Un padre, un figlio, la Liberazione: Adelmo Cervi racconta la Storia e la lotta per gli ideali

Nella sezione Antonio Gramsci del Partito Comunista di Sassari si è tenuta la presentazione del libro di Adelmo Cervi e Giovanni Zucca: “Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio”.


Un padre, un figlio, la Liberazione: Adelmo Cervi racconta la Storia e la lotta per gli ideali

Ciò che è passato alla storia come un crudele eccidio, troppo spesso incasellato tra gli innumerevoli compiuti dai nazifascisti e freddamente celebrato con qualche sterile minuto di silenzio, è stato spiegato da un combattente, un liberatore ma, soprattutto, un padre al quale hanno strappato sette figli.

Alcide Cervi, contadino e partigiano, diceva: “Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo”.

Gli ideali antifascisti di uguaglianza, libertà dall'oppressione e liberazione degli oppressi erano quelli che il padre Alcide trasmise ai suoi 9 figli, comprese le sorelle ‘risparmiate’ dalla strage, Diomira e Rina, insieme alla madre e moglie Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica ma, soprattutto, antifascista.

I Cervi, nelle campagne emiliane del ventennio mussoliniano, facevano gli agricoltori e gli allevatori lavorando duramente e con ingegno tanto da scatenare le prime invidie che, visto il loro concreto impegno antifascista e la loro partecipazione alle sollevazioni popolari, attirarono l'attenzione dei fascisti.

Nonostante le perquisizioni e le persecuzioni, la famiglia si dimostrò sempre unita e compatta attorno alla difesa ed alla lotta per gli ideali antifascisti e comunisti aderenti al socialismo umanitario, fino all'assalto del loro podere da parte degli squadristi fascisti. Nella notte del 25 novembre 1943, i fascisti accerchiarono la casa dei Cervi che tentavano di difendersi fino a terminare le loro munizioni da partigiani; purtroppo i sette fratelli non ressero all'assalto militare e, costretti ad arrendersi, furono tutti incarcerati assieme al padre Alcide nel carcere di Reggio Emilia.

All'alba del 28 dicembre 1943, i sette fratelli Cervi furono fucilati assieme al patriota Quarto Camurri. Come scritto da Paolo Nicolai, “Gelindo grida: ‘Voi ci uccidete, ma noi non morremo maI’. Poi la raffica” [1]. Morirono sette dei nove figli Cervi: “Quando caddero, Ettore aveva ventidue anni, Ovidio venticinque, Agostino ventisette, Ferdinando trentadue, Aldo trentaquattro, Antenore trentanove, Gelindo quarantadue” [2].

Riuscito ad evadere dal carcere in maniera rocambolesca per un bombardamento, il padre Alcide, che ignorava la sorte dei figli, seppe l'indicibile notizia dalla moglie Genoeffa la quale, all'ennesimo assalto distruttivo dei fascisti al loro podere, con le donne ed i bambini ancora al suo interno, non resse ad un infarto che la costrinse ad un’agonia durata un mese. Il marito e padre Alcide resistette ancora, fino al 1970, con ciò che rimase della famiglia, della loro casa e delle loro attività: oggi, quel podere è un prezioso baluardo di libertà, essendo diventato un Museo della Resistenza, dell'antifascismo e dell'agricoltura.

A raccontare la storia di questi martiri della Liberazione, che un certo revisionismo neofascista vorrebbe ridimensionare a complotto storico avvolto dalla nebulosa ignoranza seminata, è stato il nipote e figlio sopravvissuto Adelmo Cervi: nella sezione Antonio Gramsci del Partito Comunista di Sassari, nel corso della serata di domenica 13 ottobre, si è infatti tenuta la presentazione del suo libro “Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio” [3], scritto con Giovanni Zucca.

Adelmo Cervi, figlio di Verina Castagnetti ed Aldo, terzogenito dei fratelli Cervi nonché partigiano fucilato dai fascisti, aveva appena 4 mesi quando rimase orfano di padre. Esattamente come da incipit del suo libro, Adelmo Cervi ha la capacità di raccontare la Storia come fosse una storia: col suo linguaggio diretto, districandosi tra perle storiche, analisi politiche, dolorosi ricordi e distensivi intercalari, riesce sempre a tenere alta l'attenzione e vivo il dibattito.

La dignità del parlare per esperienza è stata tragicamente conferita a Cervi dalla Storia: il prezzo, tanto alto quanto inconcepibile, sono state le vite del padre e degli altri 6 zii uccisi per gli ideali comunisti che li avevano condotti verso le lotte partigiane e che, oggi, continuano ad animare anche lui.

“Mio padre, da cattolico praticante, divenne comunista formando la sua coscienza in sé e per sé anche in carcere. A seguito della scarcerazione, avvenuta nel 1933, dedicò la sua vita alla liberazione tanto dal nazifascismo quanto da qualsiasi forma di oppressione. Aldo divenne comunista proprio contro la tirannide che impedisce ogni forma di contraddittorio: infatti, per principio ed oltre l'appartenenza politica di chi detiene il potere, sono proprio i governanti a decidere chi possa essere libero e chi prigioniero, chi debba vivere e chi debba morire”.

Come ha spiegato Adelmo Cervi, “da cattolico, mio padre divenne un comunista liberatore che soleva ripetere una frase: ‘ho capito che, con le preghiere, non si cambiano né si abbattono le ingiustizie del Mondo’”.

La memoria storica del figlio è precisa anche nel ricordare gli antefatti che portarono alla nascita di quello che, secondo Antonio Gramsci, si presentava come ‘l'antipartito’ fascista [4]: “l'oppressione non cominciò col nazifascismo che, concretamente, la sdoganò dal punto di vista legale e legalitario. In realtà non si fermò mai ed anzi, a gettare i semi per lo sviluppo delle maligne radici fasciste fu lo sfruttamento esercitato prevalentemente dai padroni locali, tra i quali i mezzadri, i fattori e gli industriali e, al di sopra di tutto, la monarchia dei Savoia. La loro repressione a tutto campo, da quella fisica passando per quella culturale e linguistica, fino a quella produttiva e coloniale mediante la lotta con le altre monarchie per la creazione di grandi imperi storicamente affermatisi con sanguinarie guerre e secoli di sfruttamento, fu deleteria tanto quanto il ventennio mussoliniano”.

Adelmo Cervi ha espresso dunque una forte contrarietà alla risoluzione UE che equipara di fatto il comunismo al nazifascismo, così come una forte opposizione alle dittature di qualsivoglia tipologia, anche se nascoste dietro gli alibi delle ideologie tradite, specie comuniste e socialiste. Infatti, Cervi ha colto l'occasione per ribadire la sua identità comunista, ereditata soprattutto dagli ideali di suo padre, dicendosi altresì certo che proprio il padre ed i suoi fratelli avrebbero condiviso la sua visione di contrarietà ai dittatori, accusati di accomunarsi nella deriva autoritaria in spregio ai più nobili ideali.

“Penso e parlo con la mia testa”, ha ribadito Adelmo Cervi, “e, per quanto riguarda l'URSS di Stalin, pur essendo grato per l'azione liberatoria dell'Europa dal nazifascismo, lo faccio con cognizione di causa: dopo il viaggio che intrapresi nella Federazione, pieno di curiosità e speranze, dovetti fare la valigia e tornare perché mi scontrai e criticai apertamente il burocratismo e la durezza imposta nel percorso per diventare dirigenti di partito che, ieri come oggi, sono spesso affetti da una certa imbecillità. E, come sempre, a pagare il prezzo di tutte queste disfunzioni sono proprio i civili”.

Per combattere ogni rigurgito nazifascista ed oppressivo, smascherandolo laddove si celi dietro facciate di altre appartenenze politiche, bisogna ripartire dalla considerazione e dallo sviluppo delle necessarie alternative di sviluppo che combattano i secolari mali dell'umanità, non ciclici ma perenni e stabili, quali il capitalismo e l'imperialismo come sua fase di suprema affermazione, diffusione e sdoganamento legislativo.
A tal proposito, Cervi ha ricordato come “nel settore agricolo, ossia quello anche allora maggiormente sviluppato nei paesi dell'Emilia-Romagna, lo scontro degli oppressi avveniva maggiormente non con i padroni, bensì con i fattori. Questa lotta si ripropone continuamente anche oggi, facendoci constatare come gli scontri per il riconoscimento dei diritti contro l'oppressione lavorativa, retributiva e sindacale avvenga continuamente e prevalentemente con i leccaculo dei padroni. Sono loro i veri bastardi, gli scagnozzi dei capi che contribuiscono in larga parte al mantenimento delle ingiustizie ed a scansare ogni miglioria”.

Nonostante queste difficoltà o, forse, proprio in funzione del loro abbattimento, il lavoro resta fondamentale per comprendere una grande fetta di popolazione esclusa e scontenta perché privata del potere contrattuale e, di conseguenza, da quello politico-decisionale: il dato che allarma Cervi è proprio “il 40% dei ragazzi che, al termine del percorso scolastico, non trovano lavoro. Se i dirigenti, da quelli industriali a quelli politici, avessero realmente lavorato, non ci troveremmo in una situazione che penalizza i giovani fino ad escluderli. Il problema del lavoro e della società, oggi, è soprattutto dovuto ai dirigenti che prendono 5 o 10 volte più dei loro dipendenti. I commercianti, effettivi e di parole, non mi sono mai piaciuti: dicono tanto, troppo, e non fanno come i veri lavoratori, spesso sfruttati. Per questo non si dovrebbe continuare a dare finanziamenti alle piccole e medie imprese, bensì ai poveri disperati che non arrivano alla fine del mese. E non serve l'assistenzialismo, ma l'aiuto”.

Analizzando la situazione politico-organizzativa da un punto di vista sociologico, Adelmo Cervi ha seccamente descritto la ripetizione di schemi che costringono la sinistra a muoversi quasi sempre all'interno di stretti schemi e situazioni da riserva indiana: “non c'è mai un partito che, per bocca dei suoi dirigenti, non dica ‘voglio fare tutto da solo’, ma sempre ‘gli altri non vogliono me’, sbagliando nel non voler abbandonare un certo atteggiamento arrogante e prepotente. Anziché alimentare la deriva di chi, facendosi eleggere parlamentare, ha buttato i soldi guadagnati o li ha reinvestiti nella creazione di altri partitini, affidandosi alle masse e non guardando alla qualità delle istanze portate, dovremmo darci da fare, abbandonando il pensiero secondo cui i leader passati o presenti siano iconici o taumaturgici risolutori delle infinite questioni aperte. La retorica del ‘pochi ma buoni’ è un vero e proprio suicidio politico che fa ridere gli avversari, ai quali vanno sempre bene i pochi attivisti disuniti. Le forze demagogiche di destra marciano infatti sull'astensione, sull'arrendevolezza e la rinuncia delle masse tra le quali si annoverano anche i potenziali nostri compagni soli, scontenti ed in difficoltà. Questi ultimi si allontanano proprio perché delusi dalle deleghe date dal Partito a svariati capi e capetti locali, che non ascoltano le esigenze popolari e continuano a mirare su una dottrina che proprio il popolo non vuole più sentire perché impreparato ed oberato da mille difficoltà”.

Infatti, secondo Adelmo Cervi, “all'interno dell'ambiente comunista si dovrebbe smettere di scontrarsi su questioni di principio ormai superate e superflue, come quelle marxiste-leniniste contro quelle trotskiste, concentrandosi invece sull'unico ideale che guida sempre i rivoluzionari, così come guidò i Cervi durante la Resistenza. Infatti, l'idea e l'obiettivo di migliorare del Mondo possono partire solo da una base indispensabile: la liberazione dall'oppressione, urgente oggi più che mai”.

Il mondo comunista, come sottolineato da Cervi, “deve essere un divenire di umanità, imparando dalla Storia: gli ideali per i quali mio padre ed i miei fratelli diedero la vita non si sono realizzati e, anzi, sono stati troppo spesso traditi da continue oppressioni, dittature e divisioni interne ai partiti che li avrebbero dovuti invece realizzare”.

Queste ultime hanno portato alla nascita ed alla breve vita di numerosi piccoli partiti di ispirazione o apertamente comunisti che, così parcellizzati, fanno sorgere spontanea la domanda posta da Cervi nel corso della presentazione del suo libro, ossia “quanti e quali partiti comunisti? Ad esempio, solo alle comunali di Livorno, si sono presentati in 5. Perciò continuo a sperare in una sinistra unita e non più divisa in partitini dispersi, in una sinistra riuscita e non fallita come altri movimenti senza la nostra storia né i nostri ideali. La colpa di alcuni compagni è legata alla delega di competenze e poteri, fino alla mitizzazione di personaggi ed errori storici palesemente contrari agli ideali teoricamente propagandati. Questo processo ha finito per allontanare le persone dall'ideologia tradita, traghettandola verso un’autoreclusione a sua volta alla base dei movimenti demagogici di estrema destra, come la Lega di Salvini”.

Nonostante ciò, Adelmo Cervi dice di non essere pessimista “ma realista. Se a 76 lo fossi, non sarei qui ad infervorarmi dopo tutti i rospi ingoiati da almeno sessant'anni. Continua a farmi rabbia la ritirata, la stessa che contribuì alla condanna a morte di quasi tutta la mia famiglia. Perciò tengo sempre a mente una frase di Ernesto Che Guevara, ossia ‘chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso’. Non si può mai abbandonare la lotta, perché è questa che ci mantiene giovani, corroborando l'anima ed il corpo contro i piagnistei che sono stanco di sentire. La mancanza di ideali e la morte delle ideologie sono solo alibi per la ritirata e per l'astensionismo. In questo senso, io non capisco perché non si debba votare: la rinuncia non è certo un modo per portare la verità e nemmeno per convincere le persone a lottare”.

“La questione dell'assenza di valori” così come quella vetusta della colpa generazionale sono, per Adelmo Cervi, “sbagliate ed insensate. Io giro nelle scuole di tutta Italia e, rapportandomi con moltissimi giovani, noto sempre che i professori siano sempre i primi a sentire il suono della campanella che scandisce la ricreazione. Mentre gli adulti sgomitano per la loro ora d'aria, i giovani alunni interpellati vogliono sempre continuare l'ascolto della mia narrazione, domandare e scoprire”.

Secondo Cervi, tra i metodi di lotta trasversale non si possono annoverare quelli già teorizzati o praticati: “non si può fare la dittatura del proletariato, che ha già storicamente fallito ed è pur sempre una dittatura, soprattutto perché il proletariato teorico non esiste più, ormai soppiantato dai disoccupati, dai disperati e dai dispersi. Coloro i quali lo sono, invece, non riconoscono la loro condizione perché impegnati a sbarcare il lunario e cercare di integrarsi in un sistema capitalista che, tuttavia, continua a rigettarli”.

Adelmo Cervi ha sempre ribadito di parlare “sulla base di ciò che ho visto e vissuto, non certo per sentito dire da chicchessia durante un comizio, o neanche perché abbia letto tutti i testi fondamentali del comunismo. Posso però dire di essermi ritrovato, anche per diretta esperienza personale, nel libro La rivoluzione tradita di Lev Trockij. Leggendo le sue parole e le sue teorie, ho persino capito perché sia stato tanto perseguitato, raggiunto fino in Messico e brutalmente ucciso”.

Secondo la visione di Cervi, ad oggi, “è quanto mai necessaria una forza unitaria di sinistra che abbatta il capitalismo quando si formeranno e salderanno le forze per abbattere questo sistema oppressivo. Ma, per ora, il popolo della sinistra perde senza neanche combattere”. L'accorato appello di Adelmo Cervi consiste nel “non aspettare ancora: non aspettate che le cose cambino da sole o che vengano cambiate da qualcuno all'infuori di noi, ma fate in modo di muoverci insieme per fare”.

Adelmo Cervi, forte anche di una certa storia di partecipazione politica, spera ancora “in una forza unitaria di sinistra che, come dopo la Resistenza, veda comunisti, socialisti e democratici uniti nella profonda riscoperta ed applicazione della Costituzione. Quest'ultima, votata dopo la Liberazione persino dai cattolici, dai liberali e dai filo-monarchici, è sempre stata bistrattata ed attaccata da referendum inutili e mai compresi fino in fondo nelle loro concrete applicazioni. Noi abbiamo sempre avuto governi considerabili anticostituzionali, ossia irrispettosi del dettato costituzionale. Ripartire dalla Costituzione significherebbe oggi applicarla così come non è mai stato fatto, perché colpevolmente sconosciuta nella marea di articoli che la compongono: dovremmo invece ripartire dalla sua prima parte e, soprattutto, dai suoi primi 12 articoli fondamentali traducendone i principi in programma politico”.

Concretamente, Cervi si dice convinto del fatto che “sia necessario chiudere le porte ai traditori del Partito Democratico che, troppo spesso come l'estrema destra di Salvini e Meloni, hanno dimostrato di non avere alcuna considerazione e rispetto per chi ha lottato ed avuto una vita segnata dalle battaglie della Resistenza e da quelle successive, mai finite”. Tuttavia, come colto dal relatore Michele Lanza e dai numerosi presenti, il principio democratico senza l'abbattimento di un sistema economico-politico e sociale capitalista rischia di perpetuarsi sempre nelle vesti della loro democrazia: perché, orwellianamente parlando, continueranno sempre ad esistere persone più uguali delle altre.

Tra gli errori storici citati da Adelmo Cervi, assume un posto di spicco quello di “Palmiro Togliatti, che amava farsi chiamare ‘il migliore’ perché godeva dell'idolatria e si beava dell'aver ‘fatto il suo’ quando, in realtà, la sua colpevole amnistia fece paradossalmente sì che i fascisti fossero scarcerati e che i partigiani fossero processati ed imprigionati al posto loro. L'amnistia Togliatti abbatté la Resistenza, escludendo i partigiani da tutti i ruoli socio-economici per la cui liberazione avevano lottato. Togliatti era quindi uguale a tutti i despoti, nel momento in cui decise di amnistiare i fascisti sputando in faccia ai sopravvissuti ed al sacrificio dei Cervi e di tutti i liberatori come loro. Togliatti incarnò la parte distopica della storia dirigenziale comunista che ha fallito ed ha sempre fatto fallire le lotte dei rivoluzionari martirizzati e, con loro, quelle di tutti noi come successori ideali del loro sacrificio”.

Il discorso di Cervi, così come il suo appello, sono stati condotti coi suoi consueti toni infervorati che non inquietano mai trasmettendo, al contrario, una passione travolgente e commovente perché, alla luce del suo tormentato vissuto, non si perde nei mille rivoli dello scontento quotidiano che ci disturbano e che, colpevolmente, non trasformiamo in azione efficace.

Talvolta è giusto farcene un cruccio mentre, altre volte, l'impotenza nei confronti dei mille tentacoli dell'oppressione ci deve far comprendere come questa sia radicata a causa di un finto discorso di comodo il quale, concretamente, resta un alibi al servilismo dei molti che affossano i pochi capaci di combattere anche per i loro diritti, nonché intellettualmente e culturalmente superiori a loro che, senza la servitù volontaria alla quale si genuflettono, sarebbero destinati a non emergere mai.

Invece, come ribadito con forza da Adelmo nella sua accorata spiegazione, “i 7 fratelli Cervi hanno dato la vita per i loro ideali di libertà e giustizia. Gelindo, Antenore, mio padre Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore hanno percorso una strada impervia battagliando per la gente, pur avendo avuto una testa che avrebbe consentito loro di scegliere la strada più breve e facile dell'imprenditoria, del profitto e dello sfruttamento delle stesse persone per la cui libertà hanno dato la loro vita”.

E ancora: “Quanti martiri giovanissimi davanti ai quali ci dovremmo sempre inchinare, persino più giovani rispetto a mio padre, morto a soli 30 anni, sono stati dimenticati nei ceppi in memoria delle stragi, alcune ricordate come quelle di Marzabotto e Sant'Anna di Stazzema, ed altre colpevolmente dimenticate. Quanti momenti retorici si sono succeduti e continuano a succedersi in spregio alla memoria ed al rispetto che meriterebbero. Non si può mostrare la nostra considerazione ed estrema gratitudine nei loro confronti facendo minuti di silenzio, imbalsamati dinanzi alle truppe impettite o al solenne suono di una tromba. Al contrario, dovremmo urlare la nostra contrarietà ad ogni oppressione, gridare la nostra opposizione alla repressione ed il nostro caloroso saluto ai martiri della nostra Liberazione”.


Note:

[1] Paolo Nicolai, “I fratelli Cervi”, Editori Riuniti, 1974.

[2] P. Nicolai, Ibidem.

[3] “Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio”, di Adelmo Cervi con Giovanni Zucca. Edito da Piemme Voci, prima edizione 2014.

[4] Citazione di Antonio Gramsci, tratta da ''L'Ordine Nuovo'', 26 aprile 1921.

27/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Eliana Catte

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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