intende fondare la propria singolarità come valore assoluto con una scelta univoca che si compie nell’attimo, sintesi paradossale di finito e infinito. “Il gesto è il salto con cui l’anima perviene da una cosa all’altra, il salto con cui abbandona i dati sempre relativi della realtà e raggiunge l’eterna certezza delle forme. In una parola, il gesto è quell’unico salto con cui nella vita l’assoluto si tramuta in possibile. Il gesto è il grande paradosso della vita, poiché ogni fuggevole istante della vita si placa nella sua immobile eternità e diventa in essa vera realtà” [6]. Nel pathos della singolarità kierkegaardiana il senso autentico della vita non può essere compreso in un sistema di relazioni astratte, quale quello hegeliano: si impone una scelta tra le varie possibilità che esclude una sintesi superiore: “non esiste dunque un sistema, perché non si può vivere un sistema, perché un sistema è sempre come un castello di giganti, dove colui che l’ha costruito può ritirarsi soltanto in un angolo modesto. In un sistema logico di pensiero la vita non trova mai posto e, sotto questo profilo il suo punto di partenza è sempre arbitrario e la sua costruzione è solo in sé finita, mentre sotto la prospettiva della vita è una cosa relativa, una tra le tante possibilità. Per la vita non esiste sistema. Nella vita esiste solo il particolare, il concreto. Esistere equivale a essere distinto. L’assoluto, ciò che non ammette mediazioni, l’univoco, è soltanto il concreto, il fenomeno individuale” [7]. Ma la dialettica qualitativa di Kierkegaard è una soluzione? Nel rifiutare il compromesso e la mediazione tra i possibili non si rimane preda dell’ambiguità dell’esistenza? “Ma non è un compromesso veder la vita senza compromessi? [...] Lo stadio non è anch’esso una «sintesi più alta», legare l’esistenza di un sistema di vita non è anch’esso a sua volta un sistema e il salto non è una mediazione improvvisa?” [8].

Gli interrogativi retorici di Lukács non lasciano adito a dubbi sul suo procedimento sperimentale, sui suoi tentativi di saggiare – nel senso corrente di provare – la validità delle possibili forme donatrici di senso. La consapevolezza dello scacco cui va incontro la stilizzazione poetica della vita, come nel caso di Kierkegaard, mostra un’affinità profonda con la problematica tipica di Thomas Mann sul contrasto arte-vita [9].

Con i suoi primi personaggi letterari, Thomas Mann ha identificato l’arte con la malattia e la decadenza. L’alternativa all’estetismo è data dalla figura del borghese, colui che ha rinunciato a se stesso, alla propria coscienza e conduce una vita “normale” secondo le concezioni sociali correnti. Anche questa forma di vita, modellata sul contegno “borghese” esemplato da Thomas Buddenbrook e sul dominio ferreo esercitato sul sentimento e sulle passioni, è votata allo scacco. In entrambi i casi, dunque, le conseguenze sono fallimentari: l’autenticità è comunque inaccessibile.

A partire dal Tonio Kröger (1903) Mann cercherà una mediazione tra l’etica e l’estetismo superficiale privo di solide basi. La secca alternativa arte-vita cede il posto al mantenimento di un sapiente equilibrio tra l’etica e l’estetica, frutto di un distacco ironico e disincantato che rappresenta la cifra più personale dell’uomo e dell’artista Thomas Mann [10]. Il modello è quello dell’onesto lavoro del borghese tedesco del XIX secolo, della serietà e della dedizione che vengono profuse nel compimento dell’opera. L’attività artistica come Beruf, quindi, come paziente impegno quotidiano improntato alla modestia e con l’aspirazione al raggiungimento della perfezione. Tale forma di esistenza è quella su cui si sofferma Lukács nel saggio su Storm, che fu oggetto di ammirazione e di identificazione da parte di Thomas Mann [11].

Il poeta Storm – “l’orafo silenzioso e l’artigiano in filigrana d’argento”, secondo la definizione di Keller – con la sua condotta di vita rappresenta il contraltare del gesto e dell’attimo di Kierkegaard: “professione borghese come forma di esistenza significa innanzitutto primato dell’etica della vita, significa che la vita viene dominata da ciò che si ripete sistematicamente, regolarmente, da ciò che doverosamente deve ripetersi, da ciò che deve esser fatto senza riguardo al piacere o al dispiacere. In altre parole: il dominio dell’ordine sugli stati d’animo, del durevole sul momentaneo, del lavoro tranquillo sulla genialità nutrita di sensazioni” [12].

L’antiteticità tra queste due forme di esistenza – la poetizzante di Kierkegaard e quella artigiano-borghese di Storm – sembra avvalorare la tesi di Matassi sul ruolo di mediazione dialettica assunto dal saggismo, nella cui totalità la forma tragica occupa il polo estremo di riferimento. È questo il primo momento della continuità teoretica del giovane Lukács.

Il secondo momento della continuità teoretica del giovane Lukács è costituito dalla connessione dialettica esistente tra l’istanza saggistica, iniziata con L’anima e le forme, e il sistema di estetica elaborato a Heidelberg [13]. Tale continuità sfocia nella fondazione della radicale autonomia della sfera estetica e del suo valore intrinseco: il “sistema” è dato dall’opera d’arte, in cui la raggiunta realtà effettuale (la Wirklichkeit hegeliana) non è da intendersi come il tutto semplicemente esistente, ma come l’unità immediata di essenza ed esistenza, e in cui soggetto e oggetto, valore e realizzazione di valore coincidono.  Tutto ciò in polemica e in alternativa al modello sistematico di Hegel, dove l’arte è confinata in un ruolo, funzionale a una totalità estrinseca rispetto alla sua specificità. A questo proposito Elio Matassi cita un passo dell’Estetica di Heidelberg:  “mentre la fenomenologia metafisica di Hegel abbracciava la totalità del rivivibile e riconoscibile e organizzava una gerarchia unitario-omogenea in direzione dello spirito assoluto che tutto comprende e porta a coscienza, la nostra fenomenologia estetica, invece, non tiene minimamente conto di nessuna tendenza se non di quella estetica, come se non ne esistessero altre e, seguendo una linea retta, parte dall’uomo «intero» della realtà rivivibile per giungere al soggetto stilizzato dell’estetica; in questo modo la sua unitarietà e omogeneità non sono universali-sistematiche, bensì estetiche, immanenti alla sfera. La fenomenologia estetica, quindi, invece di mirare al centro della sistematica filosofica tende alla datità originaria della sfera estetica, all’opera d’arte” [14]. La conquista della dialettica da parte di Lukács rimane all’interno della sola sfera estetica, poiché soltanto l’opera d’arte ha la prerogativa di istituire un sistema teoricamente coerente. Si tratta di una dialettica formale che esclude da sé il mondo storico e, in termini hegeliani, la dimensione dello spirito oggettivo. L’opera d’arte nella frantumazione delle sfere metafisiche si costituisce come espressione privilegiata dello spirito assoluto, senza, peraltro, fungere hegelianamente da giustificazione e da santificazione dell’esistente.

 

Note:

[1] Matassi, E., Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Napoli, Guida 1979, p. 21 in nota 17.

[2] Goldmann, fin dal 1945 nel suo libro su Kant, considerava quest’opera, concepita sotto la costellazione del Kant tragico, anticipatrice dei temi esistenzialistici: “L’anima e le forme di Georg Lukács, 1911, ci pare essere l’effettiva fondazione della moderna filosofia dell’esistenza. In ogni caso la separazione, che successivamente in Heidegger verrà definita «esistenza autentica» e «inautentica», viene posta al centro del libro. Già nel primo saggio leggiamo: «Esistono due tipi di realtà spirituali: la vita è l’uno e la vita è l’altro. Entrambi sono ugualmente reali, ma non possono essere contemporaneamente reali». E il saggio più importante del libro, La metafisica della tragedia, pone la questione dei rapporti di questo oggetto con il limite estremo, con la morte”. Goldmann, L., Mensch, Gemeinschaft und Welt in der Philosophie Immanuel Kants [1945], id., Introduzione a Kant, tr. It. di S. Mantovani e V. Messina, Milano, SugarCo Edizioni 1972, pp. 187-88.

[3] Il primo a individuare la componente mediatrice della forma saggistica è stato F. Fortini: “Lukács, fin dall’inizio della sua attività, nel momento stesso in cui sperimenta ed esprime l’attimo e l’atemporalità tragica, si sceglie anche come saggista, si rifiuta alla «morte», accetta la dimensione del discorso intermedio. Ebbene – questa è la domanda e la ipotesi – non sembra essere, questo discorso intermedio, questa «forma» che è la saggistica, una metafora o anticipazione di quella che, nel successivo pensiero di Lukács, sarà la fondamentale categoria della mediazione?” Franco Fortini, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore 1965, p. 245.

[4] Matassi, E., Il giovane Lukács…, op. cit. p. 51.

[5] L’obiettivo del “sistema” sarà raggiunto da Lukács nella Estetica di Heidelberg; ivi la categoria dell’“opera” assurge all’autosufficienza come totalità concreta di contro al caos della vita empirica.

[6] Lukács, G., L’anima e le forme [1911], traduz. di S. Bologna, Milano, SugarCo Edizioni 1963, p. 54.

[7] Ivi, p. 58.

[8] Ivi, pp. 58-9.

[9] Mann, T., per il suo classicismo ispirato a Goethe, resterà un punto di riferimento privilegiato nelle teorizzazioni estetiche del Lukács maturo.

[10] Per una dettagliata analisi dell’ironia in Thomas Mann, cfr. Perlini, T., Utopia e prospettiva in György Lukács, Bari, Dedalo Libri 1968, pp. 127-138.

[11] Cfr. T. Mann Considerazioni di un impolitico [1918], Bari, De Donato 1967, pp. 85-8.

[12] György Lukács L’anima e le forme, op. cit. p. 93.

[13] “La distinzione di «saggio» e «sistema» è dunque una distinzione  i n t e r n a  allo stesso quadro di riferimento e non qualifica due  m o d i   d i   e s s e r e  alternativi, escludentisi reciprocamente, ma scandisce la sostanziale  c o n t i n u i t à  della ricerca lukácsiana.  Una ricerca orientata che possa emanciparsi dall’ipoteca hegeliana, di una dialettica che è  i m m e d i a t a m e n t e  sistematica, funzionale a un «sistema».” Elio Matassi, Il giovane Lukács, cit., p. 169.

[14] Ivi, p. 167.

22/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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