Il socialismo nel XXI secolo nello scenario del tentato golpe contro il Venezuela

Tatticamente occorre appoggiare i governi progressisti latino-americani, implementando però la strategia di radicalizzare i tentativi di cambiamento intrapresi, come negli anni ’60 fece Cuba.


Il socialismo nel XXI secolo nello scenario del tentato golpe contro il Venezuela

Mi rendo conto che mi accingo a trattare una questione assai delicata, che presenta molteplici sfaccettature e che può dar luogo a incomprensioni, suscitando anche un immediato e irritato rigetto. Ma credo che per il fatto che oggi esistono nel mondo – in questo contesto dobbiamo ragionare – numerosi gruppuscoli che si autodefiniscono comunisti, ma che non hanno pressoché nessuna incidenza sulla realtà e per di più sono spesso in rapporti astiosi tra loro, questa questione debba essere affrontata di petto (questo vale per Europa, America e Oceania; in Africa e in Asia ci sono partiti comunisti più consistenti sia pure di diverse tendenze). In particolare, è indispensabile far riferimento all’innegabile crisi, anche fomentata dall’esterno, dei governi progressisti latinoamericani, perché potrebbe fornirci l’occasione – spero – di ricucire le antiche lacerazioni ancora doloranti.

In primo luogo, vorrei spiegare a chi non la conosce la differenza tra “socialismo del XXI secolo” e “socialismo nel XXI secolo”. Nel primo caso, secondo lo stile postmoderno si intende sottolineare una rottura tra il socialismo del passato, drammaticamente naufragato, e quello contemporaneo; nel secondo, invece, si indica la presenza di un filo rosso che lega i due diversi fenomeni storici, che potrebbe esser rappresentato dalla volontà di plasmare in entrambi i casi i rapporti sociali sulla base del principio dell’uguaglianza.

I nostri mass media ci parlano costantemente della grave crisi umanitaria del Venezuela, attribuendone tutte le colpe al chavismo e facendo parlare solo il fantomatico Juan Guaidó che, dopo una telefonata con Mike Pence, vice-presidente degli Stati Uniti, si è autoproclamato presidente del Venezuela; e non lasciando nessuno spazio ai sostenitori della Rivoluzione Bolivariana, eletti regolarmente secondo le leggi proprie di quel paese.

Quanto alla crisi umanitaria, ci chiediamo esplicitamente quanto abbiano contribuito a generarla le sanzioni prese da Stati Uniti ed Europa (si veda anche Telesur), per esempio la non restituzione di 18 miliardi di dollari, trattenuti dai primi, il rifiuto di Londra di rimandare a Caracas un miliardo e 200 milioni di dollari in oro, depositati nella City, il mancato invio nel 2018 di 2 miliardi e 500 milioni di dollari. E la lista potrebbe continuare. Tutti questi dollari trattenuti in cambio di un miserevole aiuto umanitario di 20 milioni di dollari inviato da questi sedicenti benefattori, il cui scopo è solo quello di destabilizzare ancora di più il governo di Nicolás Maduro. Non dobbiamo neppure dimenticare l’accaparramento dei beni e farmaci indispensabili nella vita quotidiana scoperti e denunciati dal governo venezuelano.

A ciò dobbiamo aggiungere alcune informazioni sulla figura “pulita” del giovane Juan Guaidó [1], che ci schiariranno quali sono i metodi che da secoli le potenze imperialistiche utilizzano per creare a loro piacere le élite politiche dei paesi che intendono sottomettere. Secondo quanto si può ricavare dal web e dal video di Mario Albanesi, Guaidó non è proprio così “pulito” nello stile dei nuovi leader (Macron, Di Maio etc.), dato che è stato prodotto nei laboratori di Washington, come “leader democratico” per far collassare il Venezuela e trasformarlo in terra di saccheggio, come è accaduto all’Afganistan, all’Iraq, alla Libia. Infatti, nel 2005 su invito del CANVAS (Center for Applied Non-Violent Action and Strategies, derivazione della NED e della CIA) il giovane studente Guaidó arrivò a Belgrado per essere addestrato a sobillare le insurrezioni là dove non ci si allineava con Washington.

Inoltre, nel 2007, dopo essersi laureato presso l’università cattolica Andrés Bello di Caracas, andò a studiare negli Stati Uniti alla George Washington University sotto la guida di L. E. Berrizbeitia, uno dei più importanti economisti neoliberali latino-americani, funzionario del FMI e legato all’oligarchia venezuelana spodestata da Chávez. È stato molto attivo nelle manifestazioni di protesta contro la Repubblica Bolivariana, essendo un membro di spicco del gruppo Generazione 2007, nota per aver organizzato la “manifestazione dei sederi scoperti”, che richiama alla mente un atteggiamento di sottomissione più che di rivolta [2].

Aggiungo un ulteriore elemento per far luce sulle cause della crisi: la diminuzione dei prezzi delle materie prime, tra le quali il petrolio, che hanno danneggiato i paesi produttori, tra cui quelli latino-americani. Diminuzione, come ha sottolineato il presidente Putin nel 2014, dovuta soprattutto a fattori politici, quale per esempio la decisione statunitense di produrre gas e petrolio con il metodo altamente inquinante del fracking (assai più costoso dell’estrazione dai giacimenti tradizionali) al fine di aumentare la disponibilità di queste merci e con ciò l’abbassamento del loro prezzo nel mercato internazionale. Inoltre, gli Stati Uniti di concerto con l’Arabia saudita, loro tradizionale alleato, hanno operato congiuntamente in questa direzione per colpire soprattutto la Russia, ormai potenza emergente dopo la fine del regime di Yeltsin.

Non bisogna poi dimenticare la risoluzione ONU R2P (Responsabilità di proteggere), che ha sostituito l’ormai tanto criticata “guerra umanitaria”, approvata in un summit mondiale delle Nazioni Unite del 2005, secondo la quale ogni Stato ha il dovere di proteggere la sua popolazione dai crimini contro l’umanità; tuttavia, a ciò aggiunge che quando uno Stato è incapace ad intervenire, la comunità internazionale può farsi carico di questo problema. Osservava Noam Chomsky che l’unica organizzazione in grado di far questo è la Nato, dai cui ambienti, d’altra parte, è scaturita questa pericolosa direttiva (la Fondazione Rockefeller l’ha fortemente sostenuta).

Mi sembra che tutti questi elementi gettino una spessa ombra sulla possibilità che nello scenario mondiale contemporaneo si possa veramente parlare di “democrazia”, una delle parole più abusate, che nella sua versione originaria costituisce un regime assembleare e che nella definizione di Aristotele è il dominio dei poveri sui ricchi. Possiamo dire che un governo è “democratico” a seconda del parere degli Stati Uniti e dei suoi alleati, i quali – come si è visto – dispongono di tutti i mezzi ideologici, politici e militari per dichiarare un regime da loro non apprezzato (compreso l’uso massiccio dei mass media, e del cosiddetto law-fare) [3] non rispettoso della “democrazia” e dei “diritti umani” chi vogliono abbattere.

Quindi, l’attacco al Venezuela rientra in questa nota strategia delle “rivoluzioni colorate” di varie tinte, attizzate dall’esterno per mettere in crisi governi scomodi; metodo che può essere assimilato alla cosiddetta “strategia della tensione” italiana, la quale ci fece scoprire che il parere degli elettori – come in Grecia, Egitto, Venezuela – non valeva nulla, dato che vi erano organizzazioni pronte ad intervenire nel caso di una vittoria elettorale del PCI.

Dopo aver analizzato brevemente cosa fanno per mestiere gli imperialisti, soffermiamoci rapidamente sui limiti dei governi progressisti latino-americani, sulle quali alcuni analisti e politici puntano il dito. E qui mettiamo il dito nella piaga, perché molti ritengono che in questo drammatico momento, in cui può esplodere una guerra civile in Venezuela, non se ne debba parlare pubblicamente. Non sono di questa idea, perché non ci farebbe capire a fondo qual è la situazione attuale dell’America Latina.

Come mi diceva Isabel Monal, rivoluzionaria cubana, i governi progressisti sono nati da coalizioni spurie che comprendevano elementi moderati se non conservatori: vedi l’espulsione della corrente marxista dal PT di Lula avvenuta nel 2003, ricorda la riapertura di buone relazioni con gli Stati Uniti da parte di Lenin Moreno, che è stato a lungo al governo con Rafael Correa in Ecuador, l’insufficiente utilizzo del denaro ricavato dagli alti prezzi delle materie prime per lanciare l’industrializzazione, per esempio del Venezuela, garantendogli così una certa indipendenza economica, gli accordi dei Kirchner con il FMI che hanno portato ad un aumento del debito argentino e alla svalutazione nel 2014 del salario, la concessione da parte di Evo Morales del MUTUN, il più grande giacimento di ferro del mondo, alla transnazionale Jindal Steel per 40 anni, considerato da alcuni specialisti boliviani un gesto politico neoliberale [4]. A questi aspetti dobbiamo aggiungere innegabili elementi di corruzione registratisi nella gestione delle risorse amministrate dagli Stati, come PDVSA e PETROBRAS, dovute in gran parte al fatto che le strutture amministrative precedenti non sono state sufficientemente cambiate e non si è proceduto ad una loro vera democratizzazione, attivando forme di gestione da parte dei lavoratori.

La politica di Evo Morales, che ha anche introdotto lo studio delle lingue indigene nelle scuole andine, è stata considerata negativamente da James Petras (professore emerito di Sociologia alla Binghamton University di New York), il quale lo definisce addirittura un presidente neoliberale, populista che utilizza una retorica anti-neoliberale. Critiche analoghe a quelle qui riportate, che tuttavia si basano su fatti, sono state fatte dalle varie formazioni trotzkiste latino-americane e dal Partito comunista del Venezuela, che nel 2007 si è rifiutato di confluire nel PSUV di Chávez, pur sostenendo Maduro alle passate elezioni presidenziali, invitandolo a nazionalizzare il settore bancario e finanziario. Cosa ancora non portata avanti.

A quali conclusioni politiche ci portano questi ragionamenti? A mio parere non all’assunzione di una posizione di non appoggio ai governi progressisti dell’America Latina, perché con tutti i loro difetti rappresentano in questo drammatico momento la sintesi politica più avanzata dinanzi a un golpe di carattere internazionale, predisposto da Stati Uniti e UE, che se riuscisse farebbe ulteriormente peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori a livello mondiale. Inoltre, sempre dal mio punto di vista, è del tutto irrealistico dichiarare di fare appello esclusivamente a questi ultimi, lacerati, divisi, privi di organizzazioni politiche significative, contro questo terribile colpo inferto al Venezuela, che – come è avvenuto in Siria – può essere bloccato solo da una chiara presa di posizione della Russia e della Cina, che non sono ormai Stati a carattere socialista. Ci troveremo, dunque, insieme ai governi progressisti e con Cina e Russia, ma solo per una decisione tattica, e non strategica, la quale ha per obiettivo la riorganizzazione delle masse popolari a livello mondiale e la creazione di forme di governo anticapitalistiche, necessariamente antimperialiste, le quali creino le condizioni per l’affermazione di un’effettiva società democratica, da non confondere con quella in vigore in Occidente. Infatti, come scrive Luciano Canfora, da noi imperano regimi rappresentativi e non democratici, anzi con l’adozione del maggioritario apertamente antidemocratici.

D’altra parte, sarebbe opportuno riprendere l’appello del Partito comunista del Venezuela, che per la difesa del proprio paese auspica, tra l’altro, la formazione di “un’ampia alleanza patriottica e democratica popolare-rivoluzionaria, che colpisca i settori (venezuelani) principalmente i monopoli, in particolare il settore finanziario e speculativo, che quotidianamente saccheggia il nostro popolo”. Indicazione che chiaramente va nella direzione di una radicalizzazione della Rivoluzione Bolivariana, sinora mancata, senza la quale probabilmente essa non potrebbe resistere.

Concludendo, ovviamente sarà opportuno non confondere mai tattica con strategia, come secondo Aldo Natoli fece ad un certo punto il PCI, pensando che si sarebbe arrivati al socialismo ampliando i diritti politici dei lavoratori (la democrazia progressiva), ma accantonando la lotta di classe.


Note

[1] Debbo questa preziosa informazione a Orazio Di Mauro che ringrazio vivamente, informazione ormai reperibile anche nei siti internet italiani.

[2] Questa forma di protesta fu anche accompagnata dal lancio di escrementi confezionati in barattoli definiti “bomba puputovov” durante la marcha de la mierda.

[3] Mi riferisco alla guerra giudiziaria scatenata contro Lula da Silva, Correa e Cristina Fernández.

[4] Da questa operazione lo Stato boliviano avrebbe dovuto ottenere circa 50 milioni di dollari l’anno ed altri vantaggi, considerati pochi da chi ha sostenuto la necessità di un diretto intervento dello Stato.

16/02/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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