Le recessioni sono comuni, le depressioni rare

Il blocco sociale che stava alla base del neokeynesismo è destinato a un drastico ridimensionamento.


Le recessioni sono comuni, le depressioni rare

Prendendo in prestito le parole dell’economista P. Krugman, spieghiamo come il blocco sociale che stava alla base del neokeynesismo è destinato a un drastico ridimensionamento e, con esso, verranno meno anche numerosi ammortizzatori sociali. Non si tratta di una profezia ma di leggere la realtà per quella che è, a partire dai decreti attuativi del Jobs Act.

di Federico Giusti

Con il pareggio di bilancio in Costituzione, il bilancio pubblico e il controllo dell'economia è stato trasferito dai parlamenti nazionali a organismi sovranazionali; da qui nasce la continua riduzione della spesa sociale, il ridimensionamento del welfare, l'aumento dei costi di servizi sanitari accessibili, peraltro ad un numero sempre piu' ristretto di potenziali utenti.

L'euro è stato lo strumento con cui l'Europa, a guida tedesca, ha costruito politiche neoliberiste di austerità, da una parte, e, dall'altra, di espansione dei capitali, evitando che i paesi piu' deboli usassero la leva della svalutazione della moneta nazionale per riconquistare competitività.

Di qui, non solo la supremazia tedesca ma anche la destinazione dei risparmi nazionali a solo vantaggio delle imprese, dunque non verso politiche di sostegno al reddito e alla domanda, nè di supporto al debito statale.

La sovraccumulazione di capitale non prende la strada del sostegno alle politiche del lavoro, anzi, l'ampliamento di alcuni ammortizzatori sociali è finanziato con la contrazione degli stessi in termini di durata, il che si ripercuote negativamente sulla forza lavoro delle imprese poco competitive e sancisce l’espulsione dal mercato del lavoro di una manodopera vicina alla pensione con ampio ricorso ai part time .

La circolazione dei capitali è indirizzata a politiche diametralmente opposte a quelle keynesiane: nella fase attuale i capitali sono indirizzati prevalentemente alla costruzione di una area di mercato transazionale e per questo sempre meno risorse sono indirizzate al welfare e alle politiche attive del lavoro. Anzi, i settori pubblici o vengono privatizzati oppure subiscono linee guida che stravolgono il carattere pubblico degli stessi servizi (esempio eloquente è la sanità).

In questo scenario, a livello nazionale i vari governi intraprendono politiche dettate dalla riduzione del potere di acquisto, dal ridimensionamento del sindacato e dalla ridefinizione dei modelli di welfare, riducendo complessivamente i soldi destinati allo stesso ma ridefiniscono al contempo la platea dei destinatari. Capiamo le ragioni dei sostenitori del reddito minimo sociale ma non possiamo condividerne l'entusiasmo.

Scrivere che va affermandosi un welfare realmente universalistico è un nonsense soprattutto in una società dove si restringono gli spazi di agibilità e di democrazia partecipativa. Gli ammortizzatori sociali oggi sono inadeguati perchè non raggiungono tutti i soggetti sociali (non a caso i precari della conoscenza sono stati esclusi dalla dis-coll) ma non siamo convinti che di per sè il reddito minimo sociale (pagato con una disoccupazione di massa, con il lavoro volontario e lo smantellamento dei contratti nazionali) determini uno spazio di solidarietà collettiva rivolto alle svariate forme di impiego e di lavoro.

Ci viene quindi il dubbio (o la certezza) che alcuni dei sostenitori del reddito minimo siano piu' in linea con l’idea di quello Statuto dei nuovi lavori (la pensata risalente al 2002 a firma Treu - Amato) che con la difesa delle tutele esistenti e la loro estensione a tutte le forme lavorative oggi esistenti.

Da qui a negare la necessità del reddito minimo corre grande differenza ma è troppo chiedere ai sostenitori di questa misura un po' di attenzione alle ragioni e alle cause reali che porteranno alla sua approvazione?

Ridurre la spesa sociale significa anche evitare che i soldi pubblici vadano a incrementare la domanda e il welfare perché il capitalismo di oggi non ha bisogno di queste misure per affermare i suoi interessi; da qui la crisi del modello keynesiano e del blocco sociale di riferimento, da qui nasce l'elogio della precarietà per affermare una nuova classe lavoratrice ricattabile, senza tutele e senza sindacato. Una nuova idea di lavoro, di impresa e di cittadinanza potrà nascere dalla deregolamentazione del diritto del lavoro e da una democrazia bonapartista incarnata dal partito della nazione?

Contrariamente a quanto scrivevano alcuni (Negri in primis) non sono scomparsi gli stati nazione che oggi sono impegnati soprattutto nel promuovere politiche di deregolamentazione giuslavorista - quindi, lungi dallo scomparire, gli stati nazionali hanno ridefinito ruoli e funzioni nella fase di sovra accumulazione (di capitali e di merci).

Provare a dimostrare la fondatezza delle ricette neokeynesiane è un esercizio diffuso tra gli intellettuali di sinistra; noi sappiamo che favorire la domanda sarebbe sicuramente preferibile a politiche di austerità ma si dimentica che in una certa fase storica è stato lo stesso capitalismo a sposare quelle teorie keynesiane oggi inadeguate a superare le contraddizioni sistemiche.

Numerosi intellettuali, invece di analizzare il modo di produzione capitalista, si fermano solo alla fase distributiva e sognano i bei tempi andati, assumendo caratteristiche nostalgiche al pari di chi oggi rimpiange la rivoluzione socialista e ritiene che la soluzione ad ogni contraddizione sia la rinascita di un partito comunista senza prima discutere di programmi, finalità dello strumento organizzativo.

Le fusioni di imprese hanno bisogno di una deregolamentazione giuslavorista, di ridurre il potere di acquisto e di contrattazione sindacale e parliamo di processi che avvengono a livello europeo pur avendo alcune accelerazioni nei Paesi meno competitivi del vecchio continente dove l'austerità sta producendo danni sociali incalcolabili, oltre a ridurre sul lastrico l'economia nazionale regalando a prezzi di favore quote azionarie e aziende a multinazionali dei paesi piu' avanzati.

I Paesi europei ormai fanno a gara per favorire le condizioni migliori per l'arrivo dei capitali, non importa ai governanti locali se tutto cio' si traduce nella desertificazione economica di intere regioni, nello sfruttamento selvaggio delle locali risorse\forza lavoro, nell'uso di una tecnologia sempre piu' esasperata dalla quale dipende la tenuta futura del modello di produzione capitalista. Per ripianare le contraddizioni sociali, in ogni caso, c'è sempre una legislazione di emergenza utile a criminalizzare opposizione e dissenso, del resto basterebbe guardare alle migliaia di condannati per reati che vanno dai blocchi stradali alle occupazioni di casa.

Per queste ragioni, in ogni Paese, troveremo interventi analoghi a quelli del Jobs Act, con politiche fiscali che gravano sui redditi da lavoro dipendente a solo vantaggio della libera circolazione di capitali. Analogo discorso va fatto per le legislazioni che si accaniscono contro il diritto di sciopero e limitano fortemente il diritto alla circolazione e a manifestare.

Una ulteriore specificità dell’attuale transnazionalizzazione del capitalismo è la intrinseca difficoltà per un governo nazionale ad impedire i trasferimenti delle proprietà nei paradisi fiscali che, a scanso di equivoci, oggi non sono piu' solo isole o staterelli, perché paesi con Irlanda, Gb, Olanda e Lussemburgo svolgono da tempo questo ruolo con politiche fiscali particolarmente favorevoli. L’UE, infatti, come gruppo imperialistico è unita nell’attacco ai lavoratori, ed è divisa nel momento in cui si spartisce il bottino rapinato alla classe operaia.

Gli stati nazionali rinunciano alla loro tradizionale sovranità e fanno a gara per offrire migliori condizioni alle imprese, da qui nascono le cessioni di aziende e quote azionarie a capitalisti stranieri (nel frattempo i capitali nazionali vanno verso l'acquisizione di aziende straniere ritenute strategiche, nel controllo dei corridoi energetici..), con l'inevitabile sequela di licenziamenti e fusioni, con porzioni di territorio preda della disoccupazione di massa e della desertificazione industriale. Ridurre la sovraccumulazione, del resto, è vitale per superare la crisi del modello capitalistico, anche se determinerà chiusura di tante fabbriche e perdita di migliaia di posti di lavoro.

In questo scenario anche rivendicare maggiori ammortizzatori sociali rischia di diventare un lusso insostenibile, non perché non ci siano soldi ma perché questi capitali vengono indirizzati ad altro scopo, al controllo delle aziende e al loro carattere transazionale.

31/12/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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