L’inadeguatezza al governo

I decreti cura Italia, liquidità e rilancio sottomettono ancora di più il paese ai mercati finanziari e non garantiscono alcun cambio di rotta nella gestione delle aziende aiutate coi soldi pubblici


L’inadeguatezza al governo

Dopo un mese di attesa, il 19 maggio, il governo ha pubblicato un decreto-legge ribattezzato “rilancio” che segue quello chiamato “cura Italia” varato il 17 marzo e quello ribattezzato “liquidità” dell’8 aprile. I primi due provvedimenti, in piena fase 1, servivano a garantire la sopravvivenza del paziente, quest’ultimo, invece, dovrebbe permettere al paziente di uscire dall’ospedale e tornare ad avere una vita normale.

Nel paziente Italia, però, convivono lavoratori e imprenditori, i cui interessi sono in contrapposizione. “Lo sviluppo del capitale è la condizione più favorevole per l'operaio; bisogna convenirne” dice Marx nel suo Discorso sul libero scambio. “Se il capitale rimane stazionario, l'industria non resterà soltanto stazionaria, ma decadrà e l'operaio ne sarà la prima vittima”. D’altronde, “quando il capitale aumenta, quando cioè si é in quello stato di cose che abbiamo detto il più propizio per l'operaio, quale sarà la costui sorte? Esso perirà ugualmente”.

Il modo in cui noi lavoratori moriremo, tuttavia, non è identico nei due casi, e per ricostruire una coscienza di massa relativa a questo inevitabile destino cui ci conduce il capitalismo, è utile verificare se ed in che misura le misure varate dal governo coi tre decreti aiutano o contrastano lo sviluppo delle forze produttive, base oggettiva necessaria all’affermarsi del modo di produzione socialista.

Decreto “cura Italia”

Come detto, la prima cosa che il governo ha dovuto fare è stato impedire al paziente di morire. E per farlo ha stanziato circa 25 miliardi di euro, la maggior parte dei quali sono finiti alle “braccia”, vale a dire i lavoratori, al fine di garantire quel sostentamento minimo senza il quale si sarebbe messa a rischio la pace sociale, cioè l’ordine costituito basato sul diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, che rappresenta il bene più prezioso per i capitalisti e la cui conservazione vale una manciata di miliardi.

ll 44% del totale dei soldi stanziati, corrispondente a circa 11,6 miliardi, sono serviti ad aiutare le famiglie dei lavoratori (dipendenti e autonomi) attraverso il rafforzamento della cassa integrazione guadagni e di altri ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti (3,4 miliardi), l’introduzione dell’indennità a favore di lavoratori autonomi (3,4 miliardi), l’estensione del congedo parentale, il bonus baby-sitter, l’estensione dei benefici della legge 104/92 (1,3 miliardi), il premio per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 40.000 euro (881 milioni), l’incremento del fondo solidarietà mutui prima casa (400 milioni) e altri interventi per ulteriori 148 milioni di euro. Due miliardi, infine, sono i contributi figurativi posti a carico del bilancio dello Stato in relazione agli interventi di integrazione salariale, congedi parentali e i fondi alternativi e di solidarietà.

Col “cura Italia”, però, si sono stanziati anche 3,2 miliardi (il 12% del totale) per il Servizio sanitario nazionale, vale a dire per permettere alle aziende del settore, sia quelle pubbliche sia quelle private convenzionate, di fornire un maggiore e miglior salario indiretto, fortissimamente compresso dalle decine di miliardi di tagli degli ultimi decenni. Di questi, 1,4 miliardi vanno a finanziare i fabbisogni standard, 1,65 l’incremento del fondo pluriennale per le emergenze nazionali, il resto per altre spese correnti ed in conto capitale.

Ai capitalisti, invece, sono andati poco meno di 7,9 miliardi, il 30% del totale. Di questi 5,6 sotto forma di garanzie, 1,5 di crediti di imposta, 640 milioni per sostenere gli investimenti e 250 milioni per il finanziamento di spese correnti. Alla pubblica amministrazione finiscono meno di 3 miliardi (8% del totale). Nel complesso, dunque, i lavoratori sono i destinatari, tra contributi diretti ed indiretti, di quasi 14,8 miliardi di euro, circa il 56% del totale.

Tutti questi interventi economici - inclusa la moratoria sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che non esaurisce le casistiche per cui si può, dopo le varie leggi precarizzanti, legalmente perdere il lavoro, ma rappresenta comunque un paletto, sebbene temporaneo e probabilmente unico, all’arbitrio padronale - insieme a quelli di natura sanitaria e poliziesca, hanno consentito di mantenere la situazione “sotto controllo”... del capitale, ovviamente. Condizione necessaria ma non sufficiente alla “ripartenza” dello sfruttamento nelle nuove condizioni date dalla crisi economica che, inevitabilmente e tutt’altro che inaspettatamente, è divenuta la vera, grande, emergenza. Che il governo del capitale non può che affrontare se non scaricandola sui lavoratori, tramite il peggioramento delle condizioni di lavoro, quindi l’aumento del tasso di sfruttamento, e sui concorrenti, aumentando gli aiuti necessari alle imprese per sopravvivere nelle nuove condizioni di mercato fagocitando i contendenti più deboli. E il decreto “liquidità” serve proprio a questo secondo scopo.

Decreto “liquidità”

Cinque sono le misure varate col decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23: i) il sostegno all'esportazione, all'internazionalizzazione e agli investimenti delle imprese; ii) il rafforzamento del sistema delle garanzie pubbliche sui prestiti, iii) il rinvio di alcuni versamenti fiscali e contributivi; iv) le deroghe di carattere transitorio ad alcune disposizioni in materia di diritto societario e fallimentare (moratoria sui fallimenti) e v) l’ampliamento della disciplina relativa ai poteri speciali nei settori di rilevanza strategica (golden power).

Il sostegno all'esportazione, all'internazionalizzazione e agli investimenti delle imprese è favorito dalla SACE, una società per azioni di proprietà di Cdp, (Cassa depositi e prestiti, a sua volta controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), che potrà garantire finanziamenti erogati da banche e altre istituzioni finanziarie alle imprese con sede in Italia entro l'importo complessivo massimo di 200 miliardi di euro. Questo significa credito più facile per le imprese, tanto se falliscono la banca non ci rimette neanche un soldo. A questi vanno aggiunti altri 200 miliardi per facilitare l’accesso al credito sempre tramite la garanzia della SACE: 30 miliardi destinati alle Pmi ed il rimanente alle grandi imprese. Un importo assai elevato, 170 miliardi, considerando che il credito erogato alle grandi società società ammontava a 180 miliardi alla fine dello scorso mese di gennaio.

Un bel gruzzolo a cui però corrisponde un controllo pubblico solamente ex-ante e relativo alla strategicità dell’azienda, alla sua redditività e ad un non definito impatto in termini di livelli occupazionali. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, poi, il decreto stabilisce che “l'impresa che beneficia  della  garanzia  assume  l'impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Una vera manna per i lavoratori! Insomma, niente che possa far pensare ad un effettivo controllo pubblico di come viene speso il denaro dei contribuenti, come sarebbe lecito pretendere se solo avessimo un governo preoccupato del paese e non dei suoi padroni.

Per quanto riguarda l’impatto sui conti pubblici, le garanzie complessivamente rilasciate attraverso la SACE sono considerate non standardizzate (one-off) e pertanto non vengono contabilizzate come nuovo debito se non quando vengono effettivamente escusse. Ma l’entità delle garanzie statali concedibili, la gravità della crisi e l’incertezza sui tempi e sulla rapidità della ripresa dell’attività economica comporta in prospettiva la possibilità di dover far fronte a esborsi molto significativi. Se ipotizziamo tassi di insolvenza analoghi a quelli del biennio 2012-2013 (vicini al 10%), si tratterebbe di almeno 40 miliardi di nuovo debito pubblico ma se le cose, come è probabile, andranno peggio, saranno ancora di più.

Altro importante aiuto alle imprese è costituito dal rinvio di alcuni versamenti fiscali e contributivi per i soggetti che, rispetto ai corrispondenti mesi dello scorso anno, hanno registrato un calo dei ricavi o dei compensi superiore a soglie predeterminate. I versamenti andranno comunque recuperati entro l’anno, ma la loro temporanea sospensione ha accresciuto significativamente la necessità di emettere nuovo debito pubblico. Le valutazioni ufficiali indicano la cifra di 16 miliardi ma non è escluso che alla fine le imprese più malandate si ritroveranno nell’impossibilità di compensare quanto al momento è soltanto rimandato, portando all’ennesima fiscalizzazione delle tasse e degli oneri sociali e a 16 o più miliardi di nuovo debito pubblico.

Infine, ma non da ultimo, il modo in cui il governo salvaguarda e promuove l’industria “italiana” risponde all’organizzazione transnazionale della grande borghesia finanziaria e ne ricalca le contraddizioni. Poiché lo Stato non ha più un rapporto diretto con il proprio capitale che negli ultimi decenni si è internazionalizzato, deve rappresentare tutti i capitali di stanza nel paese e mediare tra i loro interessi, spesso contrapposti. E così a beneficiare del sostegno all'esportazione, all'internazionalizzazione e agli investimenti delle imprese, del rafforzamento del sistema delle garanzie pubbliche sui prestiti, del rinvio dei versamenti fiscali e contributivi e della moratoria sui fallimenti saranno anche le aziende ubicate all’estero che controllano società italiane nonché gli imprenditori italiani che hanno spostato all’estero la sede della casa-madre (holding).

Anzi, a causa della crescente penetrazione del capitale estero, della “fuga degli imprenditori italiani”, dell’organizzazione proprietaria a scatole cinesi e dei meccanismi di transfer pricing che caratterizzano tutte le grandi aziende, è probabile che alla fine a guadagnarci siano le imprese ubicate in contesti fiscalmente più favorevoli al nostro. Con la conseguenza di rendere ancora più vulnerabili le industrie che si voleva proteggere e sulle quali si sono investiti soldi garantiti dallo Stato. Inoltre, il Coronavirus ha reso ancora più evidente come la dipendenza dal mercato internazionale e dalle aziende multinazionali possa comportare grandi problemi di approvvigionamento quando a dominare è la concorrenza, come è inevitabile che sia in regime capitalistico.

Per tutti questi motivi, a Bruxelles si parla di “sovranità sanitaria” e il governo italiano ha ampliato la disciplina relativa ai poteri speciali nei settori di rilevanza strategica (golden power) che consente di bloccare l’ulteriore penetrazione straniera nelle più importanti aziende nazionali, pubbliche o private, che si occupano di approvvigionamento di fattori produttivi critici, della tutela dei dati personali, della libertà e pluralismo dei media, della disponibilità del credito e delle assicurazioni. Il golden power, tuttavia, al pari delle garanzie, ha carattere meramente conservativo e non progressivo, in quanto non nazionalizza le aziende che sono già sotto controllo straniero o che già hanno spostato la sede all’estero, né implica un effettivo controllo pubblico dell’azienda protetta. Che è meglio, non perché si ha fiducia negli attuali funzionari pubblici, specialmente quelli di diretta nomina politica, ma perché la classe imprenditoriale italiana ha ampiamente dimostrato di essere peggio.

Decreto “rilancio”

Malgrado le garanzie poste dal decreto “liquidità”, parte delle perdite subite dalle imprese in questo e nei prossimi anni non sarà recuperabile e non tutti i debiti accesi per far fronte alla crisi saranno ripagati. Le garanzie, infatti, tutelano i “prestatori”, non i “prenditori”, la cui vulnerabilità aumenta esponenzialmente con la crisi, col rischio di fallimenti e, a cascata, disoccupazione, depauperamento delle forze produttive, ecc. Per questo il governo ha dovuto metter mano al portafoglio (dei lavoratori) per garantire il patrimonio produttivo (dei capitalisti) ed impedire che lo “stomaco” vomiti il cibo che le “braccia” continuano a fornirgli, malgrado una delle “migliori” legislazioni lavoristiche e la gratuità dei benefici dati dal “cura Italia” ai loro dipendenti.

Gli 11,6 miliardi stanziati direttamente per i lavoratori e i 3,2 indirettamente tramite il SSN, infatti, sono tutti finanziati tramite debito pubblico, vale a dire attraverso la fiscalità generale che già da quest’anno è chiamata a rimborsare gli interessi che maturano. E, come sappiamo, la fiscalità non è improntata alla progressività, come costituzione vorrebbe, bensì alla regressività, dove a pagare è soprattutto chi ha di meno. Quindi, in ultima analisi, gran parte dei benefici ottenuti dai lavoratori col “cura Italia” sono una grande partita di giro, una redistribuzione interna al monte salari della classe lavoratrice e non un maggior investimento in capitale variabile.

Se gli imprenditori non ci mettono una lira, è pur vero che la pandemia gli ha regalato un “peggioramento” delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori. Il nuovo Coronavirus, infatti, ha reso necessarie l’adozione di tutta una serie di misure di sicurezza - sulla cui efficacia ed effettiva applicazione non è il caso di discutere in questa sede - che rappresentano un costo di cui gli imprenditori avrebbero volentieri fatto a meno. La dotazione di dispositivi di protezione individuali per i dipendenti, l’aumento dei tempi e delle risorse necessarie per l’igiene, le pulizie e le sanificazioni, il distanziamento tra lavoratori, fornitori e clienti, l’adeguamento mobiliare ed infrastrutturale dei locali e le altre disposizioni in materia, entrano in contraddizione con i ritmi, i modi e l’organizzazione del lavoro, finalizzati a non dover far altro fuorché quello strettamente necessario ad un processo lavorativo che non guarda al benessere degli esseri umani che vi partecipano o dell’ambiente che lo ospita bensì alle esigenze di valorizzazione del capitale.

Per far fronte a queste spese, il decreto “rilancio” mette a disposizione per il 2021 ed il 2022, 4 miliardi di euro sotto forma di credito di imposta. Ma se anche gli imprenditori riuscissero a recuperare questa minor valorizzazione derivante dalla diminuzione dell’intensità di lavoro tramite un aumento del orario di lavoro o tramite un aumento della produttività, vale a dire una diversa e migliore organizzazione (smart working) o il maggior impiego di macchine, la crisi non scomparirebbe, essendo già presente prima dell’arrivo del Sars-Cov-2 come già scritto su questo giornale nei mesi passati.

Dunque, per fronteggiare la crisi, lo Stato elargisce alle imprese 15 miliardi sotto forma di contributi, 5,6 miliardi di minori tasse, 44 miliardi che serviranno a Cdp per sottoscrivere prestiti obbligazionari convertibili, partecipare ad aumenti di capitale, acquisire azioni quotate sul mercato secondario in caso di operazioni strategiche e per ristrutturare società che, nonostante temporanei squilibri patrimoniali o finanziari, siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività, 30 che andranno alla SACE per ulteriori 30 miliardi di garanzie, 12 miliardi per sbloccare i pagamenti in favore degli imprenditori che vantano crediti commerciali nei confronti delle pubbliche amministrazioni e un ulteriore miliardo per il sostegno alla digitalizzazione, alle imprese esportatrici, alle start-up innovative e agli investitori (venture capital).

Dei 15 miliardi di contributi, 10,7 miliardi sono di natura corrente, 4,6 in conto capitale e 5,6 sotto forma di taglio delle tasse. In particolare, 6,2 miliardi vengono letteralmente regalati (fondo perduto) a chi non supera i 5 milioni di ricavato; 1,6 miliardi vengono stanziati per sostenere gli oneri derivanti dalle locazioni commerciali, 600 milioni per la riduzione delle tariffe delle utenze, 150 milioni per il sostegno all'export, 1,7 miliardi per il turismo (il c.d. bonus-vacanze) e 500 milioni per le filiere in crisi. Degli stanziamenti in conto capitale, quasi tutti sono destinati ad alimentare un fondo di garanzia per le piccole e medie imprese (4 miliardi), il resto ad agricoltura, pesca, terzo settore ed interventi minori. Per quanto riguarda la riduzione delle tasse, a farla da padrona è il taglio dell’Irap, l’imposta regionale delle attività produttive, che vale quasi 4 miliardi e l’esenzione della prima rata IMU per gli stabilimenti e le imprese che operano nel turismo per 333 milioni. Tre miliardi, infine, sono stati stanziati per interventi di riqualificazione energetica effettuati da persone fisiche o IACP.

Come si vede, dunque, non sono le grandi imprese quelle destinatarie degli aiuti, sebbene li riceveranno ugualmente per via dell’organizzazione a scatole cinesi che le caratterizza, in quanto non hanno problemi di liquidità o questi problemi sono già affrontati tramite l’apposito decreto approvato l’8 aprile. Ma neanche a fronte di questi soldi pubblici vi è alcuna ombra di gestione pubblica, come ci ha tenuto a precisare il ministro Gualtieri in conferenza stampa. Tanto per ricordarci quanto è di sinistra questo governo…

Ai lavoratori, il decreto destina direttamente il 16% del totale delle risorse stanziate per il 2020, vale a dire 24 miliardi. Di questi, 10,6 vengono destinati all’integrazione salariale (cassa integrazione, solidarietà, ecc), 4,8 miliardi alle indennità e indennizzi vari (inclusi quelli per i lavoratori autonomi), 1 miliardo ai congedi e 1,6 per finanziare il reddito di emergenza e il reddito di ultima istanza. Gli oneri per la contribuzione figurativa correlata agli ammortizzatori sociali sono posti a carico dello Stato e valgono 5,7 miliardi mentre il fondo prima casa viene incrementato di 100 milioni.

Per quanto riguarda il fisco, nel corso del 2020 noi potremo beneficiare unicamente della riduzione dell’aliquota IVA per le cessioni di beni necessari per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 mentre ben più consistenti dovrebbero essere i benefici per il 2021 e 2022 dato che il governo ha soppresso le clausole di salvaguardia in materia di IVA e ACCISE. In questo modo, se non ci saranno ripensamenti in autunno, non affluiscono soldi freschi nelle tasche dei lavoratori ma almeno si evita un pericoloso aumento di queste tasse, che nel primo anno avrebbero comportato maggiori esborsi per 19,8 miliardi e nel secondo per 26,7 miliardi. In compenso il fondo finalizzato all'attribuzione di rimborsi in denaro a favore di soggetti che fanno uso di strumenti di pagamento elettronici è decurtato di 3 miliardi.

Per quanto riguarda la Pubblica amministrazione, A differenza del “cura Italia”, che stanziava solamente 2 miliardi, nel decreto “rilancio” se ne stanziano 13,6 di cui quasi la metà, 6,1 miliardi, destinati a regioni ed enti locali per l’esercizio delle funzioni fondamentali, 800 milioni per rimpinguare il fondo per le esigenze indifferibili aperto al Mef, 400 al reintegro del fondo di solidarietà comunale e 200 per le “zone rosse” mentre al Commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica COVID-19 sono assegnati 1,5 miliardi in conto capitale e altrettanti vanno al rifinanziamento del fondo per le emergenze nazionali. Tre miliardi, infine, serviranno per fondare la nuova Alitalia.

Il resto, 1,2 miliardi, sono voci di salario indiretto: 500 milioni per sostenere le imprese del trasporto pubblico locale mentre al Miur spetteranno solamente 331 milioni per il funzionamento delle istituzioni scolastiche statali e 400 milioni per l'emergenza epidemiologica da COVID-19 (ulteriori 600 milioni sono stati stanziati per il 2021). Al potenziamento delle aziende pubbliche e private che formano il Servizio sanitario nazionale, quindi per incrementare la componente di salario indiretto che si è rivelata così importante in questi mesi, nel decreto “rilancio” vengono destinati solamente 1,8 miliardi nel 2020, l’1% del totale (500 milioni nel 2021 e 1,5 miliardi nel 2022, sempre che non ci ripensino).

Conclusioni

Gli interventi delineati, inadeguati dal punto di vista gestionale ma perfettamente allineati a quanto stabilito in sede europea (si veda l’articolo di Raffaele Picarelli su questo numero), comportano un fortissimo aumento del deficit e del debito pubblico. Il primo, per l’anno in corso, è previsto al 10,4% del PIL (nel 2019 si attestava all’1,6%), e il secondo al 155,7%, in crescita di 21 punti percentuali rispetto al 2019 quando si fermava al 134,8%. Il ricorso al mercato, vale a dire ai prestiti, cresce di quasi il 60% rispetto alla legge di bilancio approvata a fine 2019, arrivando a 495 miliardi di euro (e non si considerano i 416 miliardi del decreto “liquidità”). Per affrontare questo problema, il governo intende ricorrere alle ricette di sempre: “surplus di bilancio primario”, che tradotto significa più tasse (incluse le “imposte ambientali”) e meno servizi (“revisione e riqualificazione della spesa pubblica”), nonché i fantomatici “investimenti pubblici e privati” ed il sempreverde “contrasto all’evasione fiscale”. A fronte di tutti questi debiti, cioè future tasse, nulla in termini di gestione pubblica delle aziende e quindi di loro maggior rispondenza alle istanze popolari rispetto a quelle padronali che, fino a prova contraria, comandando, ci hanno condotti fino a questo punto e ci spingeranno ancora più nel baratro nei prossimi mesi. Con l’aiuto anche di questo governo. Potrebbe andare peggio? Certamente. Ma auto-organizzandoci e unendoci tra lavoratori potrebbe pure andare, se non proprio bene, quantomeno meglio.

Riferimenti

Per il decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 “cura Italia” si veda il Bollettino Economico Numero 2 / 2020 Aprile di Bankitalia.
Per il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 “liquidità” si veda la Testimonianza del Capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia Fabrizio Balassone.
Per il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 “rilancio” si veda Il dossier parlamentare: Decreto legge “rilancio”: effetti sui saldi di finanza pubblica e conto risorse e impieghi.
Per le conclusioni si veda la Relazione al Parlamento presentata il 24 aprile 2020 ai sensi dell'articolo 6 della legge 243 del 2012.

31/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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