La normalizzazione della precarietà

Quanto più le nuove generazioni incontrano difficoltà nel trovare un reddito per la loro autonomia, tanto più la “famiglia” svolge, per incanto automatizzato dall’abitudine, il suo ruolo di tana-rifugio o ammortizzatore, contribuendo a scongiurare possibili disordini sociali.


La normalizzazione della precarietà

Rendere incerto l’accesso al lavoro, la sua continuità, la sua retribuzione rende incerte le prospettive future e di conseguenza la personalità, gli affetti, le scelte, la volontà, tanto da far apparire inutili gli interessi, la cultura, l’impegno, vana la militanza politica per il superamento della distruttività aggressiva dello stato di cose presente. La mancanza di ogni garanzia contributiva ai fini pensionistici o sulla durata dell’impiego impedisce spesso al precario di accedere anche a beni primari come la casa, dal momento che le banche gli negano prestiti o mutui. Ciò a ulteriore dimostrazione che il lavoro precario non offre solide garanzie per il futuro, anche per il costo ridotto connesso alla fattispecie contrattuale di collaborazione, e non già di dipendenza, che è il perno attorno a cui verte l’aumento di estrazione di plusvalore (relativo e assoluto) che, dato il tendenziale assottigliamento del saggio di profitto, diviene cruciale per la sopravvivenza stessa del modo di produzione capitalistico.

Le imprese possono usare, gettare, scambiare in un turbinio continuo i lavoratori, spremendone l’attività erogata per retribuzioni minime e parziali, in cambio di un plusvalore ceduto in un apposito transito continuo. Non a caso il circuito aziende-indotto potrà in particolare beneficiare di un mercato sottopagato e nomade della forza lavoro, che evidenzi col suo solo confronto la stabilità invidiabile degli occupati selezionati come assolutamente affidabili, leali, incuranti cioè di ogni loro diritto e sposati alla dedizione totale all’azienda. La riduzione di masse a mera flessibilità, astratta funzione delle leggi dell’accumulazione, consente contemporaneamente: a) l’assoluta identificazione del lavoro con l’organizzazione esistente, nell’esclusione di qualunque elaborazione, e/o conservazione di polarità alternativa (organizzativa, coscienziale, culturale); b) la massimizzazione del tempo di pluslavoro, che permette alle imprese di concorrere così per le migliori postazioni nella lotta tra capitali o tra multinazionali a basi differenziate.

Avendolo indebolito economicamente, la flessibilità indebolisce il lavoratore anche psicologicamente, poiché la forza di una persona poggia anche nella sua possibilità di appagare i propri bisogni, di espanderli, di crescere con essi e di parteciparli con la propria famiglia. Dal punto di vista esistenziale il lavoratore irregolare è costantemente sospeso fra un’occupazione generalmente poco soddisfacente e il baratro della disoccupazione [1]. Ciò consente all’acquirente di tale forza lavoro di ridurre al minimo le spese per la sua riproduzione il che, dal punto di vista esistenziale del lavoratore, comporta la riduzione delle proprie condizioni di vita al di sotto di quelle del livello medio degli occupati. L’integrazione spesso indispensabile a tali lavoratori per potersi riprodurre è affidata alle forme morali aleatorie dei nuclei familiari.

La quantità di valore destinato alla vita delle masse soggette a salarizzazione non dev’essere calcolato solo nella busta paga individuale. Il salario, infatti, apparentemente rappresenta la remunerazione di un singolo lavoro erogato, mentre in realtà è comprensiva anche di tutta quella quota di popolazione inoccupata o sottoccupata dell’esercito industriale di riserva. Questa distribuzione è effettuata secondo i meccanismi sociali “scelti” individualmente, in primo luogo quelli familiari (tradizionale nucleo redistributivo del reddito di uno o pochi membri a sostegno di bambini, anziani, malati, inabili), amicali, affettivi, solidaristici, caritatevoli, ecc. La “centralità della famiglia” al posto di quella del lavoro, permette allora di toccare con mano la vera materialità di tanto messaggio spirituale o divino: ripartizione a consenso coatto di poco reddito con altri soggetti da questo dipendenti, carico di lavoro gratuito (per lo più gravato sulle più docili spalle femminili) percepito come fato quotidiano di un generico vivere o sopravvivere, allevamento, assistenza, aiuto, ecc. interno al nucleo, “senza oneri per lo stato”, infine luogo privilegiato della formazione e riproduzione della forza-lavoro e del suo consenso passivo. Quanto più le nuove generazioni incontrano difficoltà nel trovare un reddito sufficiente per la loro autonomia, tanto più la “famiglia” svolge, per incanto automatizzato dall’abitudine, il suo ruolo di tana-rifugio o ammortizzatore – sopperendo con i salari o le pensioni delle generazioni precedenti per scongiurare possibili disordini sociali. Concorre al mantenimento di questa stabilità anche la ripartizione, sotto silenzio, delle pensioni degli anziani, qualora non siano così minime da risultare un’altra mortificante insufficienza. Altrimenti il salario differito, percepito in un’altra fase, viene a sostituire per osmosi il mancante reddito giovanile in questa, e costituisce pertanto il dovuto sostegno alla precarizzazione, accettata come la pestilenza attuale, con rassegnazione cristiana. Gli “untori” poi, si incaricano di capovolgere la realtà: l’invecchiamento della popolazione è causa degli scarsi salari, i giovani devono mantenere i vecchi, devono lavorare di più, non ci sono fondi, ecc.. Ma questi giovani mediamente non avranno pensioni, le loro retribuzioni a singhiozzo potranno al più ingrassare qualche fondo pensione, in modo tale che il salario da differire è già preventivamente impegnato negli investimenti produttivi dei capitali [2].

D’altra parte il lavoratore precario difficilmente potrà avere una famiglia propria senza altri aiuti, che comportano la riproduzione meccanismi familistici deteriori, o di nuovo senza rivolgersi al “mercato” del secondo lavoro, in nero. Il precario medio è infatti single (uomini e donne) più per necessità che per scelta. I rapporti familiari si deteriorano soprattutto per la mancanza del tempo da dedicare a essi. Flessibilità e precariato favoriscono la precarizzazione o frammentazione dei rapporti familiari e di relazione, con conseguente disarticolamento sociale. Del resto, in quanto sovente slegato da legami familiari, il precario, uomo o donna che sia, è infatti più appetibile per il mercato del lavoro, in quanto ha meno vincoli e non ha praticamente tutele di alcun tipo. È il lavoratore più ricattabile, sfruttabile e facilmente licenziabile.

La presenza in Italia di redditi mediamente più bassi, sia in valore assoluto che in termini di potere d'acquisto, rispetto a altri paesi del nord Europa – ancora più accentuata proprio tra i lavoratori precari – comporta l'impossibilità di affrontare con un reddito sufficiente i periodi di disoccupazione e ricerca di nuovo lavoro successivi a un mancato rinnovo del contratto [3], costringendo ad accettare lavori ancora meno professionalizzanti e remunerativi, necessari per sopravvivere, mantenendo almeno la parvenza della propria indipendenza. In tal modo il percorso lavorativo si sgretola in una sequela di impieghi sottopagati e sempre più flessibili, accettati obtorto collo pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando quindi una forma di retroazione che accentua ulteriormente l’insicurezza e gli altri problemi derivanti dalla precarietà. A questo scopo con l’introduzione della Flexicurity si è puntato a spostare l’equilibrio delle tutele dal rapporto di lavoro (ovvero dalla protezione nei confronti dei licenziamenti) al mercato del lavoro (politiche attive e sussidi di disoccupazione).

D’altronde la maggiore adattabilità dei giovani, la minore esigenza di specializzazione e la svalutazione dell'esperienza professionale, per aderire al mercato flessibile, ha portato a un sensibile abbassamento dell’età lavorativa. Vittime predilette dei downsizing, i lavoratori di una certa età, che sino a pochi anni fa erano considerati un patrimonio per la propria azienda, sono spesso liquidati in quanto dotati di un coefficente di flessibilità troppo basso [4]. La nuova generazione, la più legata a questo “nuovo” contesto lavorativo, è la più soggetta al malessere esistenziale che si va diffondendo. A fare il check-up delle condizioni in cui versa il lavoro sempre meno atipico e, soprattutto, delle conseguenze per i lavoratori così impiegati è l’invecchiamento precoce. Si è diffusa una intensificazione e densificazione dell’attività lavorativa – per esempio, mediante la soppressione di ogni pausa nell'orario – che rendono obbligata la flessibilità perché solo personale giovane, che non superi i 30 anni può reggere certi ritmi; il rischio è che si formino sacche sempre più ampie di cittadini tenuti ai margini del mondo del lavoro perché non più giovani e abbastanza flessibili o in quanto sprovvisti di una adeguata e riconosciuta competenza professionale. D’altra parte i lavoratori flessibili e precari sono soggetti a maggiori rischi, hanno condizioni di lavoro più scadenti, raramente ricevono una formazione adeguata su salute e sicurezza e lavorano a ritmi decisamente elevati.

 

Note:

[1] La forza lavoro precaria è in effetti, in quanto tale, costantemente sottoposta al ricatto di finire nella disoccupazione. Perciò il padronato tende a richiedere da essa il massimo del tempo di lavoro in cambio di un livello minimo della retribuzione.

[2] Come è possibile far credere che un individuo che ha uno stipendio da sopravvivenza, magari senza contributi (poiché di questo particolare nuovo in giro se ne vede tanto), si trovi meglio di un individuo che ancora oggi, proprio perché impiegato nei tempi del vecchio, guadagna ancora decentemente?

[3] Condizione invece abituale in quei paesi dove i redditi sono mediamente più alti soprattutto tra i lavoratori flessibili.

[4] Inutile sottolineare come tale aspetto rivesta una particolare drammaticità – psicologica e sociale – in considerazione del corrispondente innalzamento dell'età “reale” delle popolazioni dei paesi capitalis

05/11/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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