Economia geopolitica: la disciplina del multipolarismo - Parte IV

I capitalisti occidentali hanno scelto il modello liberista e la finanziarizzazione per sostenere i profitti, ma dietro all’esempio della Cina avanza un modello socialmente più sostenibile.


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Continua dalla terza parte.

La lunga recessione e la sue finanzializzazioni

Se lo sviluppo regolato ha stimolato l'età dell'oro, è anche vero che essa è finita verso il 1970. Questa è la principale implicazione del magistrale resoconto di Robert Brenner del "Long Boom", come egli chiama l’età dell’oro, e del Long Downturn [lunga recessione] [22]. La lunga fase di recessione, che affligge il mondo industriale avanzato fino ai giorni nostri, è stata causata dal calo dei tassi di profitto nel settore manifatturiero dovuto alla sovrapproduzione e all'eccesso di capacità produttiva, registrate in concomitanza con la ripresa dell'Europa occidentale e del Giappone, rispetto alle dimensioni della domanda. E la lunga recessione è perdurata, egli sostiene, perché, mentre la prosecuzione dello sviluppo regolato ha aggiunto più produttori, compresa ora la Cina, né le imprese né i governi possono permettere un "massacro dei valori dei capitali" – una svalutazione del capitale in valore se non in termini fisici – nella misura necessaria per riavviare forti investimenti produttivi. Sarebbe insensato, determinando perdite economiche a vantaggio dei concorrenti.

L'espansione della domanda mondiale mediante l’aumento della produttività e del consumo della classe operaia e dei popoli del terzo mondo era la via d'uscita caldeggiata dalla Commissione Brandt. Ciò, tuttavia, avrebbe comportato il rafforzamento di quei soggetti a scapito delle classi capitaliste occidentali. Si è preferito l'alternativa neoliberale: tentare di migliorare la redditività colpendo i redditi dei lavoratori e del terzo mondo. Dopo oltre tre decenni dalla sua attivazione da parte dei nuovi governi negli anni '80, viene alla luce che questo approccio non solo non ha ripristinato la redditività [23], ma ha aggravato il problema di fondo, limitando l’espansione della domanda. Il ventunesimo secolo trova l'occidente afflitto da capitalismi sfibrati e finanziarizzati, con il Giappone in una stagnazione a lungo termine e con le crisi del 2008 e del 2010 che affliggono gli Stati Uniti e l'Europa.

La crescita nel corso del Long Downturn non solo è stata inferiore a quella del Long Boom, ma è stata anche a somma zero e di natura finanziaria. Nel Long Boom praticamente tutti i paesi crescevano insieme, ora, con l’attacco alle classi lavoratrici occidentali e con i mercati interni stagnanti, una parte del mondo industriale avanzato può crescere solo a spese degli altri. Il mondo in via di sviluppo ha subito due "decenni persi" negli anni '80 e '90 nell'ambito dei programmi di adeguamento strutturale del FMI e della Banca mondiale, mentre negli anni '90 le economie di transizione sono state bloccate dalla "terapia d'urto". Infine, nella lunga fase di recessione, la crescita è diventata finanziaria, affidata al rigonfiamento di bolle speculative che sono scoppiate in modo sempre più distruttivo e culminate nelle crisi del 2008 e del 2010. In questa storia, i continui tentativi degli Stati Uniti di salvaguardare il ruolo mondiale del dollaro hanno giocato un ruolo fondamentale.

Tutte le economie capitaliste in stasi sono esposte alla finanziarizzazione in quanto i profitti non vengono investiti in modo produttivo ma speculativo. Tale finanziarizzazione, tuttavia, sarebbe rimasta in ambito nazionale, in assenza della serie di prodotti finanziari denominati in dollari, essenzialmente bolle sulle quotazioni delle attività internazionali, da cui è dipeso il ruolo mondiale del dollaro dopo il 1971 i conseguenti cambiamenti, come la pressione degli Stati Uniti su tutti i paesi per revocare i controlli sui capitali. È così aumentata la domanda speculativa di dollari, compensando la tendenza al ribasso di quella moneta dovuta ai deficit statunitensi.

Poiché le crisi finanziarie hanno messo in ginocchio in tutto il mondo economie solide, la scia di distruzione di queste fianziarizzazioni non solo ha aumentato le critiche al ruolo mondiale del dollaro [24], ma ha spinto i soggetti privati e pubblici che lo detenevano a distaccarsene. Gli alleati più stretti degli Stati Uniti, gli europei, sono stati in prima linea nel mollare il dollaro dalle loro transazioni reciproche, attraverso il lancio del "Serpentone" monetario nei primi anni '70, culminato nell'euro negli anni 2000. Prescindendo dai problemi attuali, l'euro ha aperto la strada a nuovi accordi presi nel ventunesimo secolo, nell’ultima ondata dello sviluppo concorrenziale, da altri paesi, in particolare la Cina e i BRIC, che vanno da accordi bilaterali relativamente modesti, al commercio delle rispettive valute nazionali, alla gigantesca Banca per lo Sviluppo delle Infrastrutture Asiatiche.

Queste iniziative sono concepite per fornire capitali di investimento a lungo termine e non richiedono la liberalizzazione dei movimenti di capitale, potenzialmente pericolosa, come al contrario avviene in Occidente per i capitali a breve termine che richiedono la liberalizzazione, non vengono mai investiti in modo produttivo, gonfiano pericolose bolle speculative ed esigono una costosa copertura assicurativa dei fondi accumulati. Dato che il multipolarismo permette lo sviluppo di nuovi concorrenti e consente a sempre un numero crescente di paesi di rifiutare il sistema del dollaro, oggi si riconosce ampiamente che la supremazia del dollaro nel mondo sia prossima alla fine, tanto che persino il Regno Unito, che è stato il supporto fondamentale del sistema del dollaro, ha compreso che la City di Londra, se vuole continuare a essere un importante centro finanziario mondiale, deve collegarsi alla Cina e al nuovo modello di finanza che rappresenta.

Il potenziale progressivo della fase multipolare

L’antitesi nel ventunesimo secolo tra la crescita della Cina e di altre economie emergenti e la stagnazione nel mondo industriale avanzato non è fortuita, ma profondamente radicata nell'UCD. Mentre tutti i paesi in via di sviluppo e in transizione non sono stati in grado di resistere all'assalto neoliberale durante il Long Downturn, una nuova coorte di economie emergenti è stata capace di impegnarsi in uno sviluppo regolato coronato da successo sia perché si tenevano in gran parte al di fuori dei dettami occidentali, come la Cina, sia per essere in grado di mantenere una certa autonomia dall'agenda neoliberista internazionale, come l'India, o di riconquistarla dopo aver sperimentato i disastri del neoliberismo, come la Russia e l'America Latina negli anni 2000. La crescita nelle economie emergenti sta diffondendo il benessere materiale più ampiamente di quanto avvenuto finora e si mantiene per lo più vigorosa perché queste economie sono considerevolmente meno finanziarizzate e maggiormente concentrate sulla crescita produttiva. La sfida di questi paesi verso l'Occidente è evidente nei principali forum di governance economica internazionale: nelle richieste di riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, nelle situazioni di stallo all'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e nei vertici sul clima, e nella costruzione delle istituzioni finanziarie parallele già menzionate. Lo dimostrano anche le crescenti tensioni militari, in particolare nel Medio Oriente, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale.

Il succo di questi conflitti sta nel fatto che i governi occidentali, in particolare quello statunitense, e le classi capitaliste non sono disposti ad accettare che prosegua lo sviluppo regolato delle economie emergenti e le modifiche ai sistemi di governo economico internazionale che con esso divengono possibili e necessarie, perché minacciano di ridurre le opportunità di fare profitti in gran parte speculativi e parassitari, proprio mentre si va riducendo la speranza di incrementarli. Peraltro ancora inferiori sono le possibilità di evitare tale sviluppo.

Se questi scontri sono costati ingenti perdite di vite e di mezzi di sopravvivenza, la logica che vi sta dietro rivela tendenze assai più incoraggianti. Sembrerebbe che l'accelerazione dello sviluppo regolato abbia creato un mondo in cui la crescita, anche laddove assume forme capitalistiche, possa avvenire solo attraverso modalità più controllate socialmente e all’interno delle nazioni, e quindi anche potenzialmente più democratiche e popolari, con la necessità di regolare maggiormente le attività dei capitalisti. Ciò potrebbe non essere negativo per i lavoratori occidentali, per i paesi in via di sviluppo e in transizione complessivamente e anche per i loro lavoratori.

I capitalismi finanziari dell'Occidente e del Giappone non sono più in grado di produrre una crescita produttiva di ampiezza accettabile. Al momento, la morsa delle classi capitalistiche finanziarie sulla politica sta mantenendo le scelte dei governi occidentali circoscritte a una politica monetaria avente l’unico scopo di fornire liquidità alle stesse istituzioni finanziarie che hanno causato la crisi, in modo che possano continuare a realizzare l'unica forma di profitto di cui ora sono capaci, la speculazione, mentre l'economia produttiva e i livelli di occupazione languiscono e la povertà e le disuguaglianze salgono alle stelle. Questa politica inaccettabile è giustificata pubblicamente con chiacchiere sull’idoneità della politica monetaria a cambiare i livelli di attività economica e sulla necessità che la crescita si attesti intorno alle strettoie delle compatibilità della politica monetaria. Queste chiacchiere servono a tenere a bada l'unica alternativa in grado di rilanciare un’ampia crescita produttiva, cioè un massiccio programma di spesa e investimenti pubblici, per il semplice fatto che ciò equivarrebbe a interventi governativi di dimensioni talmente imponenti da rimpiazzare i capitalisti alla guida dell'economia. È improbabile che questa percezione rimanga confinata nei circoli dominanti: la spinta delle circostanze è destinata a portarla nelle strade di Atene e Madrid tanto quanto nelle trascurate aree post-industriali declinanti delle città statunitensi. Molti intellettuali e organizzazioni stanno già chiedendo tali investimenti nei settori dell’ambiente, della creatività e della cultura.

Nelle economie emergenti, la crescita costante dovrà coinvolgere l'espansione della domanda delle rispettive classi lavoratrici, mentre i mercati occidentali si esauriscono e, naturalmente, altri mercati vengono maggiormente protetti.

La dirigenza cinese sembra aver compreso più chiaramente questa evidenza: è impegnata in una serie di iniziative per espandere la domanda interna, a cominciare dal boom degli investimenti post 2008, continuando negli ultimi aumenti salariali, e culminando di recente negli ambiziosi piani per promuovere lo sviluppo verso il finora trascurato occidente come parte della sua nuova Via della Seta e delle Migliori Iniziative. Il suo successo ha reso l'esempio cinese molto influente nelle capitali delle economie emergenti. Non solo: la forza delle circostanze sta indirizzando le élite di tali nazioni in una direzione simile. Ciò può avvantaggiare i lavoratori dei paesi in via di sviluppo e in transizione e la maggior parte dell'umanità, offrendo ulteriori possibilità di successo alle loro lotte per il miglioramento materiale e culturale.

(fine)


Note:

[22] Robert Brenner, The Economics of Global Turbulence: The advanced capitalist economies from long boom to long downturn, 1945–2005, London, Verso, 2006 e What is good for Goldman Sachs is good for America: the origins of the current crisis, 2009, www.sscnet.ucla.edu/issr/cstch/papers/BrennerCrisisTodayOctober2009.pdf (accesso 21/09/12).

[23] Alan Freeman, The Profit Rate in the Presence of Financial Markets, Australian Journal of Political Economy, no. 71, pp. 167-192.

[24] Tra le principali quelle del Governatore della Banca Popolare Cinese Xiaochuan Zhou, Reform the international monetary system, Pechino, People’s Bank of China, 2009.

16/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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