Decreto Salvini sicurezza e immigrazione: la pacchia è finita

Analisi del decreto sicurezza e immigrazione votato all’unanimità dal Consiglio dei Ministri.


Decreto Salvini sicurezza e immigrazione: la pacchia è finita

Ci risiamo. Dopo una lunghissima serie quarantennale di interventi sul tema dell’immigrazione e della protezione internazionale adottati con approccio emergenziale, anche il governo giallo-verde - una strana combinazione di colori che, a quanto pare, mescolati assieme producono il nero - interviene sul medesimo tema con un decreto legge recante “disposizioni URGENTI in materia di protezione internazionale, immigrazione, sicurezza pubblica e bla bla bla” … il governo del cambiamento, evidentemente, anche oggi rimanda a domani il tanto sbandierato cambio di passo rispetto al passato, per chi ancora fosse persuaso dell’eccezionale novità rappresentata dal connubio Lega-5 stelle.

Un approccio d’emergenza, dunque, anche se tale “emergenza”, stando ai toni da sempre adottati dai vari legislatori, sembra in atto da circa 40 anni in qua: in questi decenni, in effetti, abbiamo certamente potuto constatare con mano come i grandi problemi del nostro Paese quali la crisi economica, lo smantellamento di ogni diritto e tutela nel mondo del lavoro, l’azzeramento pressoché totale del sistema di welfare, gli abusi di potere, i contro-sistemi mafiosi di spartizione della ricchezza, lo sfruttamento umano, la deriva culturale e politica da basso impero e via discorrendo, scaturiscano tutti da una matrice comue, una ineliminabile piaga che prostra l’italiano e lo rende insoddisfatto, frustrato, subalterno, schiavo: l’immigrato.

Cotale figura mitologica si aggirerebbe nelle nostre strade indisturbato, felice di avere realizzato il suo più grande sogno, l’ambizione di una vita: lasciare senza alcun motivo al mondo il proprio lussureggiante e ameno Paese di origine, la propria famiglia, la propria casa, la propria cultura e anche la propria lingua, per approdare clandestinamente con un sogghigno di soddisfazione sulle italiche coste, eludere le patrie frontiere ed insinuarsi agli angoli di ogni strada all’unico scopo di delinquere, violentare e derubare tutti gli onestissimi italiani di passaggio, rovinando loro per sempre la speranza di uscire indisturbati, di guadagnare grandi soldi da mettere da parte sotto al materasso, di portare i pargoli al parco nella mezz’ora di tempo libero dal lavoro giornaliera e di compiacersi della sensazione che la propria sicurezza fosse inossidabilmente presidiata dagli uomini in mimetica col mitra ad ogni tornello della metro.

L’italiano, tuttavia, non è stolto e sa, perchè lo ha confermato anche il “capitano” Salvini, che in mezzo a questi orrendevoli soggetti ve ne sono alcuni, ma pochi pochi pochi, che hanno le migliori intenzioni e scappano perchè DAVVERO non hanno alternative: questi soggetti si chiamano rifugiati.

Ogni italiano saprebbe elencare perfettamente per quali ragioni si possa essere definiti rifugiati. Ma a volte è difficile tenere bene a mente tutto, con tutti i problemi che abbiamo noialtri, e, allora, rifugiato diventa solo “chi scappa dalla guerra”. Bene, corretto, diciamo, ma non è sufficiente. Come promemoria per ogni italica mente, si ritiene utile, prima di proseguire, ricordare quanto segue.

1) L’articolo 10 co. 3 della mai sufficientemente ricordata legge fondamentale dello Stato, ossia la Costituzione nata dall’antifascismo e dalla Resistenza (e già scempiata in più punti dalle forze reazionarie neoliberiste) recita che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (ossia TUTTE le libertà democratiche garantite agli italiani dalla loro costituzione) ha (ossia avrebbe) diritto d'asilo nel territorio della Repubblica.

2) In Italia gli organi che si occupano di valutare le richieste di protezione internazionale (“asilo”) si chiamano “Commissioni Territoriali”, afferiscono al Ministero dell’Interno, sono una trentina circa, comprese le “sezioni” che coadiuvano le Commissioni più oberate di richieste, e, a seguito di un colloquio personale svolto allo scopo di sentire le ragioni della richiesta di protezione da parte dello stesso straniero richiedente, valutano innanzitutto se il richiedente è riconoscibile quale rifugiato, in subordine se gli è riconoscibile la protezione sussidiaria e, in subordine ancora, ai sensi dell’art. 32, co. 3, d. lgs. 25/2008 e dell’art. 5, co. 6, d.lgs. 286/1998, se gli è riconoscibile una forma di protezione denominata “umanitaria” e il relativo permesso di soggiorno a tale titolo.

3) La Convenzione di Ginevra definisce dal 1951 “rifugiati” tutti coloro che chiedono protezione (“asilo”) ad uno Stato diverso da quello di cui hanno la cittadinanza o in cui sono domiciliati se apolidi, perché hanno già subito o temono di subire in futuro una persecuzione per ragioni di razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche, appartenenza a un determinato gruppo sociale (quest’ultima espressione, volutamente imprecisa per renderla maggiormente inclusiva, consente di volta in volta di ricomprendervi casi peculiari di persone che possiedono caratteristiche specifiche, diverse da quelle precedentemente elencate, che comunque valgono a identificarle come soggetti perseguitabili in dati contesti nei Paesi di origine, come, ad esempio, gli orientamenti sessuali, l’appartenenza di genere, la minore età, le persone malate e via dicendo). A coloro, invece, che scappano da una situazione di conflitto oppure scappano da una condanna a morte o dal rischio di essere torturati o sottoposti a trattamenti inumani e degradanti viene riconosciuta la c.d. protezione sussidiaria.

4) Le precedenti casistiche esauriscono il novero delle possibili forme di protezione internazionale ossia, detto volgarmente, i casi in cui gli stranieri richiedenti devono essere protetti e accolti nel Paese in cui hanno chiesto asilo perché, se tornassero indietro, verrebbero (o rischierebbero di essere) perseguitati, torturati, uccisi con una esecuzione a morte o a causa di una guerra in corso. Fuori da questi casi o si viene rimpatriati o, se in presenza di gravi motivi di carattere umanitario (altra espressione volutamente imprecisa per renderla elastica e inclusiva) che impediscono il rimpatrio al cittadino straniero, le Commissioni possono valutare di concedere un particolare permesso denominato “umanitario”.

Ora, l’italico Matteo è stato, come abbiamo visto, particolarmente ossessionato dall’oscuro significato di quell’espressione “gravi motivi di carattere umanitario” che impediscono i rimpatri, a causa della cui scellerata e incontrollata concessione si sarebbe creata la “piaga” dell’immigrato furbo, delinquente e pericoloso di cui sopra, la buona parte delle disgrazie del Paese e la situazione di ineliminabile emergenza sicurezza che da decenni annichilisce l’amato stivale (nonché la conquista della propria carica di Presidente del Cons… cioè, di Ministro dell’Interno). Il popolo del “Capitano” stanco e affranto, pertanto, oggi plaude quando Egli con risoluzione “risolve i problemi”, ossia tuona contro l’attracco di navi cariche di “finti” rifugiati di tutte le età e di tutti i colori, e quando, nell’incertezza di cosa possa intendersi per “gravi motivi di carattere umanitario” ma, al contempo, nella certezza assoluta che questi si traducano in qualche migliaio di titoli di giornali di cronaca nera e altrettante diffuse disgrazie in più, Egli decide di abolire la protezione umanitaria, modificando cioè l’art. 5, co. 6, d.lgs. 286/1998 che abbiamo già ricordato e introducendo al suo posto dei permessi “speciali”.

Quello che il decreto sancisce è che l’accesso alla protezione speciale possa essere disposto in casi tipizzati, ossia solamente se si ha bisogno di cure mediche salvavita, per chi si è distinto per atti di “particolare valore civile, per violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo e se si proviene da un paese afflitto da gravi calamità (con tutta la discrezione squisitamente politica che l’ultimo punto comporta, tale per cui, ad esempio, si potrebbe considerare eccezionalmente grave la situazione venezuelana ma, al contempo, rispedire a casa tutti gli africani perché provengono da paesi dove la crisi è talmente normalizzata ed è completamente indifferente alle grandi potenze occidentali la risoluzione politica dei problemi che la provocano, da ritenere fattibile e aproblematico il rimpatrio. Ma questo è un altro discorso. O forse no?).

L’eliminazione della discrezionalità della Commissione Territoriale di interpretare, caso per caso e a seconda delle esigenze e del tipico vissuto del richiedente asilo, cosa dovesse intendersi e includersi nelle motivazioni di carattere umanitario e nella relativa protezione, farà sì che, finalmente, si cessasse con questa “farsa” di considerare vulnerabile una persona solo perché madre, minore, anziano, incapace mentalmente, di considerarla meritevole di accoglienza perché ben integrato nel contesto italiano. Questi sono ragionamenti che valgono in tribunale, solo per gli italiani e per i loro problemi.

Per gli altri, invece, converrà che non si dimentichino mai, d’ora in poi, che lo straniero è una cosa, l’italiano un’altra; che il primo gioca e giocherà sempre in serie B, che per lui la legge vale diversamente che per gli altri e adire il tribunale con 3 gradi di giudizio è un lusso che non gli può essere concesso; che se sei straniero puoi essere privato della libertà personale nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr, gli ex Cie) fino a 6 mesi per il solo e semplice fatto di attendere il momento di un rimpatrio, per cui la gloriosa nazione è pronta a spendere fino a 4 milioni di euro da qui al 2020; che se sei un richiedente asilo non hai diritto a iscriverti all’anagrafe né all’accoglienza nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR); che, anche se sei rifugiato e secondo quanto dice qualche zelante zecca comunista questo significa che non ti stanno facendo un favore o accordando un privilegio ma ti stanno riconoscendo uno status e dei diritti pieni ad esso correlati, in realtà devi ficcarti bene in testa che così non è e che lo Stato italiano quei diritti e quello status te li può arbitrariamente levare in toto, facendoti piombare di colpo nella clandestinità e nell’incubo di essere riportato laddove eri riuscito a fuggire perché eri perseguitato o rischiavi di morire, anche se hai commesso un reato per cui per tutti gli altri è sufficiente essere giudicati da un giudice italiano e, eventualmente, scontare una pena in un carcere italiano. Com’è che è stato detto? Ah si, “la pacchia è finita”.

Illegalità e clandestinità, quindi, i nemici dichiarati nel decreto Salvini che, però, ritornano al mittente come la gelosia nella famosa canzone di Celentano: più la scacci e più l’avrai. Attualmente, seguendo un’impostazione immutata da una decina di anni in qua, i decreti flussi - che consentono l’ingresso regolare per motivi di lavoro in quote stabilite - sono limitati e circostanziati ai lavoratori stagionali o a chi è già in Italia per motivi di studio; normalmente pervengono un numero di domande enormemente superiore ai posti disponibili (appena 30 mila nel 2018) e questo genera il curioso fenomeno per cui i finti rifugiati mentecatti di cui parla il Capitano degli italiani e a cui sono addebitabili i mali del mondo, altri non sono, in larghissima maggioranza, se non persone che, non potendo regolarizzarsi con un permesso per motivi di lavoro né prima dell’ingresso in Italia né, tantomeno, dopo - anche se vengono immediatamente reclutati, appena sbarcati o mentre sono in accoglienza, per lavorare in nero dai caporali a 2 euro l’ora presso qualche tragico campo -, risultano clandestine e, al contempo, impossibilitate a cercare lavoro senza un valido titolo di soggiorno. Ecco allora che la domanda di protezione internazionale funge da metodo per regolarizzare la propria presenza nel Paese.

Un paese, il nostro, che li vuole, brama quelle braccia giovani e avvezze alla fatica, i corpi da fare prostituire, desidera ardentemente quegli stomaci affamati per dare loro solo il miraggio di un pasto completo coi “salari” erogati, necessita come l’aria di questi disperati pronti a tutto per spingere al ribasso le condizioni lavorative dell’intero paese creando, allo stesso tempo, i facili capri espiatori cui imputare di tutto, arricchisce imprenditori, mafiosi, papponi, spacciatori, avvocati, costruttori edili e le peggiori cricche di affaristi che speculano sulle vite della gente, traendo dall’ombra la loro linfa per occultare nell’ombra le proprie malefatte. A questo proposito infatti sembra perfetto e così poco casuale lo sposalizio con le previsioni, contenute nello stesso decreto in questione e di cui abbiamo già parlato su questo giornale, circa la riorganizzazione dell’agenzia che si occupa della gestione dei beni confiscati dalla mafia allo scopo di riportarli in gestione ai privati.

Un ulteriore felice matrimonio - che, ahinoi, non è una novità del governo attuale ma è stato già sdoganato dal precedente ministro Minniti - è quello tra criminalizzazione dello straniero e criminalizzazione della povertà in generale, dell’emarginazione sociale e criminalizzazione delle forme di protesta: ecco perché all’italico volgo, infastidito dalla visione di barboni, occupanti di case sfitte e manifestanti, che evocano gli uni il proprio possibile immediato futuro in costanza di barbarie sociale e precarietà e gli altri la propria coscienza che rischia di svegliarlo dal piacevole intorpidimento della rassegnazione, accetta di buon grado l’estensione del DASPO urbano in ogni luogo possibile e immaginabile. Che la sicurezza trionfi, meglio se presidiata da un poliziotto dotato di taser, così il prossimo Stefano Cucchi lo fracassano con più discrezione.

Il hashtag “decreto immigrazione e sicurezza Salvini” (non vorremmo rischiare di commettere il delitto di parlare di politica in modo poco social) potrebbe, credo, essere analizzato con un approccio più serio di quello proposto in queste righe. Indubbiamente. È altrettanto vero, però, che quando ci si trova dinnanzi ad una realtà dove quasi 300 mila italiani sono costretti ad emigrare all’estero per lavorare, mentre oltre la metà di quelli che rimangono sono convinti che la panacea di tutti i mali sia il reddito di cittadinanza - sulla cui analisi e utilità si rimanda diffusamente ad altri articoli - e la spranga contro lo straniero, giusto per il gusto di sentirsi un pelo meno sfigati di qualcun altro che viene da lontano, ecco, allora diventa estremamente arduo evitare il sarcasmo. Un tempo c’era chi diceva che “la fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà”; dal momento in cui, a quanto pare, va ancora estremamente di moda il fatto di essere forti coi deboli e deboli coi forti, un approccio antico quanto lo è il mondo, bisogna dedurre che alcuna elaborazione fantasiosa sia attualmente in grado di distruggere alcun potere. Ripariamo, per ora, su un amaro risolino, pronti però ad armarci e resistere perché, signore e signori, col fascismo non si ragiona. Si seppellisce e basta.

06/10/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Leila Cienfuegos

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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