Il TPP: la variante “pacifica” del TTIP

Il nuovo trattato stipulato tra USA e altri 11 paesi dell’area pacifica non può definirsi un accordo di libero scambio. Il suo vero obiettivo è la protezione e l’espansione degli investimenti delle grandi corporations oggi predominanti nella fase del capitalismo transnazionale.


Il TPP: la variante “pacifica” del TTIP Credits: By Neil Ballantyne from Wellington, New Zealand (Stop the TPPA.) [CC BY 2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons

Il nuovo trattato stipulato tra USA e altri 11 paesi dell’area pacifica non può definirsi un accordo di libero scambio. Il suo vero obiettivo è la protezione e l’espansione degli investimenti delle grandi corporations oggi predominanti nella fase del capitalismo transnazionale. Il TPP rappresenta, insieme al TTIP ancora in fase di negoziazione, uno strumento fondamentale per la strategia di sopravvivenza dell’imperialismo americano e occidentale, in quanto permette di consolidare l’interdipendenza economica nelle sue due principali aree geopolitiche di influenza.

di Ferdinando Gueli

La notizia della conclusione dei negoziati del TPP, Trans-Pacific Partnership, l’accordo stipulato dagli Stati Uniti con altri 11 paesi delle due sponde del Pacifico (Canada, Messico, Perù, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Vietnam, Malaysia, Singapore, Brunei), annunciata dai rappresentanti dei 12 governi ad Atlanta lo scorso 5 ottobre, ha generato, come prevedibile, un ampio dibattito mediatico sia nei circuiti ufficiali mainstream sia in quelli antagonisti e di controinformazione, o presunti tali. Un tale massiccio bombardamento di informazioni, commenti e analisi rischia di produrre disorientamento e non permette invece di focalizzare l’attenzione sulle dinamiche economiche di fondo.

Per chiarificare queste dinamiche è necessario prima conoscere cos’è e cosa prevede il TPP e perché è da considerarsi un parente stretto del TTIP, ancora in fase di negoziazione tra USA e UE.

Cos’è il TPP

Le fonti governative, e non soltanto statunitensi, stanno operando una forte propaganda mediatica con roboanti annunci sulle oltre 18.000 barriere tariffarie e non che verranno rimosse grazie al trattato, e non perdono occasione di magnificare i risultati in termini di aumento dell’export e, quindi, salvaguardia di tanti posti di lavoro. Il TPP viene spesso definito, da questa propaganda, un accordo di libero scambio, o free trade in inglese. In realtà molti autorevoli commentatori ed economisti di primo piano a livello internazionale, uno per tutti il premio Nobel Paul Krugman, non esitano a respingere tale definizione.

In primo luogo, la gran parte delle disposizioni del trattato non si occupano di dazi doganali, che rappresentano tradizionalmente il primo obiettivo di tutti gli accordi di libero scambio. Nonostante vengano rimosse numerose barriere non tariffarie, cioè regolamenti, disposizioni, standard imposti a livello di stati nazionali, molti esperti ritengono che gli effetti del TPP sul commercio (import-export) tra i paesi firmatari sarà piuttosto modesto e non certo tale da giustificare l’enfasi politica e il notevole sforzo diplomatico profuso, soprattutto da parte americana.

In secondo luogo, l’obiettivo dell’abbattimento progressivo delle barriere tariffarie tra questi paesi è stato ormai in gran parte raggiunto con i precedenti accordi, questi sì di libero scambio, conclusi nei decenni precedenti, sia a livello bilaterale che multilaterale, senza considerare gli accordi raggiunti nell’ambito del WTO (World Trade Organization, l’organizzazione mondiale del commercio).

Va inoltre fatto notare che il livello di integrazione commerciale tra i paesi firmatari è notevole, un dato su tutti è particolarmente emblematico: circa il 44% dei beni e il 27% dei servizi globalmente esportati dagli USA nel 2013 era diretto a questi 11 paesi. I quali, USA compresi, rappresentano oggi circa il 40% del PIL mondiale.

Sgomberato l’equivoco che non si tratta di un accordo di libero scambio in senso classico, l’attenzione si sposta necessariamente sulla promozione e della protezione degli investimenti. In effetti, una più attenta analisi conferma che è in questa direzione che convergono gran parte delle disposizioni del trattato, almeno quelle che rese note nel dibattito politico e mediatico.

Uno degli aspetti di maggior interesse è rappresentato dalle disposizioni in favore della protezione della proprietà intellettuale, sia che si tratti di marchi commerciali, di copyright e, soprattutto, di brevetti. Dalla lettura del testo che è stato rivelato da Wikileaks, risultano particolarmente numerose e dettagliate le disposizioni che si occupano della regolamentazione dei brevetti, della loro omologazione, dell’estensione e della protezione dei diritti esclusivi di sfruttamento commerciale. E sono numerose le industrie che maggiormente hanno interesse a tutelare, a loro vantaggio, questi aspetti nello sviluppo della loro attività internazionale: l’industria farmaceutica, quella digitale, la chimica, la meccanica, inclusa l’automobilistica, nonché l’editoria.

Si tratta di settori industriali dove il peso delle grandi corporazioni multinazionali, anzi transnazionali come sarebbe più corretto definirle, è preponderante. Così come ovviamente lo è la loro capacità di fare lobbying, cioè di esercitare influenza e pressioni, con vari mezzi, affinché vengano adottate misure in loro favore. Soprattutto se i destinatari dell’attività di lobbying sono burocrazie sovranazionali o comunque slegate dal controllo democratico nazionale.

Molti analisti e commentatori che si definiscono “alternativi” o “antagonisti” si scagliano contro l’attacco alla democrazia determinato dalla modalità di negoziazione di questi trattati internazionali, che avvengono in totale segretezza e al di fuori delle procedure parlamentari. I parlamenti, quando ciò è previsto, sono chiamati soltanto ad esprimere un voto al termine dei negoziati. Il governo Obama ha deciso di adottare, al Congresso, la procedura di “fast track” (corsia preferenziale): il trattato non può essere emendato, il dibattito è contingentato nei tempi, il voto può solo approvare o respingere.

Un altro caposaldo del trattato è quello della procedura cosiddetta “Investor-State Dispute Settlement (ISDS)”, cioè la modalità di risoluzione delle controversie tra investitori e singoli stati nazionali. Il caso più ricorrente è quello dell’adozione di leggi e provvedimenti a tutela dei consumatori, dei lavoratori o dell’ambiente, e che vanno in conflitto con l’applicazione delle disposizioni previste dal TPP, in gran parte finalizzate a proteggere e promuovere gli investimenti internazionali. In tal caso gli investitori hanno diritto di impugnare queste leggi e provvedimenti di fronte ad una corte arbitrale che, per chi non lo sapesse, è, a tutti gli effetti, una forma di giustizia privata (per natura e composizione) e privatistica (per metodo di funzionamento e normativa di riferimento). Le corti arbitrali internazionali sono in genere composte da giudici privati, in numero dispari, nominati dalle parti in causa di comune accordo. Da notare peraltro come soltanto l’investitore sia la figura giuridica prevista come controparte giudiziale nei confronti degli stati sovrani. Non sono previste quindi impugnazioni da parte di cittadini, né singoli né associati, e tantomeno da parte di sindacati, istituzioni o altri organismi né di livello nazionale né di livello internazionale.

Gli allarmi lanciati all’opinione pubblica sono numerosi e sicuramente tutti fondati: dal rischio di aumento del costo dei farmaci e del divieto di vendita dei farmaci generici, alle minacce per l‘ambiente e per la sicurezza alimentare, alle restrizioni di fatto delle libertà individuali nell’uso e nell’accesso alle tecnologie informatiche e digitali, alla limitazione delle sovranità democratiche degli stati. Ce n’è in effetti abbastanza per costringere persino una Hillary Clinton, in precedenza sostenitrice, come gran parte del suo partito, di TPP e TTIP, a pronunciarsi apertamente, e forse sorprendentemente, in maniera critica.

Ma tutto ciò non è ancora sufficiente ad inquadrare compiutamente la questione. Critiche e grida d’allarme, pur fondate, spesso non colgono fino in fondo, o lo fanno solo parzialmente, lo scenario globale entro il quale questi eventi avvengono e che permette quindi di spiegarne la genesi e di comprenderne le dinamiche più profonde.

Lo scenario globale: capitalismo e imperialismo transnazionale

E’ necessario infatti individuare, nelle vicende del TPP, del TTIP, e di tutti gli altri accordi internazionali sul commercio e gli investimenti, la tendenza del capitalismo contemporaneo ad essere dominato, ormai in forma sempre più preponderante e univoca, dalle grandi corporations, un tempo definite multinazionali e che oggi sarebbe più corretto definire “transnazionali”, giacchè l’origine dei loro capitali non è più concentrata in un singolo paese, in taluni casi l’origine non è neanche facilmente rintracciabile.

L’interesse di queste grandi società transnazionali è per una regolamentazione sovranazionale della competizione monopolistica o oligopolistica che le caratterizza. Una regolamentazione affidata, di preferenza, alle grandi istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, FMI, ecc.) oppure alle burocrazie sovranazionali, siano esse strutturate in organizzazioni (es. WTO, Ocse, UE), oppure, per così dire, allo stato fluido, cioè con personale politico e tecnico proveniente da governi e burocrazie nazionali, che si elevano ad un livello sovranazionale, e divengono i destinatari privilegiati dell’attività di lobbying delle grandi corporations.

La regolamentazione sovranazionale permette di superare molto più facilmente ostacoli e restrizioni causate dai processi democratici, quando esistenti, che caratterizzano i livelli nazionali (stati), processi faticosamente conquistati dopo secoli di lotte.

Ma anche in assenza di regimi democratici, certe dinamiche nazionali, spesso dominate dagli interessi delle borghesie nazionali, cioè in sostanza le piccole e medie imprese o le grandi imprese pubbliche, rappresentano, per questa nuova borghesia transnazionale, spesso multietnica ma accomunata da interessi economici e dagli stili di vita che ne incarnano l’essenza sociale, un disturbo alla loro costante ricerca di espansione dei profitti e quindi anche del dominio sociale, politico e culturale.

Questi fenomeni in realtà erano stati lucidamente analizzati già dagli stessi Marx ed Engels, e da pensatori marxisti successivi come Lenin e Bucharin, nonché da liberali controcorrente come Hobson e Hilferding. La novità, rispetto ad allora, è che il capitalismo contemporaneo ha raggiunto ormai uno stadio compiuto di sviluppo, e, grazie ai fenomeni della concentrazione e della centralizzazione dei capitali, e delle ricorrenti crisi di sovrapproduzione, anche l’imperialismo oggi sta subendo una metamorfosi storica. Potremmo infatti definirlo l’imperialismo del XXI secolo.

Se andiamo ad esaminare lo scenario geoeconomico e geopolitico attuale, questo ci riporta alla vicenda del TPP e del TTIP, la cui funzione non può essere compresa appieno se non nel processo, attualmente in corso, di definizione di un nuovo ordine economico e politico globale.

Con questi accordi infatti l’imperialismo statunitense e occidentale si pone in realtà un obiettivo di sopravvivenza nell’ambito del nuovo ordine: da una parte si vuole riconfermare come principale garante degli interessi del grande capitale transnazionale; dall’altra tenta un’operazione di contenimento di quelli che potrebbero rappresentare gli imperialismi concorrenti ed emergenti: Cina in primis, Russia e BRICS in seconda battuta.

Rispetto al primo aspetto, non è un caso se tra i settori maggiormente beneficiari di questi accordi figurano il chimico-farmaceutico, il digitale, l’automobilistico, la logistica, la grande distribuzione. Sono tutti settori nei quali dominano i grandi colossi transnazionali, il cui baricentro di interessi, pur non essendo più qualificabile come “nazionale”, rimane comunque saldamente ancorato nei principali centri industriali e finanziari delle aree oggi, non a caso, interessate dagli accordi TPP e TTIP, con una polarizzazione principale negli USA.

Qui entra in gioco il secondo aspetto, e cioè il contesto prettamente geopolitico, che riflette le dinamiche del capitalismo transnazionale. E’ evidente, in questo caso, il tentativo statunitense di imbrigliare il crescente attivismo cinese nelle relazioni economiche internazionali (vedi la creazione della Banca Asiatica per gli investimenti e le infrastrutture ed i numerosi accordi di libero scambio bilaterale conclusi dalla Cin con paesi soprattutto asiatici).

A questo punto, in un contesto non più monopolare, come negli anni che seguirono alla caduta del blocco sovietico, ma tendente al bipolarismo, o forse ad un multipolarismo ancora in potenza, il WTO non è più uno strumento utile per imporre il modello imperialista, quindi neoliberista, americano. Si è tornati oggi ad un approccio bilaterale e regionale, cercando quindi di mettere in campo, con TPP e TTIP, due strumenti che, rafforzando settori preponderanti del grande capitale transnazionale, permettano allo stesso tempo di consolidare due blocchi geopolitici e geoeconomici a guida americana: uno sul versante pacifico e uno sul versante atlantico.

Non è un caso che i primi firmatari del TPP siano i paesi più fedelmente allineati con gli USA e meno influenzati, per varie ragioni, da Cina o, nel caso latinoamericano, da Brasile o ALBA. Ci troviamo infatti Messico, che già dai tempi del NAFTA è diventato il “retrobottega” dell’industria manifatturiera statunitense, Cile e Perù, due paesi che più di altri stanno continuando ad applicare un modello economico neoliberista e aperto agli investimenti delle aziende transnazionali. Sul versante asiatico, oltre ovviamente al Giappone, abbiamo significativamente il Vietnam (per avversione economica e politica alla Cina), Singapore e Malesia, da sempre allineate agli Usa, e che rappresentano le teste di ponte per un coinvolgimento di altri paesi dell’area ASEAN, cioè il Sud-Est Asiatico, un’area che rappresenta ormai di fatto il terzo polo dell’economia asiatica dopo Cina e India.

Il prossimo passaggio di questa strategia sarà quindi il TTIP sul fronte atlantico. E dobbiamo essere pronti a contrastarlo, ma con una consapevolezza diversa, potremmo definirla una battaglia nell’ambito di una dimensione transnazionale della lotta di classe. I lavoratori di tutto il mondo sono infatti il vero oggetto passivo di questa guerra. Lo sono in quanto forza-lavoro, ora manuale ora intellettuale, da cui poter continuare ad estrarre profitto con sempre maggiore flessibilità, cioè precarizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro, e mobilità, cioè migrazioni forzate. Il controllo di questa forza-lavoro viene conteso dai settori in competizione del grande capitale transnazionale, o tra questo e i settori di retroguardia del capitale nazionale.

Fonti e riferimenti:

James Surowiecki, The Corporate-Friendly World of the T.P.P., The New Yorker, 6 ottobre 2015

Ralph Nader e aa.vv., The Case against Free Trade, Earth Island Press, North Atlantic Books

Wikileaks, pagina dedicata al TTP alla conclusione dei negoziati: https://wikileaks.org/tpp-ip3

Wikileaks, estratto del testo dell’accordo firmato il 5 ottobre 2015: https://wikileaks.org/tpp-ip3/WikiLeaks-TPP-IP-Chapter/WikiLeaks-TPP-IP-Chapter-051015.pdf

Stefania Maurizi, WikiLeaks svela l'assalto del Tpp alla salute e alla libertà della rete, su L’Espresso, 9 ottobre 2015

Tpp, firmato accordo libero scambio Usa-Pacifico. Per contrastare la Cina, Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/05/tpp-raggiunto-laccordo-sul-trattato-di-libero-scambio-tra-11-paesi-del-pacifico/2098406/

Paolo Ferrero, Ttip e Tpp ovvero bombe atomiche per abolire democrazia e sovranità popolare, Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015

http://www.exposethetpp.org/index.html

The Independent http://www.independent.co.uk/life-style/gadgets-and-tech/news/tpp-signed-the-biggest-global-threat-to-the-internet-agreed-as-campaigners-warn-that-secret-pact-a6680321.html

Paul Krugman, TPP Take Two, The New York Times, 6 ottobre 2015

16/10/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: By Neil Ballantyne from Wellington, New Zealand (Stop the TPPA.) [CC BY 2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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