Il nuovo crollo delle borse in Cina: un’analisi critica

A distanza di sei mesi i mercati finanziari internazionali ripiombano nel panico a causa del crollo delle borse cinesi.


Il nuovo crollo delle borse in Cina: un’analisi critica Credits: Licenza CC 2.0 su https://www.flickr.com/photos/aarongoodman/3640971950

A distanza di sei mesi i mercati finanziari internazionali ripiombano nel panico a causa dei ripetuti crolli dei titoli sulle borse cinesi. Ma ad una più attenta analisi dei fattori reali in campo e del contesto generale, gli allarmismi largamente diffusi a livello mediatico appaiono non del tutto giustificati e “sospetti” di servire da strumento per giustificare altre dinamiche che caratterizzano questa fase fluida del capitalismo contemporaneo.

di Ferdinando Gueli

La recente vicenda del crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen in Cina ha aperto il nuovo anno tenendo banco sul “grande circo mediatico globale”, parimenti alle tensioni tra Arabia Saudita e Iran ed agli esperimenti nucleari in Nord Corea.

La vicenda, tuttavia, merita di essere analizzata con maggiore attenzione critica per scorporare i fattori effimeri e/o mediatici da quelli reali. È evidente infatti, come già accaduto con le analoghe crisi verificatesi nel mese di luglio 2015, che, per comprendere il reale impatto di questi eventi, non si può prescindere dal collocarli nel quadro più generale dell’attuale congiuntura politica ed economica cinese ed internazionale.

Già l’estate scorsa, su queste colonne, sia Alessandro Bartoloni che Ascanio Bernardeschi avevano evidenziato le caratteristiche tutte particolari dei mercati borsistici cinesi e le cause effettive di quei crolli che, in realtà, erano da imputare ad una serie di fattori endogeni ed esogeni ma molto specifici.

I fatti

I media mainstream internazionali hanno insistito sull’impatto negativo dell’andamento del mercato borsistico cinese a livello globale, anche se non viene data alcuna evidenza di quale sia l’effettiva interdipendenza tra i mercati dei capitali e valutari cinesi e quelli internazionali.

Inoltre, solo in alcune analisi viene ricordata la relativa poca incidenza dei mercati azionari e obbligazionari sull’economia cinese e, quindi, sul livello di capitalizzazione delle imprese.

Bisogna poi ricordare che le borse cinesi sottostanno ad una regolamentazione molto specifica, vi vengono quotati esclusivamente titoli nazionali e non esteri.

Nonostante questi limiti, negli ultimi anni il livello di capitalizzazione ed i volumi di contrattazione delle borse cinesi sono cresciuti a ritmi molto elevati, portando Shanghai e Shenzhen a raggiungere, nel 2014, rispettivamente la quarta e la quinta posizione tra le principali piazze borsistiche mondiali. L’incremento della capitalizzazione è stato, nel solo 2015, del +41.2% a Shanghai e del +72.8% a Shenzhen, mentre il volume delle contrattazioni, sempre nel 2015, ha subito una crescita impressionante: +381% a Shanghai e +271% a Shenzhen. Nessun’altra piazza borsistica ha fatto registrare questi numeri, neanche lontanamente.

Nelle due borse sono attualmente quotate prevalentemente grandi aziende pubbliche domestiche, mentre i grandi gruppi privati cinesi, soprattutto quelli maggiormente internazionalizzati, quali, ad esempio Haier (elettrodomestici), Vanke (edilizia e costruzioni), ZTE (elettronica), Lenovo, continuano a quotarsi prevalentemente nelle più collaudate piazze di Hong Kong, Singapore o New York. Si noti, inoltre, che anche alcuni importanti gruppi statali cinesi sono quotati sulle piazze di Hong Kong e Singapore.

Il bacino di riferimento delle borse cinesi sono quindi gli investitori domestici, in gran parte piccoli e medi risparmiatori che non hanno facilità o capacità di proiettarsi sui mercati internazionali, viste anche le restrizioni esistenti (per fortuna!) al movimento di capitali e la forte regolamentazione del settore bancario che difficilmente offre ai risparmiatori cinesi prodotti finanziari con titoli esteri.

Un’analisi dei fattori reali…

Per quanto sopra descritto, e come effettivamente sottolineato da numerosi e qualificati analisti internazionali, le due ondate di crolli, di luglio 2015 e gennaio 2016, sono quindi in gran parte da attribuire allo sgonfiamento, prevedibile e fisiologico, di bolle speculative determinatesi nel corso degli ultimi anni, e certamente facilitato dalla recente decisione delle autorità cinesi di procedere alla svalutazione del Renminbi, con delle ripercussioni anche sul mercato valutario internazionale.

Il comportamento dei piccoli e medi risparmiatori cinesi e degli intermediari domestici di piccole dimensioni ha sicuramente agito da principale detonatore del crollo delle quotazioni. Tale comportamento di fuga è dipeso, come diversi analisti e specialisti hanno evidenziato, dalla previsione che prima o poi le autorità cinese rimuoveranno le restrizioni sulla compravendita di titoli imposte ai grandi gruppi a capitale pubblico, per evitare un’esplosione troppo cruenta e improvvisa della bolla che ha caratterizzato le borse cinesi, in particolare nel corso del 2014 e del 2015, come già evidenziato più sopra

D’altro canto, molti analisti, anche di fonte mainstream, sono costretti ad ammettere che la stessa svalutazione dello yuan (RMB) ha un impatto limitato sull’andamento dei mercati, visti i modesti volumi della valuta cinese che vengono contrattati sui mercati finanziari internazionali. Certamente essa ha avuto un’influenza negativa sulle aspettative degli operatori, con effetti indiretti e di entità difficile da stimare, visto che interagiscono con tanti altri fattori, ma non gli si possono attribuire, oggettivamente, le conseguenze quasi catastrofiche come è apparso dal tenore del messaggio mediatico dei giorni di inizio anno.

Un’analisi più attenta ai dati reali rispetto agli eventi intercorsi ed alla loro entità rapportata al contesto economico e finanziario più ampio, lascia quindi emergere chiaramente forti perplessità nel giustificare gli allarmismi ed il clima di panico che i media internazionali hanno fortemente contribuito ad alimentare negli ultimi giorni, determinando perturbazioni su tutte le principali piazze finanziarie internazionali.

Sarebbe, piuttosto, necessario riflettere sul fatto che, alle dinamiche fisiologiche ed endogene dell’andamento delle borse in Cina, si sommano altre dinamiche, che vedono nella volatilità degli stessi mercati borsistici cinesi un terreno favorevole per perseguire vari obiettivi.

… e degli attori

Proviamo quindi ad ipotizzare quali attori e centri di interesse e di potere potrebbero avere interesse ad alimentare e strumentalizzare queste perturbazioni, in gran parte prevedibili e fisiologiche sui mercati borsistici cinesi, grazie anche al formidabile potere di amplificazione che i mass media globali sono in grado di mettere in campo, essendosi ormai realizzata un’omologazione pressoché completa del linguaggio e dei contenuti del messaggio mediatico globale, premessa fondamentale per la sempre più invasiva affermazione di un pensiero unico dominante capitalista e liberista.

In primo luogo vi è, ad esempio, da considerare il ruolo attivo e interessato della grande finanza internazionale, che monitora con vigile attenzione le timide aperture del governo cinese in materia di liberalizzazione dei movimenti di capitale, e che potrebbe utilizzare questa debolezza strutturale, diciamo anche immaturità, dei mercati domestici, per esercitare una pressione sui policy maker cinesi inducendoli ad accelerare quei processi, così da potersi sempre più insinuare su un mercato domestico potenzialmente immenso, al fine di acquisire una posizione egemonica nella gestione dei flussi di investimenti finanziari.

In questa sua strategia di medio-lungo periodo, il grande capitale finanziario si avvale del contributo utile e determinante della speculazione finanziaria di corto raggio, ad esso funzionale ed asservita, che da queste perturbazioni periodiche riesce, come sempre, a trarre grandi profitti, contribuendo, al contempo, ad amplificare e diffondere la temporanea instabilità dei mercati.

Vi è poi da considerare il ruolo del capitale industriale transnazionale, i cui interessi in Cina tendono ad intrecciarsi sempre più con il grande capitale industriale domestico, sia pubblico che privato, e che ha tutto l’interesse ad approfondire drammaticamente le contraddizioni del modello di sviluppo cinese per spingere sempre di più la classe dirigente del partito comunista a procedere avanti con le riforme in senso liberista dell’economia, ed in tal senso è funzionale l’insistenza sui limiti e le inefficienze dell’industria statale, al fine di guadagnarsi spazi ulteriori di investimento nel mercato interno, visto che altri ambiti di investimento (settori manifatturieri tradizionali, infrastrutture) si stanno ormai saturando.

Infine, ma non per ordine di importanza, vi è la grande partita giocata da anni, al livello geo-economico, dall’imperialismo USA e dei suoi alleati, e mirata al contenimento della potenza cinese e della sua sfera di influenza. Il balletto di manovre di politica monetaria, tra la Fed e la People’s Bank of China, non possono essere pienamente comprese se non inquadrate su quel terreno di gioco. La svalutazione dello yuan è stata una manovra cinese per rafforzare l’export e, soprattutto, apprezzare le proprie riserve valutarie, prevalentemente composte da titoli americani, una manovra, quindi, da leggere in chiave espansiva sul piano interno e in chiave difensiva sul piano internazionale.

Futuri scenari…

Sappiamo che gli USA stanno cercando, in questi ultimi anni, di rafforzare la propria strategia di contenimento e, da questo punto di vista, l’accordo raggiunto sul TPP è stato un tassello importante, poiché rafforza il tentativo di estendere la propria area di influenza imperialista tra i Paesi del Pacifico, sia sul versante asiatico che su quello latinoamericano, dove l’attivismo economico e diplomatico cinese ha permesso, a partire dai primi anni del XXI secolo, di incrementare la propria influenza in quello che l’imperialismo statunitense ha sempre considerato, sin dai tempi della dottrina Monroe (1823) un proprio terreno di caccia esclusivo. Ma la partita forse più importante si gioca nel Sud-Est asiatico, che rappresenta, al momento attuale, il nuovo polo di crescita potenziale per la fame inesauribile di espansione del capitalismo globale.

Di fronte a questa partita tra imperialismo USA e “impero di mezzo” cinese ci sembra invece corretta, e per nulla inopportuna, l’ammonizione dell’economista Nouriel Roubini quando ci fa riflettere che, anziché farsi impaurire dalla “sindrome cinese”, il vero “grande malato” dell’economia globale è oggi rappresentato dall’Europa e, in particolare, dall’Unione Europea e dell’Eurozona, ed è da quest’area che potranno venire, nell’anno appena iniziato, i maggiori rischi di turbolenza reale per l’economia mondiale, essendo ormai storicamente sconfitta la linea dell’austerità ordo-liberista a guida tedesca, ma senza che all’orizzonte si profili una via d’uscita realmente e radicalmente alternativa…sarà fantapolitica o forse nei circoli dirigenti statunitensi comincia a farsi strada il timore della formazione di un futuro asse Europa-Cina in chiave antiamericana?

Di fronte a queste dinamiche comunque non si può negare che, oltre all’Europa, anche la Cina, sia pur in condizioni ben diverse e meno drammatiche, è ormai giunta ad un passaggio storico decisivo ed ormai ineludibile per la classe dirigente e per il partito comunista.

In linea teorica, e con uno sforzo estremo di semplificazione, si possono ipotizzare 3 scenari alternativi:

  1. approfondimento dell’evoluzione (involuzione) in senso sempre più liberista e capitalista dell’economia e della società cinese, con l’approfondimento delle contraddizioni tipiche di questo sviluppo;
  2. resistenza dell’attuale modello di “economia socialista di mercato”, che implica il mantenimento di un ruolo ancora forte e attivo dello Stato in economia, e il tentativo (non si può dire quanto convinto e fondato) di salvaguardare forme , sia pur deboli e incomplete, di welfare sociale;
  3. emergenza, sia pur graduale e nel lungo periodo, di una nuova alternativa di transizione socialista, non nel senso, ormai oggettivamente impraticabile oltre che non auspicabile, di un ritorno ad un passato ormai troppo lontano, ma proiettato in un’ottica di superamento reale del capitalismo.

Se volessimo adottare un approccio “gramsciano” si potrebbe concludere che il primo scenario è quello prediletto dal pessimismo della ragione mentre il terzo è quello dell’ottimismo della volontà, ma che oggi appare veramente lontano. Superfluo aggiungere per quale di queste opzioni facciamo il tifo.

Note

Sole24Ore

  • http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-01-07/cresce-rischio-tempesta-perfetta-073100.shtml?uuid=AC7XXX5B
  • http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-01-07/perche-mercati-cinesi-sono-preda-panico-121853.shtml?uuid=ACSLGe5B

La Stampa

http://www.lastampa.it/2016/01/05/economia/salari-bassi-scioperi-e-manager-spariti-lindustria-in-crisi-fa-tremare-i-cinesi-B90s4VcCfTCR880zQxQy2J/pagina.html

Il Fatto Quotidiano

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/05/borsa-cinese-il-circolo-vizioso-dellintervento-dello-stato-che-invoglia-gli-investitori-a-rischiare-di-piu/2351422/

15/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Ferdinando Gueli

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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