Il sogno reazionario della Grande Turchia

Erdogan utilizza l’ideologia neo-ottomana e il panturanismo per espandersi a spese di Siria, Iraq e dei curdi. Alla lunga Ankara può costituire una minaccia anche per la Russia e la Cina.


Il sogno reazionario della Grande Turchia

Il sogno neo-ottomano e panturanico di Recep Tayyip Erdoğan vive di spazi liminari: è tutto incluso nelle sfere di influenza di altre potenze (Stati Uniti, Unione Europea, Russia) e non può prescinderne. Tuttavia, Ankara sa sfruttare i limiti di queste potenze che per motivazioni diverse non possono a loro volta fare a meno dei favori della Turchia, in considerazione della sua posizione di confine tra mondi e alleanze diverse e contrapposte.

Così è accaduto che, nonostante la Turchia sia un membro della Nato e nonostante i contrapposti interessi sostenuti nel corso della Guerra Civile Siriana, Ankara sia divenuta dal 2016 un partner per la Russia di Putin alla quale ha di fatto strappato il non impedimento dell’invasione della Siria nordorientale con l’operazione “Sorgente di Pace” del 2019 ai danni di Damasco e ovviamente dell’esperienza di autogoverno dei Curdi siriani della Rojava.

La medesima cosa è accaduta all’epoca nei confronti dell’amministrazione Trump, quando quest’ultima decise di non intervenire in favore dei suoi “momentanei” alleati curdi, fino allora impiegati come copertura militare e pretesto per l'esistenza di proprie basi in Siria.

E anche nei rapporti con l’Unione Europea prevale la strategia reciproca dello scambio di favori con Bruxelles che con l’accordo del 2016 si è impegnata a pagare 6 miliardi di euro alla Turchia per il cosiddetto “contenimento” dei flussi migratori.

Ankara tra crisi economica e ricostruzione delle provincie dell’Impero

La Turchia non ha invero una grande base economica, considerando una bilancia commerciale perennemente in deficit e una specializzazione in settori di esportazione di certo non all’avanguardia come nel 2017 l’abbigliamento e gli accessori, il ferro e l’acciaio e la produzione di elettrodomestici e macchinari, oltre che il turismo ormai messo in crisi dalla pandemia di Coronavirus.

Per stare solo agli ultimi anni il deficit commerciale turco ha avuto questo andamento: 

- nel 2018 l’export era di 142.290 milioni di euro a fronte di importazioni per 188.337 milioni; nel 2019;

- nel 2019 l’export ha raggiunto i 153.261, l’import i 181.038 di euro;

- nel 2020 le esportazioni assommavano a 140.298 milioni di euro, le importazioni a 183.192 [1].

Un quadro di debolezza produttiva a cui si aggiunge quella della lira turca, un’inflazione che a marzo di quest’anno superava il 16% e una disoccupazione che raggiungeva il 13,4% nel 2020.

Tuttavia, a questa debolezza economica del capitalismo turco ha fatto da contraltare una politica estera di grande aggressività che ha toccato molti dei vecchi vilayet (provincie) dell’Impero Ottomano: dalla Libia alla Siria, dall’Iraq alla Palestina.

Nel paese nordafricano Ankara ha sfruttato la sua partecipazione alla recente guerra civile e compete ora con gli imperialismi europei, in primis quello italiano. Della Siria abbiamo già detto, mentre un’operazione molto simile a quella condotta sul territorio siriano la Turchia la sta effettuando anche nel Nord dell’Iraq dove ha impiantato diverse basi militari e dove conduce frequenti bombardamenti in funzione anti-Pkk.

In Palestina, infine, Erdogan è di fatto uno dei maggiori sponsor di Hamas, il che se lo pone in un temporaneo conflitto con Israele (con il quale ha avuto alterni rapporti nel corso degli anni senza però interrompere in alcun modo le relazioni economiche) e gli offre la possibilità di innalzare la bandiera prestigiosa della causa palestinese.

I curdi: ostacolo e giustificazione della politica neo-ottomana

La crisi economica che attanaglia la Turchia e la scarsa robustezza dell’economia paradossalmente obbligano il “sultano” a cercare una soluzione all’estero in una politica di avventura sempre più spericolata e nel mirino le risorse economiche dei vicini più deboli. In questo progetto i curdi e il loro movimento di liberazione nazionale, egemonizzato dal Pkk, costituiscono oggettivamente il più grande ostacolo. Non solo perché storicamente hanno posto in questione l’integrità del territorio nazionale turco, ma soprattutto perché animano la resistenza all'attuale espansionismo militare di Ankara sia in Siria, sia in Iraq. In entrambi questi paesi infatti le autorità centrali sono troppo deboli per impedire l’occupazione dei propri territori da parte dell’esercito turco, al di là delle proteste formali più volte avanzate da Damasco e Baghdad.

Nell’Iraq settentrionale non lontano dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno vi sono ingenti risorse petrolifere a Kirkuk e se al momento è impensabile appropriarsene direttamente da parte di Ankara, tuttavia una presenza militare stabile garantisce alla Turchia una maggiore possibilità di contare nell’area e anche un maggior controllo dei flussi petroliferi.

In quest’area, nel campo profughi di Makhmour il 5 giugno scorso i turchi hanno inviato un drone da bombardardamento, provocando la morte di tre persone e diversi feriti. I curdi ritengono che l'insediamento yazida che lì pratica una democrazia dal basso sul modello di quella del Rojava sia a rischio di sopravvivenza. Peraltro, non è inutile ricordare che i curdi che praticano il culto religioso dello yazidismo sono stati vittime del tentativo di genocidio del 2014, perpetrato dai tagliagole del cosiddetto Stato Islamico che ha causato la morte di 5mila persone e la tratta in schiavitù di migliaia di donne e bambini.

Il governo di Erdogan utilizza la presenza armata del Pkk e dei suoi alleati regionali come una giustificazione dei propri interventi armati: pertanto la lotta sacrosanta dei curdi per una propria autonomia e anche per la propria sopravvivenza fisica viene però impiegata dalla Turchia come “scudo ideologico”.

L’altra carta ideologica a forte proiezione estera che può giocarsi Erdogan è quella del panturanismo, una prospettiva politico-culturale sorta nella fase della decadenza dell’Impero Ottomano verso la fine dell’Ottocento e che si pone l’obiettivo dell'unificazione in un unico Stato di tutti i popoli di origine etnica turca: da quelli dell’attuale Asia centrale (Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Kazakistan), sino alla Mongolia e agli Uiguri della Cina, con propaggini perfino in Ungheria e in Giappone

Il panturanismo o panturchismo è inoltre la bandiera ideologica del partito nazionalista turco Mhp alleato di Erdogan e considerato vicino al movimento di estrema destra dei Lupi Grigi.

Ottomanismo e panturanismo: la duplice valenza reazionaria della Turchia di Erdogan

La nostalgia dell'Impero Ottomano, così come il desiderio di ricostituire una mitologica unità dei popoli di etnia turca ovviamente non hanno nulla a che fare con i loro precedenti storici. Ma si sa che lo stesso involucro ideologico può essere adattato a differenti modi di produzione: così l’Ottomanismo può ricoprire il gracile capitalismo turco, così come abbellì il mercantilismo della “Sublime Porta”.

Quello che interessa di più è però la forte valenza reazionaria che la Turchia di Erdogan apporta a questi ornamenti ideologici da museo della storia e ciò per due elementi diversi in gran parte collegati alla proiezione esterna del regime dell'attuale regime di Ankara:

1) la necessità per il regime dell’Akp di reprimere i curdi in Turchia e impedirne l’emancipazione e l'autogoverno nei paesi confinanti. Dato che al di là dei limiti e degli errori commessi dai gruppi dirigenti della sinistra curda l’esperienza di autogoverno nel Nord della Siria e in forme più limitate nel Nord dell’Iraq costituisce uno dei rari esempi di democrazia e rispetto dei diritti delle donne è evidente che l'espansionismo turco e la sua alleanza con il fondamentalismo islamico sunnita costituisca un tentativo di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia;

2) l’appello panturanico ai popoli dell’Asia centrale costituisce di fatto una minaccia per la Russia e perfino per la Cina in relazione alla questione degli uiguri dello Xinjiang, visto che Ankara fino a prova contraria e nonostante le sue bizzarrie rimane un paese membro della Nato. Ora, al di là del giudizio che si può dare dei regimi di questi due paesi, tra l’altro molto diversi tra loro, è indubbio che essi costituiscano la parte più rilevante del cosiddetto campo anti-imperialista, vuoi per motivi soggettivi, vuoi perché oggettivamente debbono per forza contenere la spinta aggressiva che viene dall’Occidente.

È evidente quindi che sia l’ideologia ottomanica, sia l’appello panturanico destabilizzano a medio-lungo termine le forze che al momento si contrappongono sul piano internazionale all’imperialismo occidentale. 

Il sultano alla lunga non potrà che tornare a guardare a Occidente: nessuno dei popoli in lotta nell’area del medio-oriente dai palestinesi ai curdi può fidarsi della mano protesa da Erdogan.

 

Note:

[1] https://www.infomercatiesteri.it/bilancia_commerciale.php?id_paesi=95

11/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Stefano Paterna

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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