Marx e il lavoro estraniato

Nel frammento sul lavoro estraniato emergono aspetti essenziali della metodologia d’indagine marxiana, ovvero la costante relazione fra l’impostazione dialettica e la vocazione empirista.


Marx e il lavoro estraniato Credits: https://bodosproject.blogspot.com/2012/06/lavoro-salariato-lavoro-alienato.html

Oggetto di questo articolo è il frammento Il lavoro estraniato (die entfremdete Arbeit), contenuto nel primo dei tre manoscritti (pagine XXII-XXVII) redatti da Karl Marx durante il suo esilio parigino del 1844 e pubblicati soltanto postumi, nel 1932 in Urss. Oltre al testo tedesco si sono tenute in considerazione le traduzioni di Galvano della Volpe per gli Editori Riuniti, di Norberto Bobbio per i tipi dell’Einaudi e quella curata da Antonio Gargano per La città del sole.

Tenendo sempre ben presente il carattere frammentario di questo scritto, non destinato in alcun modo alla pubblicazione, occorre richiamarsi nella sua interpretazione al contesto generale in cui è inserito. In altri termini cercheremo, seguendo le indicazioni forniteci dallo stesso Marx all’interno del testo, di delineare, collocandoli storicamente, quali chiarimenti teorici e quali bersagli critici l’autore avesse preso di mira.

Obiettivo di questo lavoro è stato evidenziare una serie di invarianti della critica marxiana all’economia politica [borghese], presenti in nuce già in questa opera giovanile e portate a pieno svolgimento solo nel trentennio seguente. [1] Cercheremo anche di sgomberare il campo da tutta una serie di fraintendimenti che talvolta, muovendo  proprio da questo testo, hanno finito per stravolgere completamente il pensiero marxiano.

A nostro avviso va innanzitutto respinto ogni tentativo di estrapolazione dei princìpi di un presunto sistema filosofico marxiano, che ha costituito una delle principali cause della dogmatizzazione del suo pensiero. Non a caso, quando ciò si è storicamente prodotto, sia con la Seconda sia con la Terza internazionale, si è avuta una progressiva dogmatizzazione del marxismo. Ciò ha inevitabilmente comportato una riduttiva semplificazione, quando non la completa espunzione, della dialettica dal corpus marxiano, fino alla contrapposizione di Marx a Hegel presunto “filosofo della reazione prussiana”.

Questa impostazione ha avuto inevitabilmente delle ricadute negative anche sul marxismo italiano. Qui cercheremo in particolare di criticare l’impostazione della scuola della volpiana che, prendendo le mosse proprio dai Manoscritti del 1844, ha cercato, puntando su un Marx empirista “puro”, di marcarne la cesura con la dialettica hegeliana. A questa tesi tenteremo di contrapporre, nella prima sezione di questo scritto, la nostra lettura che vede in Marx l’innesto di un’assimilata impostazione dialettica di matrice hegeliana – che ha fatto sua come strumento imprescindibile per la comprensione razionale del reale – rivolgendola in senso materialistico allo studio del funzionamento del modo di produzione capitalistico. La seconda parte di questo scritto cercherà di evidenziare la netta presa di distanza di Marx, già in questi anni giovanili, da ogni utopistica critica al capitalismo di stampo anarco-prudhoniano. La terza parte di questo scritto, infine, s’incentrerà sulla critica dell’impostazione strutturalista-althusseriana, caratterizzata dalla netta coupure, ovvero dalla presunta rottura epistemologica tra un giovane Marx umanista e fortemente influenzato dalla filosofia di Feuerbach e un più maturo Marx “scientifico”. Non volendo qui sottovalutare la valenza storica che ha avuto questa tesi, in antitesi alla vulgata allora dominante di una critica puramente morale, quando non moralistica al capitalismo, cercheremo di sottolineare la continuità tra le categorie abbozzate in questo manoscritto e il loro affinamento negli scritti successivi.

1) Impostazione dialettica e vocazione empirista

Ci preme, inoltre, sottolineare, di contro a chi voglia utilizzare questo scritto per suffragare la tesi di una critica prettamente filosofica del giovane Marx all’economia politica, quella che è stata a ragione definita la vocazione “empiristica” di Marx. Certo, alle spalle di Marx agiscono evidentemente i concetti hegeliani, ma sono adeguati e inseriti in un altro contesto: la critica dell’economia politica. Si consideri tra i possibili esempi: “prendiamo le mosse da un fatto economico-politico, dall’estraniazione del proletario e del prodotto del suo lavoro. Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato. Ne abbiamo analizzato il concetto, dunque abbiamo analizzato un mero fatto economico-politico”. [2] Del resto a sostegno della nostra tesi, si possono richiamare quelle eloquenti pagine della Sacra Famiglia, in cui Marx ed Engels rintracciano le origini della teoria socialista proprio in quella corrente empirista facente capo per un verso alla fisica cartesiana e per l’altro all’empirismo britannico a partire da Bacone.

Non si deve, però, dimenticare la netta presa di posizione di Marx nei riguardi del cattivo empirismo, da cui è affetta l’economia politica [premarxiana] e da cui riemerge la sua formazione hegeliana. L’economia politica ha assunto come proprio fondamento la proprietà privata. “L’economia politica prende le mosse dal fatto [Faktum] della proprietà privata. Non ce la spiega. L’economia politica coglie [fasst] il processo materiale della proprietà privata, il processo che essa compie nella realtà, in formule generali, astratte, alle quali essa dà il valore di leggi. L’economia politica [borghese] non comprende [begreift] queste leggi, ossia non prova come esse provengano dalla essenza della proprietà privata” (XXII). In queste poche righe Marx illustra, criticandolo, il metodo dell’economia politica, il suo modo di procedere. L’economia politica ha come presupposto della sua costruzione teorica la proprietà privata, assunta dalla realtà sensibile come un mero dato di fatto. Da questo semplice dato empirico, che non è assolutamente in grado di spiegare, ma solo di descrivere, elabora, tramite un processo di astrazione intellettuale, una serie di leggi puramente formali. Si è di fronte a un procedimento tipico di quella cattiva empiria che già Leibnitz aveva contestato all’empirismo di Locke. La critica si appunta proprio su quella ipostatizzazione o fissazione dei concetti astratti dell’intelletto contro cui si era rivolta la stessa dialettica hegeliana. In tal modo viene posto in discussione il principio d’identità della logica formale, in quanto viene assiomatizzato in fisse astrazioni incapaci di dar conto della complessità, in sé stessa contraddittoria, del reale. 

Al verbo “fassen”, che significa “prendere”, “cogliere” e caratterizza il procedimento empirico dell’economia politica, Marx contrappone il processo del “begreifen”, del comprendere concettualmente, del concepire razionalmente, di evidente derivazione hegeliana. Si tratta di ricostruire il processo, il ritmo interno del concetto che solo permette di spiegare la realtà fenomenica. Al contrario, l’economia politica [borghese] non appare in grado di comprendere i nessi interni che legano necessariamente le sue astratte leggi alla proprietà privata. Inoltre, con una inversione di causa ed effetto, assumendo come presupposto ideologico il profitto del capitalista, l’economia politica premarxiana pretende di determinarne il rapporto che lo lega al salario.

L’economia politica [borghese], non considerando il modo di produzione capitalistico come una totalità, non cogliendone la coerenza del suo processo storico, non riesce a trovare i nessi interni dei fenomeni che si manifestano alla sua superficie. Le disfunzioni del modo di produzione sono così attribuite a condizioni esterne, accidentali: non si ha la coscienza di esse come espressione di un necessario processo interno di sviluppo. Per converso, l’analisi di Marx delle categorie del modo di produzione capitalistico sarà condotta sempre seguendo la lezione hegeliana sia dal punto di vista logico-strutturale che da quello storico. La storia è, al contrario, utilizzata dall’economia politica come semplice giustificazione ideologica. Si finisce così per naturalizzare il modo di produzione capitalistico. Lo stesso scambio risulta, così, come un puro accidente: il peccato originale del cacciatore e del pescatore di David Ricardo che si scambierebbero i loro prodotti come se fossero merci.

Questa continuo richiamo dei debiti di Marx nei confronti di Hegel non deve però far dimenticare i pericoli di una immediata sovrapposizione tra i due, pericoli da cui non è immune, per esempio, una certa lettura in chiave marxista della Fenomenologia dello spirito. Marx fa un ampio uso di termini e categorie hegeliane, ma sempre nell’ambito storicamente determinato dal modo di produzione capitalistico. Ecco così che il lavoro, considerato hegelianamente come oggettivizzazione delle facoltà umane e soggettivizzazione della natura, si rovescia nel modo capitalistico di produzione nel lavoro alienato ed estraniato del proletario. Ciò è ancora più evidente considerando più attentamente i quattro tipi di rovesciamento, di alienazione del concetto di lavoro, considerato all’interno della categoria “modo di produzione capitalistico”. Il proletario salariato non solo è espropriato oggettivamente dal prodotto del suo lavoro, ma anche dal punto di vista soggettivo è incapace di riconoscersi in esso. In secondo luogo il lavoratore salariato e, in particolare, l’operaio si pone di fronte all’oggetto della sua produzione considerandolo come qualcosa di estraneo, di contrapposto a lui, perché è la stessa attività della produzione a essere estraniata. “Il lavoro resta esteriore al lavoratore proletario, ossia non appartiene alla sua essenza, poiché il proletario non si realizza attraverso il suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non sviluppa alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il proprio spirito” (XXIII). Inoltre, poiché il lavoro estraniato aliena all’uomo non solo la sua natura, il suo corpo, ma anche il proprio sé, la sua attività vitale, l’attività che lo qualifica come ente generico, come essere umano, finisce inevitabilmente per alienare all’uomo la sua umanità, svilendone la vita generica a semplice strumento della vita animale. Infine, dal momento che nel lavoro alienato l’essenza umana è resa estranea all’uomo, ogni uomo è estraniato dall’altro e ognuno è alienato dalla propria stessa essenza generica.

Segue nel numero 318 de “La Città Futura”.

 

Note:

[1] I Manoscritti parigini non solo non furono pubblicati né da Marx, né da Engels, né da Kautsky, ma non furono nemmeno citati dall’autore nella celebre prefazione del 1859 A per la critica dell’economia politica, in cui il Moro traccia un breve profilo dello sviluppo della sua visione del mondo. Se ne potrebbe concludere che quanto di ancora valido per il loro autore era presente in essi sia stata riassorbito nel capolavoro della maturità: Il capitale. Ciò non toglie l’importanza che ha ancora oggi la loro analisi, in quanto permette di cogliere oltre al primo studio preparatorio al Capitale, gli elementi filosofico-dialettici e di critica dell’economia politica non ancora perfettamente sintetizzati, come avverrà nell’ultima grande opera di Marx. Ciò consente di analizzare l’elemento filosofico-dialettico, che sarà l’anima interna di tutta la critica dell’economia politica, per sé. Tanto più che solo un’approfondita analisi della componente dialettica della visione del mondo marxiana costituisce il migliore antidoto a ogni dogmatismo che ha preteso di ricostruire un preteso sistema filosofico di Marx.

[2] Marx, K., Manoscritti parigini, 1844, p. XXV. D’ora in avanti citeremo direttamente nel testo fra parentesi tonde il numero della pagina del manoscritto marxiano.

12/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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