L’arca di Ho Feng Shan

Chi la costruì, chi la custodì. Storia di un diplomatico cinese che contribuì a salvare migliaia di ebrei dallo sterminio. Shanghai è stata meta di tre ondate migratorie ebraiche. L’ultima, a differenza delle precedenti, non era costituita da uomini d’affari, banchieri o imprenditori, ma da persone disperate in fuga dall’Europa nazista.


L’arca di Ho Feng Shan

La storia che sto per raccontare inizia negli anni Trenta in Germania, dove il partito nazista al potere portava avanti il progetto di rendere l’intera Europa “judenrein” (“esente da ebrei”). Quando la Germania nel marzo 1938 annesse l’Austria, impose rapidamente il suo sistema di restrizioni antiebraiche anche lì.

La Notte dei Cristalli, dal 9 al 10 novembre 1938, segnò il culmine di queste tendenze, quando masse di persone in tutta la Grande Germania (cioè Germania e Austria) presero d’assalto sinagoghe e imprese ebraiche dando alle fiamme edifici e spaccando vetrine.

In una prima fase l’obiettivo di rendere “judenrein” l’Europa venne perseguito facendo in modo che gli ebrei se ne andassero. La loro partenza era soggetta a rigidi requisiti burocratici, come la registrazione dei loro beni, che potevano così essere confiscati legalmente, e subordinata all’ottenimento di permessi di ingresso o di passaggio in altri paesi.

Solo dal 1941 agli ebrei non fu più permesso di lasciare il Reich.

Henny Wenkart, un sopravvissuto alla Shoah, lo spiega chiaramente: “Quello che molti non capiscono è che all’inizio si poteva uscire. Tutti sarebbero potuti uscire, ma nessuno voleva farci entrare!”.

Infatti, i porti e le frontiere iniziarono presto a chiudersi per gli ebrei che cercavano di lasciare la Germania, che si videro negare i visti d’ingresso dalla maggior parte dei paesi.

Pochi sanno che invece Shanghai, che dalla splendida metropoli degli anni Venti si era trasformata nel fantasma di se stessa – sovrappopolata e in miseria – a causa della guerra con i giapponesi, era praticamente l’unico luogo disposto ad accogliere ebrei con o senza documenti in quei tempi bui.

Per molti di loro fu questo a determinare la differenza tra la vita e la morte.

A Shanghai, nel distretto di Hongkou, un piccolo affascinante museo chiamato “Jewish Refugees Museum (museo dei rifugiati ebraici) ne ricorda la vicende. Una targa commemorativa riporta:

“Nessun consolato, nessuna ambasciata a Vienna volle concederci il visto per emigrare, fino a quando… mi recai al consolato cinese dove, meraviglia delle meraviglie, mi venne concesso il visto non solo per me ma anche per i miei parenti. Grazie a questi visti potemmo imbarcarci sul piroscafo italiano Biancamano in partenza ai primi di dicembre del 1938 da Genova per Shanghai – un viaggio di circa 30 giorni”. Parole di Eric Goldstaub, rifugiato ebreo emigrato a Shanghai.

L’uomo che fece la differenza per Eric Goldstaub e molti altri si chiamava Ho Feng Shan.

Ho nacque nel 1901 nella zona rurale di Yiyang, provincia di Hunan, Cina. La sua famiglia era povera e il padre morì quando aveva sette anni, ma riuscì a studiare fino ai gradi più alti e divenne diplomatico. Nella primavera del 1937 fu nominato primo segretario della Legazione Cinese (Alto Commissariato o Ambasciata) a Vienna e, dopo la Notte dei Cristalli, il suo ufficio iniziò a rilasciare visti agli ebrei austriaci.

Quelli rilasciati dal dottor Ho erano visti d’ingresso per Shanghai, una città portuale aperta senza alcun controllo sull’immigrazione, occupata dall’esercito giapponese. Di conseguenza, chiunque poteva entrare senza visto, quindi perché rilasciare visti per Shanghai? 

In realtà, chi acquistava biglietti per un viaggio in nave in Austria doveva dimostrare di possedere un visto d’ingresso per la destinazione della propria nave. 

Mentre diverse migliaia di rifugiati ebrei austriaci utilizzarono i visti per Shanghai per stabilirsi colà, molti altri li usarono per lasciare l’Austria e raggiungere altre destinazioni. In effetti, durante il biennio 1938-1939, circa 16mila rifugiati ebrei dalla Grande Germania raggiunsero Shanghai, che divenne così una delle loro principali destinazioni.

Il numero esatto di documenti di ingresso emessi da Ho – e il numero di vite salvate – è difficile da calcolare, ma una stima verosimile ammonta a oltre 5mila.

La posizione di Ho si scontrava con quella del suo superiore, l’ambasciatore Chen Jie, che voleva rafforzare invece le relazioni del suo paese con la Germania, tanto che Ho ricevette un demerito nel suo curriculum diplomatico nel 1939, evidentemente per la questione dei visti. 

Inoltre, quando i nazisti confiscarono i locali che ospitavano l’ambasciata perché di proprietà di un ebreo, Ho aprì un nuovo ufficio con i propri soldi per continuare i soccorsi.

Nel 2000 Israele conferì il titolo postumo di “giusto tra le nazioni”, una delle sue più alte onorificenze civili, a Ho Feng Shan, e se vi recate al Jewish Refugees Museum, troverete all’interno di un cortile un busto che lo commemora. 

Certo, fu Ho a dare il via al miracolo dal suo ufficio di Vienna – i visti per Shanghai costruirono una vera e propria arca della salvezza per migliaia di ebrei austriaci – ma furono gli abitanti di Hongkou a Shanghai che fecero sì che quella fragile arca non si schiantasse sugli scogli dell’indifferenza o del razzismo.

Il 18 febbraio 1943, le autorità giapponesi di Shanghai proclamarono ufficialmente “l’area designata per i rifugiati apolidi” nel distretto di Hongkou, che divenne noto come “Ghetto di Shanghai”, un’area sovraffollata e indigente dove però, a differenza che nell’Europa nazista, gli ebrei non dovettero mai affrontare la minaccia dello sterminio.

Sovraffollamento, malnutrizione e malattie erano prevalenti nel ghetto, che ospitava anche molti cinesi. Questi vivevano accanto ai profughi e, secondo diverse testimonianze di gratitudine presenti nel museo, spesso condividevano con loro il poco che avevano.

L’ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti Michael Blumenthal e l’artista pop Peter Max furono fra i più famosi migranti ebrei che vissero come rifugiati a Hongkou durante la seconda guerra mondiale.

Chi visita il museo si imbatte in molte storie toccanti, una delle quali è quella di Lin Daozhi: preside di una scuola del settore per profughi apolidi, gli furono affidati alcuni libri in inglese, tedesco ed ebraico dal suo vicino Carl, ex preside lui stesso. Quando Carl partì per la Germania, Lin promise che si sarebbe preso cura dei libri finché Carl non fosse tornato a prenderli. Carl non sarebbe mai tornato a Shanghai, ma dopo la morte di Lin nel 1981, fu la sua famiglia ad assumersi il compito di conservare i libri, che ora si trovano nella biblioteca di Hongkou (una piccola parte è invece esposta nel museo stesso).

Nel suo libro Il santuario di Shanghai, Gao Bei ha osservato che i media e gli accademici cinesi hanno svolto un ruolo significativo nel persuadere la gente del posto ad aiutare i rifugiati. Poiché Shanghai all’epoca soffriva duramente per l’occupazione giapponese, i cinesi svilupparono una naturale simpatia per i rifugiati ebrei, il cui destino pareva in qualche modo simile al loro

La vicenda degli ebrei rappresentava inoltre una lezione oggettiva per i cinesi. Come ammoniva un editoriale del principale quotidiano “Shenbao”: “Se il popolo cinese vuole evitare le stesse sofferenze che sta vivendo il popolo ebraico, deve prima salvare la sua preziosa patria… in modo che i cinesi non diventino i secondi ebrei”. (“Global Times”, Life in the Ghetto, 10/XI/2013) 

Anche in Italia la figura di Ho Feng Shan ha avuto un riconoscimento ufficiale: nel 2018 la città di Milano gli ha intitolato una piazzetta all’incrocio tra via Paolo Sarpi e via Paolo Lomazzo [1].

 

Note:

[1] Per approfondimento si può consultare questo video: https://youtu.be/qAqfStU47N0

  

29/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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