Le mistificazioni del Jobs Act alla prova dei dati

A diversi mesi dall’entrata in vigore dell’ennesima riforma del mercato del lavoro, i dati mostrano chiaramente la mistificazione dei proclami governativi. L’occupazione non cresce affatto, si trasformano soltanto i contratti che mantengono sostanzialmente invariata la precarietà dei rapporti di lavoro, in ossequio ai desiderata del padronato nazionale e della sua strategia di uscita capitalistica della crisi.


Le mistificazioni del Jobs Act alla prova dei dati

A diversi mesi dall’entrata in vigore dell’ennesima riforma del mercato del lavoro, i dati mostrano chiaramente la mistificazione dei proclami governativi. L’occupazione non cresce affatto, si trasformano soltanto i contratti che mantengono sostanzialmente invariata la precarietà dei rapporti di lavoro, in ossequio ai desiderata del padronato nazionale e della sua strategia di uscita capitalistica della crisi.

di Carmine Tomeo

La macchina che dovrebbe condurci fuori dal tunnel asfittico della disoccupazione è ripartita? Nient’affatto. I dati Istat, impietosi e freddi come sanno essere i numeri, sanzionano ancora una volta il fallimento del Jobs act sul piano occupazionale.

Ricordate, a maggio, quando Renzi ed il ministro Poletti si inventarono l’aumento dell’occupazione? Renzi dichiarò appunto che «la macchina finalmente è ripartita. Dopo cinque anni di crollo costante, tornano a crescere gli occupati». Aveva spacciato le trasformazioni contrattuali (da contratto precario in contratto a tempo indeterminato) con l’aumento degli occupati. L’imbonitore di Palazzo Chigi aveva preso a riferimento i dati Inps, che appunto registrano l’attivazione di nuovi contratti e non i nuovi occupati. Si era sotto elezioni e la mistificazione dei dati era funzionale alla campagna elettorale.

I dati Istat, in realtà, lo smentivano clamorosamente, registrando, nel bollettino di aprile, 59 mila occupati in meno rispetto a febbraio. Il Jobs act, approvato tra l’entusiasmo di Renzi ed un brindisi con Marchionne, non aveva prodotto alcun effetto positivo sull’occupazione. Si poteva avanzare la giustificazione che era ancora presto perché il Jobs act potesse sortire effetti. Ed infatti il ministro del Lavoro lo afferma ancora oggi. Poletti sostiene che siamo in «una situazione non ancora stabilizzata», nella quale si riscontrano ancora «elementi di problematicità». Il Ministro del Lavoro è costretto ad arrampicarsi sugli specchi perché l’Istat certifica, anche per il mese di maggio, un calo degli occupati: sono andati persi 63 mila posti di lavoro.

E non finisce qui. Perché a leggere i dati del sistema informativo delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro, si nota che negli ultimi quattro mesi sono costantemente cresciute le cessazioni di contratto a tempo indeterminato, passando da poco meno di 120 mila a febbraio ad oltre 150 mila a maggio. Contestualmente le attivazioni di contratti a tempo indeterminato sono costantemente diminuite: così, mentre a gennaio si registravano 165 mila nuove assunzioni a tempo indeterminato, a maggio sono calate a 153 mila (meno del 20% del totale delle attivazioni di contratto, rappresentando così il dato peggiore da inizio anno).

Eppure il Jobs act aveva avuto in Marchionne uno sponsor d’eccezione. Ricordate? L’Ad di FCA sosteneva che lo stimolo dato dalla riforma del lavoro avrebbe dato nuovo impulso alle assunzioni, tanto che lui stesso si era spinto a promettere centinaia di nuove assunzioni. E invece la nuda e cruda realtà dimostra esattamente il contrario e l’unico effetto che il Jobs act è riuscito ad ottenere è la trasformazione di qualche migliaio di contratti precari in contratti a tempo indeterminato.

Risultato positivo? Non proprio, dal momento che con il Jobs act il contratto a tempo indeterminato è solo un altro nome dato alla precarietà. Lo confermano i consulenti del lavoro, intervistati nel corso del Festival del Lavoro per conoscerne il giudizio sul Jobs Act. I consulenti del lavoro, riuniti in convegno a Palermo dal 25 al 27 giugno scorsi, hanno evidenziato che il Jobs act non ha prodotto nuove assunzioni, ma solo trasformazioni di vecchi contratti. Soprattutto, però, nel rapporto del sondaggio effettuato, si legge che «il 71% del campione ritiene che alla fine del periodo di agevolazione si ritornerà ai livelli occupazionali precedenti o a ulteriori forme di precariato». Se lo affermano consulenti che - come si legge nel rapporto - assistono la maggior parte delle imprese e gestiscono circa 7 milioni di rapporti di lavoro, si può credere che la previsione sia attendibile.

E allora, a cosa serve il Jobs act? Lo diceva Visentin, vicepresidente di Federmeccanica: «il contratto a tutele crescenti può essere usato per sostituire i tanti contratti precari di qualche tempo fa», che erano usati «per tenere bassi i costi». Insomma, il Jobs act serve a ridurre i diritti, ad aumentare il controllo del padronato sul lavoro ed in sostanza ad aumentare il saggio di sfruttamento sul lavoro.

Per tentare di uscire dalla crisi, ma da una prospettiva capitalistica. Contro questa prospettiva servono a poco le formule per aggregare qualche nome e qualche soggetto politico, se intanto non si pone la questione della scelta da fare di fronte al bivio in cui ci troviamo: radicalizzare la lotta anticapitalista o rimanere schiacciati nella morsa stretta da crisi e aumento delle condizioni di precarietà. Il padronato ha già scelto. Noi cosa aspettiamo?

05/07/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carmine Tomeo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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