Marx e la contraddizione fra diritti dell’uomo e del cittadino

L’individuo non può trovare rifugio in una società, come quella borghese, dove domina la differenza, l’insocievole socievolezza, la naturale legge del più forte


Marx e la contraddizione fra diritti dell’uomo e del cittadino

Come osserva acutamente il giovane Karl Marx, l’accrescersi dell’antagonismo fra interesse particolare e collettivo favorisce il costituirsi di quest’ultimo in una forma statuale che appare sempre più estranea al singolo. Separata astrattamente dalla vita sociale nello Stato, si riproduce l’autarchia del politico, emancipato da ogni copertura religiosa e da ogni controllo diretto della società, ma al tempo stesso emancipato da ogni legame con l’eticità. Come ha scritto, a ragione, Umberto Cerroni: “la virtù antica dell’uomo di governo, la religiosità e patriarcalità del sovrano feudale sono sostituite dalla virtù (soltanto) politica del Principe di Machiavelli, dalla laica Ragion di Stato di Bodin, da una sostanziale autarchia dell’organismo politico” [1].

Così, per esempio, abbattendo la monarchia la Rivoluzione del 1848 squarciò anche il velo di ancien régime dietro il quale si era nascosto il dominio del capitale e i principali ministeri, che avevano fino ad allora coperto i privilegi di classe che difendevano dietro nomi apparentemente disinteressati, divennero appannaggio di veri lupi di borsa. La trasfigurazione degli interessi borghesi dietro le antiche casate nobiliari fu inserita fra i faux freis della produzione. In tal modo, emerge il compiuto dominio della società civile economica sullo Stato politico tipica del modo di produzione capitalistico. Perciò i moti rivoluzionari del 1848, ancora egemonizzati dalla borghesia, si affannano a dimostrare che in situazioni di crisi sistemica la rivoluzione politica è il modo migliore per evitare la rivoluzione sociale, come hanno recentemente confermato le stesse “primavere arabe”. In tal modo, per esempio, il dominio della religione, negato politicamente nello Stato “laico” borghese, si espande in modo incontrastato nella società civile, quale cuore di una società che ne è priva, come denuncerà Marx di contro alle pie illusioni democraticiste della sinistra hegeliana. In tal modo, il governo provvisorio sorto dalla Rivoluzione francese del febbraio 1848 si premurò immediatamente di rassicurare le classi possidenti che i vecchi costumi non sarebbero serviti ad altro che a fornire “un nuovo costume da ballo per la vecchia società borghese” [2]. Così, le misure d’eccezione prese durante la fase giacobina furono prontamente rinnegate, nessun terrore mise in discussione le proprietà dei peggiori sciacalli che si erano arricchiti dopo il Termidoro e la Restaurazione. Accanto alle libertà formali borghesi, gli apparati decisivi dello Stato: esercito, tribunali e amministrazione rimasero nelle mani della vecchia burocrazia, posta a garanzia della continuità del dominio sociale dei proprietari.

Discorso analogo vale per gli esiti della rivoluzione tedesca del 1848: “l’abbozzo di Costituzione tracciato dal ministro Camphausen ed elaborato dall’Assemblea rivoluzionaria del 1848 costituisce (…) l’ossatura della Costituzione attuale: ma solo dopo che un coup d’état aveva cancellato l’abbozzo originario, uno Statuto di concessione sovrana l’aveva riprodotta in forma mutilata, due Camere incaricate della revisione avevano rimodellato lo Statuto già riveduto, tutto questo tedioso procedimento essendo inteso a cancellare gli ultimi tratti che ancora potevano ricordare l’ispirazione rivoluzionaria di quel mosaico. Lo scopo tuttavia non era stato completamente raggiunto, dato che tutte le Costituzioni bell’e fatte devono essere più o meno modellate sull’esempio francese e, per quanto si faccia, non accampano mai pretese di singolare originalità. Così si scorre l’articolo 2 della Costituzione del gennaio 1850, che riguarda i «diritti dei prussiani», i droits de l’homme dei prussiani, per così dire, i relativi paragrafi, a prima vista, suonano molto bene” [3]. D’altra parte, come nota acutamente ancora Marx, “ora, se passate dai «diritti dei prussiani» quali figurano sulla carta alla misera forma in cui nella realtà si concretano, arriverete – se ancora non lo avete fatto – alla piena consapevolezza della singolare contraddizioni che sussiste fra idealismo e realismo, fra teoria e pratica. Ogni passo che fate, anche solo per camminare, inciampa nell’azione onnipotente della burocrazia, questa seconda provvidenza di autentica massa prussiana. Non potete né vivere né morire, né sposarvi, né scrivere lettere, né pensare, né stampare, né concludere affari, né insegnare, né andare a scuola, né fare una riunione, né costruire una fabbrica, né emigrare, né fare niente, senza «obrigkeitliche Erlaubniss», senza licenza delle autorità. Quanto alla libertà della scienza e della religione, o all’abolizione della giurisdizione patrimoniale, o alla soppressione dei privilegi di casta, o alla cancellazione della proprietà inalienabile e della primogenitura, sono rimaste chiacchiere. Per tutti questi aspetti la Prussia era più libera nel 1847 di quanto non sia oggi. Donde nasce questa contraddizione? Tutte le libertà garantite dalla Costituzione prussiana sono inceppate da un solo grande inconveniente: che le si garantisce «nei limiti della legge». Ora la legge vigente è né più né meno la legge assolutista che risale a Federico II, non alla data di nascita della Costituzione” [4].

Del resto, come dimostreranno i tragici eventi del giugno 1848, se è vero che la repubblica parlamentare è la forma che – nella fasi di “sonno della politica”, in cui non è messo in questione lo Stato borghese – meglio garantisce la conservazione dei vigenti rapporti di proprietà, il controllo diretto della borghesia sul potere politico si esprime non solo in tale forma, ma altrettanto, contraddittoriamente, nell’aperta repressione dei subalterni nel momenti in cui mettono seriamente in discussione i privilegi dei settori più reazionari, monarchici, della borghesia e dei proprietari fondiari.

Tanto più che, nel modo di produzione capitalistico, la statualità non corrisponde né agli interessi individuali, ma neppure a quelli generali della società, ma si presenta nella forma di comunità illusoria che ha naturalmente la sua base reale nella società storicamente determinata dal conflitto fra le classi sociali oltre che dalle peculiarità nazionali e dal livello raggiunto dalla divisione del lavoro. Separando in maniera netta società politica e civile la rivoluzione politica borghese lascia all’individuo in quanto tale, senza il supporto di elementi sociali quali le corporazioni, il compito di farsi carico dell’interesse pubblico e delle attività vitali materiali [5]. Spogliato della propria socialità, di ciò che lo rende uomo, ridotto a mero individuo egli non dispone di alcun potere reale per appropriarsi né della comunità politica né della comunità sociale a essa contrapposta nella società civile. Il primo gli si presenta quale Moloch dotato di proprie regole estranee alla sua individualità, che può far proprie unicamente facendo getto della propria soggettività. Né può trovare rifugio in una società dove domina la differenza, l’insocievole socievolezza, la naturale legge del più forte.

Il passaggio fra i due opposti, fissati da Hegel per come si presentano nell’esistente, comporta l’abbandonare il proprio opposto, mettere da parte il proprio essere sociale e porsi quale mero individuo astratto. L’uomo atomizzato non ha, tuttavia, un potere reale né sulla società civile, né sullo Stato, amministrato dal governo. Anzi, il conflitto fra Stato e società civile si riproduce nel sistema democratico all’interno dello stesso individuo. Il singolo in quanto bourgeois è portatore di un interesse particolare che è in opposizione all’interesse universale di cui è portatore in quanto citoyen [6]. L’intervento dello Stato dovrebbe regolare il conflitto fra interessi particolari e interesse generale. Tuttavia la sua universalità è a sua volte particolare, in quanto rappresentativa degli interessi generali dei ceti possidenti. L’universale statuale è realmente estraneo al cittadino proletario e al piccolo borghese, sempre meno rappresentato nel dominio collettivo della borghesia, ma appare estraneo anche al ceto medio che vi si rapporta quale servitore e al borghese in quanto portatore di un interesse particolare.

Tanto più che, come è stato a ragione messo in luce, “ciò che viene escluso nel momento costitutivo della società borghese, la «vita generica», farà ritorno, ma in forma «alienata» di (proiezione rovesciata, dominando in modo immaginario sui suoi creatori) nell’«idealismo» della comunità dei cittadini, che riporterà in vita la separazione originaria nella forma di una molteplicità di esclusioni «concrete»” [7].

Marx estende ai rapporti socio-politici la critica di Ludwig Feuerbach alla rappresentazione religiosa, quale proiezione all’esterno da parte dell’uomo della sua essenza che, in tal modo, gli si contrappone nella sua oggettivizzazione in un’alterità fantastica. L’uomo della società borghese vive una condizione d’estraniazione dalla propria essenza sociale simile a quella dell’uomo religioso. Nella società borghese, infatti, diventa reale la rappresentazione cristiana per cui si onora la sovranità dell’uomo, ma come un estraneo [8]. Anche il bourgeois tende a proiettare, al di là della propria vita reale nella società civile, in cui la sua attività sociale è alienata, la sua essenza nei diritti di cittadinanza di cui gode nella sfera a lui altrettanto estraniata dello Stato, trascendenza secolarizzata della modernità [9]. Razionale e reale permangono, dunque, tra loro in contrapposizione.

 

Note:

[1] Cerroni, Umberto, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 241.

[2] Marx, Karl, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. di Togliatti, Palmiro, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 47.

[3] Marx, K. – Engels, Friedrich, Opere complete agosto 1858- febbraio 1860, tr. it. Formigari, Lia, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 78-9.

[4] Ivi, p. 80.

[5] Perciò, per Marx, sarà necessario superare la scissione fra individuo e società, considerando la società come un’astrazione di fronte alla concretezza dell’individuo.

[6] Come è stato brillantemente evidenziato: “i diritti dell’uomo non si contraddicono articolandosi nei diritti dell’uomo e nei diritti del cittadino, ma il senso della loro profonda unità, che è di essere i diritti del borghese, suscita la contraddizione assoluta fra tali diritti dell’uomo e l’uomo” Bourgeois, Bernard, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi, 1990, p. 110.

[7] Kouvélakis, Eustache, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di Augeri, N., in “Marxismo Oggi” 1, Milano 2005, pp. 45-78, pp. 65-6.

[8] A essa corrisponde la degradazione dell’attività generica umana, il lavoro, sotto il dominio del bisogno pratico ed egoistico, oggettivato in un essere altrettanto ostile, che assume esistenza alienata nel capitale. “L’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce.” Marx, K., Manoscritti economico filosofici del 1844, a cura di Bobbio, Norberto, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.

[9] “La politica, quella definita dall’astrazione del diritto di cittadinanza, si rivela allora come l’autentica religione, la trascendenza secolarizzata della società moderna” Kouvélakis, E., Critica della cittadinanza…, op. cit., p. 69.

29/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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