Opere pie e capitalismo

Un’esperienza che facciamo quotidianamente, da semplici cittadini, è di non capire ciò che accade ai piani alti dell’edificio economico-finanziario, di provare un’inquieta estraneità verso gli intrecci dell’alta finanza con settori della società civile.


Opere pie e capitalismo Credits: @Fabio Trifirò

Gli economisti borghesi diffondono la convinzione che le questioni economiche «siano squisitamente tecniche, per cui i comuni mortali non possono capirle e quindi è meglio che le lascino ai banchieri, ai tecnocrati e agli imprenditori». Al contrario il presente articolo intende mostrare quanto sia importante che anche i «comuni mortali» riflettano sull’incrociarsi di funzione caritatevole, impegno sociale, appartenenza al terzo settore no profit e attività speculativo-finanziaria.

di Renata Puleo 

«La legge diventa regola a validità limitata, si dissolve di fronte ai mercati e alle convenzioni» Alain Supiot.

«Gli economisti hanno ceduto alla tentazione della legge, la legge dell’economia come capitalismo, come se si trattasse della legge di gravitazione universale» Frédréric Lordon. 

Un’esperienza che facciamo quotidianamente, da semplici cittadini, è di non capire ciò che accade ai piani alti dell’edificio economico-finanziario, di provare un’inquieta estraneità verso gli intrecci dell’alta finanza con settori della società civile.
Come dice Yanis Varoufakis, ministro greco delle finanze a tutti noto, gli economisti stessi diffondono la convinzione che le questioni economiche «siano squisitamente tecniche, per cui i comuni mortali non possono capirle e quindi è meglio che le lascino ai banchieri, ai tecnocrati e agli imprenditori» (Y. Varoufakis, È l’economia che cambia il mondo, 2015).
Nel merito, vorrei provare a dire qualcosa di quel che ho capito sui rapporti che molte fondazioni intrattengono con l’universo finanziario. 

Ci è capitato spesso, come Gruppo NoINVALSI, di citare la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo fra le associazioni, i gruppi confindustriali, e le fondazioni appunto, che forniscono suggerimenti di governance sulle politiche scolastiche, sull’autonomia, sull’accountability (senso di responsabilità), sulla valutazione. Tutti contributi di cui l’Istituto INVALSI fa uso per auto-legittimarsi come ente unico di controllo e di indirizzo sul sistema scolastico pubblico, anche al disopra dello stesso MIUR e del Parlamento, come ci insegnano le vicende di questi giorni.
Cito un esempio di suggerimento: «La scuola oggi è didattica, non è altro che didattica, e non ha soldi, non può scegliere gli insegnanti, non può decidere l’organico, cioè non può fare le cose essenziali di una scuola autonoma, per cui si parla solo di didattica e la didattica la fanno i docenti e allora […] il dirigente serve a poco». Così, nel 2005, scriveva Attilio Oliva, coordinatore del settore ricerche dell’associazione TREELLLE, altro infausto suggeritore del MIUR-INVALSI, su una pubblicazione a cura della Scuola della Compagnia di San Paolo. Inutile sottolineare le convergenze fra questa incolta prosa e i testi de La Buona Scuola e del Ddl 2994 che ne è seguito. 

La Compagnia di San Paolo di Torino, si evince visitando il suo sito, ha assunto una fisionomia plurale, non facilmente indagabile sul piano degli scopi e delle modalità di azione. Nata nel 1563 come Confraternita, si trasforma a fine Ottocento in Opera Pia, esigenza dettata probabilmente dai nuovi assetti nel rapporto Stato-Chiesa, si stabilizza come Istituto di Credito nel 1932, rientra nel novero delle fondazioni bancarie con il riordino del 1990, una legge-delega che regola la relazione fra enti “conferenti” (che investono parti del loro patrimonio in azioni) e banche “conferitarie” (che lo ricevono e gestiscono in base a logiche interne). Ed è sull’incrociarsi di funzione caritatevole, impegno sociale, appartenenza al terzo settore no profit e attività speculativo-finanziaria, che vorrei provare a soffermarmi. Ricordo infatti che il tema della messa a valore della conoscenza, dell’istruzione e dell’educazione, la rendita di profitto che la scuola può offrire al capitale, è quel che più inquina il percorso legislativo de La Buona Scuola

Il 24 aprile scorso, il quotidiano Il Sole 24 Ore, organo della Confindustria, si diffondeva, dalla prima pagina a quelle interne, nell’analisi dell’accordo siglato il 22 aprile dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e dall’Associazione Fondazioni e Casse di Risparmio (ACRI). Si tratta di un protocollo che stabilisce nuove regole sull’attività di indebitamento, investimento e valorizzazione del patrimonio delle fondazioni sul mercato delle azioni bancarie. Fra le 42 fondazioni più esposte, con oltre un terzo del proprio capitale investito in azioni, c’è la fondazione torinese, la cui principale banca conferitaria è Intesa San Paolo. Una manchette del giornale spiegava ai lettori che una fondazione “di origine bancaria” (che “converge” verso una banca diventandone azionista) è una persona giuridica autonoma, che persegue scopi sociali senza fini di lucro. Poiché in questi dieci anni tale scopo si è affievolito ed è prevalso l’aspetto di impegno finanziario con un eccesso di concentrazione di capitali, spesso su un unico istituto bancario (la Compagnia di San Paolo verso Intesa San Paolo), l’accordo mira a quello che si chiama “riposizionamento” su investimenti differenziati, con effetti di “ribilanciamento” sul mercato azionario.
Il quotidiano commentava con grande favore l’accordo, sottolineando, come è costume di questo foglio, la capacità del capitale di mostrare il suo lato buono, eticamente corretto, in grado di accettare regole che ne controllino gli eccessi da locusta, facendo prevalere, nel caso della fondazione di cui parlo, l’aspetto originariamente cristiano-caritatevole. Per inciso va ricordato che di accordo si tratta, dunque di “autoriforma”, una sorta di patteggiamento volontario con lo Stato. E, sempre per inciso, è bene riportare alla nostra scarsa e, come dicevo, purtroppo poco informata memoria, proprio il nodo assai stretto che unisce settori molto influenti della Chiesa Cattolica al capitale e alle sue logiche. 

La Chiesa stabilizza, alla fine dell’Ottocento, il significato del termine “sussidiarietà” come intervento sociale atto a bilanciare quello dello Stato, un’accezione poi accettata dal diritto pubblico che così definisce la partecipazione economica del cittadino all’erogazione di prestazioni pubbliche, oltre la normale contribuzione fiscale, come vero e proprio tributo integrativo. Nell’Enciclica De Rerum Novarum (intorno alle nuove questioni) del 1891, la Chiesa si dichiara garante dei rapporti fra famiglie e Stato, Stato che non deve eliminare, con la sua azione di governo sulle questioni sociali (salute, lavoro, scuola), l’intervento legittimo di altri settori della società civile in questi ambiti. Credo di non azzardare se collego il principio di sussidiarietà allo spirito che informa la nascita del terzo settore, del no-profit, delle organizzazioni non governative, soprattutto di matrice cattolica.
Anche la lingua rende conto di questa progressiva veridizione (ricorso ad un principio di Verità non discutibile) del mercato, sistema e fondamento giuridico che regola ogni rapporto fra soggetti. Leggo sul sito della Compagnia di San Paolo che la sezione “Impegni Sociali” persegue come obiettivo la «massimazione degli effetti» e il raggiungimento di «un’economia di scala» delle azioni intraprese (aumento della produttività per dimensioni di impianti, con diminuzione dei costi totali). Come la fondazione raggiunga tale obiettivo lo abbiamo visto: investimenti azionari, giochi di borsa, acquisto di derivati (i dispositivi il cui valore viene dalla gestione dei rischi su obbligazioni, divise, su prodotti soggiacenti, insomma). 

Il giurista Alain Supiot, parlando della situazione francese, stigmatizza come beneficienza e assicurazione, la prestazione privata comprata dal singolo sul mercato finanziario per coprire i rischi che caratterizzano la vita, siano andate di pari passo con l’indebolimento dell’intervento sociale da parte dello Stato. La solidarietà famigliare, territoriale, di appartenenza a comunità di pensiero e religiose, viene svilita, intaccata rispetto ai suoi scopi morali, sostituita dalla modalità privata di copertura del rischio. La privatizzazione e la individualizzazione, accompagnate dal calcolo economico-statistico, invece di essere una risorsa aggiuntiva contribuiscono ad erodere la solidarietà sociale che si basa sulla contribuzione in rapporto al reddito, per «tutta la comunità». Scrive Supiot: «Riducendo o sopprimendo questi vantaggi per le classi medie [sicurezza sociale, lavoro, salute, istruzione pubbliche] le recenti riforme ci riportano a un sistema di assistenza ai poveri». La sostituzione della funzione statale avviene dunque nel legame fra beneficienza e moltiplicazione del profitto generato dai compiti di assistenza che il capitale privato si assume. 

Ma torno al giornale. Un commento in prima ci informa che negli ultimi dieci anni di vita delle fondazioni il «vuoto della politica ha favorito le operazioni più scellerate [delle fondazioni] […] vuoto di controllo […] dissesti clamorosi» (sic) e ora è doveroso operare mediante «forme di governance omogenee, adeguate alla natura no profit e di utilità sociale». Una svolta, come afferma anche il Ministro Padoan che, presentando alle Commissioni Bilancio riunite il Documento di Economia e Finanza (DEF) ha definito l’accordo MEF-ACRI un nuovo assetto che «libera risorse per la collettività». Certo, ad una compagine governativa che da mesi gioca sulle cifre, che ammette di aver dovuto operare innumerevoli “errata corrige” sul DEF (per IVA, detrazioni, e io aggiungo anche per il bilancio dei singoli ministeri, tra cui il MIUR), che ha acquistato derivati andando in perdita (ne ha parlato in questi giorni la trasmissione Report), non si può più credere «solo sulla parola», come commenta Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, il 29 aprile. 

Per concludere, completo la citazione di Supiot posta in esergo. «Il paradigma del mercato mostra la sua influenza su tutto l’insieme delle scienze e delle pratiche sociali, in modo così profondo da configurarsi come sistema di regole spontanee di relazione umana, applicabile ad ogni ambito della vita. La famiglia, la scuola – continua il giurista – devono lavorare congiuntamente alla formazione del capitale umano in modo da rendere fruibile l’uso delle competenze che esso esprime» (A. Supiot, Homo juridicus, 2005).
Un ambito privilegiato di intervento per quell’ampio arco di associazioni e di fondazioni che, attraverso la maschera dell’impegno sociale, supportano le strategie neoliberiste. Ai governi non spetta altro compito che prendere accordi di natura bilaterale, la cui scrittura è frutto di una giustizia patteggiata.

09/05/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: @Fabio Trifirò

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L'Autore

Renata Puleo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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