Per non fare la fine dei cavalli

Un’analisi sulla fase, sui nuovi modi di produzione del capitale e su alcuni errori del “bertinottismo”


Per non fare la fine dei cavalli

Come contributo al dibattito e alla collaborazione tra comunisti, riceviamo e pubblichiamo questo articolo che uscirà sul prossimo numero della rivista Cumpanis edita dalla Città del Sole e diretta da Fosco Giannini.

Nel nome della ragionevolezza e del buon senso, da più di trent’anni si viene invitati a rassegnarci all’immutabilità dello stato delle cose esistenti: “non ci sono alternative e, in ogni caso, i mercati non le consentirebbero”. Così si sentenzia e, a chi obietta, si agita il monito della Grecia che, solo per aver tentato modesti aggiustamenti, fu umiliata. Alla signora Thatcher, a suo tempo, fu affibbiato il nomignolo di “Tina”, che era poi l’acronimo del suo motto “there is no alternative” [non c’è alternativa] da allora assunto come motto da tutto l’Occidente. E fu una resa incondizionata senza ribellioni che, in trascinamento, portò all’affermazione, non contrastata, che non esistono le classi e, pure le categorie di destra e sinistra, vanno archiviate con tutto il Novecento.

Oggi, se si permane in questa condizione di sudditanza, anche la lotta alle disuguaglianze, che sono il portato della resa, non esce dagli appelli di poche anime belle e dagli inascoltati sermoni di un Papa, sempre più isolato. Forse è arrivato il momento almeno di domandarci una buona volta che cos’è mai questo stato delle cose esistenti che, per dogma, deve restare inalterato. Ci aiuta a decriptarlo, tra i pochi, il filosofo marxista István Meszáros che, nella sua recente e monumentale opera, sono 913 densissime pagine (Oltre il capitale, Ed. Punto Rosso, 2016), ci racconta del folle divario che, nel tempo, si è venuto a configurare tra gli USA e il resto del mondo, secondo cui gli Stati Uniti d’America, che hanno una popolazione inferiore al 5% relativamente a quella mondiale, consumano da soli il 25% di tutte le risorse del pianeta. Questo è lo stato delle cose che deve continuare ad esistere, detto meglio: perché gli USA continuino a godere del loro alto tenore di vita, che comunque non è per tutti, è necessario che il resto del mondo soffra e soprattutto non alzi la testa. Solo che, sempre in questi ultimi trent’anni, questo teorema ha iniziato a incrinarsi, perché sono venute impetuosamente ad affermarsi altre realtà, rappresentate da grandi Paesi che, per rispondere ai bisogni vitali dei loro popoli, hanno cominciato a produrre e qualificare le loro produzioni, costituendo mercati non solo alternativi ma anche competitivi con l’Occidente. E le cose esistenti hanno cominciato a scricchiolare.

Si è infatti affermata la Cina che è oggi protagonista di un balzo che non ha uguali nella storia dell’umanità; è ritornata al ruolo di grande potenza la Russia, risalita dal baratro in cui l’avevano scaraventata le scelte sciagurate prima di Gorbaciov poi di Eltsin; è emersa l’immensa India, e poi il Sudafrica e, infine, il Brasile sul quale gli USA, come del resto su tutti i Paesi del Latino-America che erano stati protagonisti del processo definito “socialismo del XXI° secolo”, stanno esercitando una pressione terribile. Questa affermazione sta determinando conseguenze di straordinaria rilevanza, la più importante riguarda il PIL mondiale: se negli anni Cinquanta quello degli USA rappresentava la metà del PIL di tutto il mondo, oggi, con l’affermarsi appunto di quelle richiamate e di altre realtà (come il Giappone, la Corea del Sud, la Germania) è scivolato al 20%. È forse decollato il declino americano? Se non altro è la prima volta che viene messa apertamente in discussione la consapevolezza superba degli USA di sentirsi potenza egemone del mondo e, come tale, legittimata ad espandersi e a spostare le frontiere in una perenne riproduzione, nel pianeta, dell’epopea del West.

Se lo stato delle cose esistenti è scosso dobbiamo ora porci una domanda inquietante, almeno per le menti libere: ma gli USA assisteranno pacificamente al loro declino che sta scuotendo i loro dogmi e toccherà, sta già toccando, anche le condizioni di vita che sono peggiorate nell’indifferenza dei democratici, sino al punto che la lotta al disagio e a sostegno di operai e contadini americani è stata assunta da un miliardario fascistoide? Permane l’incertezza della risposta. Oggi però c’è almeno un punto fermo nella situazione mondiale: il declino mondiale (dell’Occidente) e la crescita cinese (e delle altre economie non occidentali) vanno di pari passo e si stanno misurando non solo sugli effetti della pandemia che ha scosso il mondo, da Pechino a New York a Milano, ma soprattutto si stanno misurando sul controllo delle trasformazioni impressionanti intervenute da qualche decennio con l’esplosione di nuove tecnologie di automazione flessibile. «… è difficile capire fin dove potranno portarci e come si presenterà la distribuzione della ricchezza nell’arco di qualche decennio tra un Paese e l’altro e all’interno dello stesso Paese», così Thomas Piketty si interrogava già nel 2011 (Il Capitale del XXI° secolo, Ed. Bompiani, 2014). Siamo, come popolo del pianeta, calati dentro una rivoluzione che, nei suoi effetti, va oltre le grandi rivoluzioni industriali del passato: da quella della meccanica a vapore sulla quale studiarono Marx ed Engels, a quella dell’elettricità e poi del motore a scoppio, sino all’avvento, nella seconda metà del secolo scorso, dell’elettronica e, più recentemente, della microelettronica.

Questa invece in corso, che forse è solo iniziata, è una rivoluzione che cambia il modo di lavorare e di comunicare ma cambia anche i comportamenti, le abitudini degli uomini. Il vecchio Marx oggi si getterebbe a capofitto in una frenetica riscrittura del Capitale, subissando Engels di SMS e polemizzando via Skype con i filosofi di mezzo mondo. Ma se cambia Il Capitale ci si domandi se sono destinate a cambiare anche le sue conclusioni che Marx ed Engels con il Manifesto del Partito Comunista, scrissero molto tempo prima. Non dovessero cambiare, quale Partito Comunista diventa utile dentro queste trasformazioni impressionanti? Quesiti pesanti, limitiamoci a registrare che oggi, sopra le produzioni di beni e servizi, si è andata via via a collocare una inedita sovrastruttura di comando composta non più da persone fisiche ma da conglomerati bancari e fondi di investimento per i quali la “missione produrre” è secondaria.

Con questa nuova rivoluzione si è così venuta ad affermare una superclasse, associata ad aziende di rating che, per la massa enorme di capitali che movimenta, talvolta pari o superiore ai bilanci degli Stati stessi, è perfettamente in grado di influenzare i Governi nazionali così come lo stesso Fondo Monetario Internazionale, ma capace anche di formare, lo sta facendo da tempo, e mettere in circolo i Ministri delle Finanze dei singoli Paesi compresa l’Italia. Quando, pertanto, ci si riferisce alle sentenze inappellabili dei mercati (“lo dicono i mercati”) si sappia che si parla di banche d’affari e società finanziarie transnazionali che, in un perverso gioco di squadra, simulano di azzuffarsi per il finto scopo di un punto di spread, ma poi, tutte insieme come un branco di iene, si avventano simultaneamente alla gola di una preda, ora la Grecia ora la Libia, ove il saccheggio è ancora in corso, o il Venezuela dove però trovano un osso duro. Il capitale del terzo millennio è questo, e oggi lo supporta una nuova sofisticata tecnologia andata saldamente nelle mani delle “cinque sorelle” dell’informazione digitale: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, i “titani del Web”, come li definì “The Economist”.

È questo un nuovo capitale però senza i capitalisti, senza quei padroni che abbiamo imparato a conoscere, che erano poi le Famiglie e le Dinastie che si insediavano su un territorio. Non ci sono più a Torino gli Agnelli e nemmeno i Falck a Sesto S. Giovanni che, come i Pirelli, poi li trovavi nel CdA del Corriere della Sera, orgogliosi di disporre del palco di famiglia alla Scala. A Milano, come altrove, non ci sono più i grandi capitalisti. Le auto, gli acciai, le gomme però si producono ancora, ma le antiche linee un tempo concentrate in grandi stabilimenti sono state esplose, per singoli componenti, in più parti del mondo e particolarmente laddove il lavoro costa meno. A tal riguardo, per le politiche salariali praticate dai Governi italiani tutti, non contrastate dal Sindacato, oggi il costo del lavoro italiano si è talmente abbassato da risultare competitivo con quello delle economie più povere e Calenda, che è un prodotto costruito nei laboratori della superclasse, quando è stato Ministro (è successo anche questo) ne fu compiaciuto. Ma, ancora ci si domandi, qual è la forza motrice che ha mosso e tutt’ora muove le trasformazioni impressionanti o, più concretamente, qual è il motore che fa funzionare i settori oggi più innovativi delle telecomunicazioni, delle nanotecnologie e quella farmaceutica che è balzata in questi mesi al centro dell’attenzione mondiale?

La risposta più convincente la offre Mariana Mazzucato, economista, che insegna a Londra ed è consulente di vari Governi: «nelle economie più avanzate è lo Stato a farsi carico del rischio investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie ed è ancora lo Stato che gioca il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative… una Società come Apple, cuore pulsante della Silicon Valley e che ha lanciato nel mercato i prodotti elettronici più popolari, ha ottenuto un successo straordinario grazie al genio di Steve Jobs e della sua squadra, ottenuto però solo grazie ai grandi finanziamenti pubblici del Governo degli USA: solo con gli aiuti di Stato Apple è passata dal personal computer a quell’elettronica da consumo che ha cambiato il modo di comunicare e di lavorare» (Lo Stato innovatore Ed. Laterza, 2014). È quindi lo Stato che finanzia i progetti e mette in moto i processi di innovazione. Così negli USA, così in Germania, così in Cina, non così oggi in Italia, ma fu così nel passato.

Ma qui, ancora la Mazzucato, cala un interrogativo di quelli pesanti: se lo Stato ci mette i soldi perché «tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati?». Così è, più o meno, negli USA, un po’ meno in Germania, un po’ di più in Giappone e in Corea del Sud. Sarebbe così anche in Italia se l’Italia investisse, non così in Cina. In Occidente non ci saranno più le classi ma quella superclasse utilizza i fondi dei Governi, e quindi dei cittadini, per interessi privati. In sintesi: le classi non ci sarebbero più ma c’è la lotta di classe e qualcuno la sta vincendo alla grande.

Per un lungo periodo, quarant’anni, l’Italia costituì una eccellente eccezione, potendosi avvalere di una struttura originale, come quella delle Partecipazioni Statali con la presenza fondamentale dell’IRI, che consentì al Paese non solo la ricostruzione del dopoguerra ma anche il salto da Paese agricolo a realtà industriale, un Paese che, allora, stava al passo con le economie più avanzate. Era quello il tempo, che durò fino ai primissimi anni Novanta, dei “campioni nazionali” e dei grandi manager pubblici, come Mattei, Ippolito, Pasquale Pistorio, raccordati con illuminati imprenditori privati come Adriano Olivetti. Si può addirittura azzardare che oggi il modello cinese richiami, ovviamente in ben altra scala e con tutt’altra “governance”, quell’esperienza italiana. Sciolte le Partecipazioni Statali, cancellato l’IRI, uscito di scena lo Stato, la politica italiana ha perso il controllo sull’economia e, da allora, l’Italia ha perso pure l’aggancio con tutte le rivoluzioni industriali a partire da quella della microelettronica. E oggi l’Italia deve inseguire, schiacciata in un ruolo che è diventato quello del contoterzista e del subfornitore di economie, come quella tedesca, che hanno invece mantenuto più o meno saldo il ruolo centrale dello Stato in economia.

Nel lontano 1942 il Presidente degli USA, Delano Roosevelt, lanciò il grande concorso per un’opera che si proponesse di rappresentare “lo Stato che controlla il Mercato”. Lo vinse una imponente scultura in cui un uomo muscoloso, lo Stato, imbrigliava uno stallone scalpitante, il Mercato. Oggi quella scultura potrebbe essere esposta a Pechino, forse anche a Berlino, non certo a Roma o a Milano dove è il mercato che imbriglia lo Stato. Il dito medio di Cattelan, famosa scultura, che a Milano è esposta nella Piazza davanti alla Borsa, forse allude proprio a questo. È il cavallo-mercato che galoppa a ritmi vertiginosi e impone al mondo o a una parte del mondo, l’Occidente, una ferrea legge: bisogna produrre di più, sempre di più, spendendo meno, sempre meno. Ma perché ciò avvenga è indispensabile che le fabbriche, ovunque siano collocate, si riempiano di nuove macchine connesse con altre macchine (è l’industria 4.0) ma si svuotino di operai e tecnici, esuberi da gettare, ai quali provveda lo Stato che, considerato come una discarica, però deve sostenere l’innovazione non usufruendone mai dei vantaggi, ma facendosi sempre carico degli svantaggi.

Stiamo così vivendo una rivoluzione ben diversa da quelle attraversate nel passato. Quando, più di un secolo fa, entrò in scena il motore a scoppio, non risultarono più utili i mezzi a trazione con i cavalli come carrozze, carri e aratri. Conseguentemente, si ridusse drasticamente la popolazione mondiale dei cavalli. Ma se i cavalli “uscivano dalla produzione” nelle fabbriche di auto e trattori entravano contemporaneamente milioni di uomini. Oggi che nelle fabbriche entrano le macchine che richiedono pochi addetti ed escono a milioni gli uomini, una domanda si impone: come esseri umani, siamo forse destinati a far la fine dei cavalli? Per impedirlo dobbiamo proporci di controllare, lo Stato, e non subire i processi. Lenin, dinnanzi alla rivoluzione dell’elettricità, non la rigettò ma l’accostò al controllo partecipato dei Soviet. Più modestamente, ma sempre nello stesso periodo storico, il Comune di Milano a guida socialista, municipalizzò nel 1912, forte dell’esito di un referendum popolare, la distribuzione dell’elettricità, fino ad allora nelle mani dei privati (Edison) che, negli impianti idroelettrici della Valtellina, producevano energia derivata dall’uso del bene comune acqua. Si trattava di elementi di socialismo? Certamente e gridano nel presente, in cui non è sufficiente schierarci a difesa di quanti sono espulsi dai processi produttivi e di quanti non vi possono nemmeno accedere e che oggi, dopo l’uscita dalla pandemia, saranno sempre di più.

È necessario certo difendere, ma nel contempo, indicare dove si vuole andare. Anche la difesa deve essere mirata e passa per il controllo dell’innovazione, ma sono necessarie grandi idee, che però mancano. Torna così ad avere ragione Meszáros quando sostiene che oggi abbiamo un «tremendo bisogno di una teoria socialista della transizione ma non solo come antidoto alle assurde teorizzazioni sulla fine della storia e alla celebrazione prematura del funerale del socialismo, ma per riassumere in termini positivi la struttura concettuale della teoria socialista elaborata in origine nel piccolo angolo europeo del mondo».

Ritorna così attuale la questione che si presentò al PCI quando, dopo la Liberazione, si propose di affrontare i problemi della ricostruzione. Nell’agosto del 1974, nel decimo anniversario della morte di Togliatti, la rivista “Politica Economia” pubblicò il rapporto che il Segretario Generale del PCI aveva svolto al 1° Convegno Economico del Partito, tenuto già nell’agosto del 1945. L’Italia era appena uscita dissanguata dalla guerra, con le città e le fabbriche distrutte e una popolazione stremata che chiedeva pane e lavoro. Era necessario offrire risposte nell’immediato (elementi di socialismo se si vuole) legate a una prospettiva che, solo nel 1956, si sarebbero, dopo dieci anni di sperimentazione, configurate nel programma a sostegno della “Via Italiana al Socialismo”. L’intervento di Togliatti contiene concetti e anche un metodo di lavoro politico che vanno aldilà del tempo in cui furono proposti, esposti con chiarezza esemplare e intento pedagogico anche. Disse infatti: «la nostra deve essere una linea politica di produzioni e non di sussidi, salvo casi eccezionali… dobbiamo tendere a creare la maggior quantità di lavoro perché solo da una larga e molteplice ripresa della produzione possiamo attenderci un radicale miglioramento economico». Non escludeva, Togliatti, il sostegno alle imprese, ma solo a quelle che, seppur ferme perché danneggiate o da riconvertire, si proponevano di non licenziare gli operai. La ricostruzione sarà possibile domani solo con gli operai delle fabbriche che oggi non chiudono. A questi operai, aggiungeva, per un tempo limitato, lo Stato paghi anche i tre quarti del salario ma, nel contempo, la CGIL studi sistemi di turnazione e riduzione d’orario.

Non è affatto difficile trovare stringenti analogie con il presente in cui le imprese, con l’arroganza di un pessimo presidente di Confindustria, chiedono aiuti di Stato a fondo perduto, ma respingono ogni richiesta di riduzione d’orario, così come irridono alle timide proposte di presenze simboliche dello Stato negli assetti proprietari delle imprese. Siamo al carro della Germania, ma respingiamo il modello di “economia mista” dei tedeschi. E, tra le imprese, chi alza di più la voce, sono quelle che hanno collocato la loro sede legale, non solo a Panama ma anche in Olanda e Lussemburgo, che furono gli assassini della Grecia e chiedono aiuti di Stato proprio loro che sottraggono allo Stato 7 miliardi di euro all’anno. Ora come allora è posta la questione del controllo, sia del “controllo operaio” dal basso sul quale Panzieri e Libertini scrissero pagine brillanti (bisognerà tornarci su questo tema abbandonato), come del “controllo di Stato” dall’alto, sul quale Togliatti fu chiarissimo: «… Se lo Stato non interviene per limitare la libertà assoluta della speculazione, si creano nuovi squilibri e si va verso la catastrofe». Concetti semplici. Scritti in prosa limpida che non si presta a interpretazioni, ma anche primi materiali per un programma, e insieme, un semilavorato di quel progetto di identità che faccia dire a cittadini e lavoratori: noi siamo questo.

Il Partito nuovo si andava via via a definire con queste modalità e con i lavoratori. Un quarto di secolo dopo la morte di Togliatti, un gruppo di trenta-quarantenni che si erano formati insieme nella FGCI, prendendo slancio dalle pratiche distruttive dei riformisti filo-craxiani, ai quali troppo tardivamente si era opposto l’ultimo Berlinguer, lanciarono la scalata vincente alla guida del PCI, abbandonando del tutto la centralità del lavoro in quel Partito liberaldemocratico che sarebbe sorto sulle macerie del Partito Comunista Italiano di Gramsci e Togliatti. In replica nacque allora Rifondazione Comunista, come forza che si proponeva di raccogliere con le grandi idee del socialismo che venivano archiviate anche i sentimenti di un popolo che non voleva abbandonare una storia, che era stata, pur con tutte le contraddizioni, “una grande storia”. Ma il progetto di Rifondazione è fallito dopo un “ventennio breve”. Chi oggi è il titolare del simbolo non affonda le radici in quella storia. Rifondazione, come Partito, è durata poco soprattutto perché, al netto delle scissioni, non è mai uscita dalla dimensione di Movimento, così come SEL, espressione dell’ultima scissione, non è mai uscita dalla dimensione di Associazione.

Il Partito della Rifondazione colpito dal male oscuro della personalizzazione già con il primo Segretario Garavini, che aprì un folle contenzioso con il primo Presidente Cossutta, non ha mai cercato di costruirsi un’identità e, con il secondo Segretario, Bertinotti, è entrato nella logica che la competizione politica si andasse a giocare tutta sull’immagine. Rincorrendo eventi e inventandosi fasi e cicli che si aprivano e chiudevano senza riferimento alcuno alla realtà. E mentre in Italia, proprio durante il ventennio breve della vita di Rifondazione, si registrava il più spettacolare trasferimento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori e pensionati a quelle di banchieri, industriali, fondi d’investimento, la Rifondazione di Bertinotti non trovava di meglio che inventarsi un fronte di lotta interna addirittura allo Stalinismo. Naturalmente questo, se lasciò ovviamente indifferente la massa dei lavoratori e pensionati che non arrivavano alla fine del mese, trovò entusiasmo nel gruppetto di giovanotti di cui il Segretario amava circondarsi, narcisisticamente compiaciuto dal sentirsi dire da loro “come sei bravo Fausto”. Inutile dire che, quando Fausto inciampa e quindi “la ditta” non paga più, i primi a saltare giù dal carro sono i suoi giovani cortigiani. Perché Rifondazione, che rincorreva eventi e movimenti che, come quello no-global la usavano ma non contraccambiavano, uscita da sinistra del primo governo Prodi, entra senza programma nel secondo Prodi (lo scambio è la Presidenza della Camera) ed esce a pezzi alle elezioni.

Gioco, partita, incontro e, fatto salvo il ventennio nero, per la prima volta nella Storia d’Italia, nel Parlamento italiano non ci sono più i comunisti. Con questo fardello alle spalle ricominciamo? Proviamoci pure, sapendo che forse su di noi insiste la maledizione di un Dio, come quello che costringeva Tantalo a spingere il masso su per il monte e appunto ricominciare quando il masso scivolava giù. Come liberarcene? Oggi è forse più dura del ’45, perché oggi, oltre a non disporre di un gruppo di intellettuali rivoluzionari prestigiosi di riferimento, sembra essere venuta meno qualsiasi spinta dal basso e, in assenza di un’idea rinnovata di politica, molte energie attive tendono a indirizzarsi in ambiti diversi dalla politica. La politica resta pur tuttavia la proiezione degli interessi di classe e può ancora tornare ad avere senso la concezione del Partito Politico come depositario degli interessi di una Classe. Decisivo è che, dinnanzi alla crisi della centralità dell’impresa e quindi del ruolo del lavoratore nella stessa, bisogna avere la capacità di andare verso la democratizzazione dei processi decisionali. Si apre perciò un vastissimo campo d’azione che ha però come presupposto “la conoscenza della realtà”. Nessuna apologia dello sviluppo e va bene ma un moderno conflitto sociale in cui, al centro, ci sia il controllo democratico, i diritti di cittadinanza, la qualità del lavoro, l’ambiente. Ricominciamo a ricostruire dalle macerie.

Bruno Casati, presidente del Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano

31/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Bruno Casati

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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