Migrazioni climatiche (prima parte)

Un’analisi dei flussi migratori causati dai cambiamenti climatici, che superano quelli dovuti agli eventi bellici. Le normative sovranazionali non hanno ancora recepito il problema che pertanto genera clandestinità.


Migrazioni climatiche (prima parte) Credits: https://www.publicdomainpictures.net/pictures/300000/velka/klimaschutz-15628458160Ql.jpg

Il genere umano, sin dall'epoca preistorica, è sempre stato interessato da spostamenti, su scala più o meno ampia, generati da una vasta gamma di motivazioni, fra le quali principalmente: la ricerca di nuove terre, l'aspirazione verso migliori condizioni di vita, l'espansione coloniale, la fuga da guerre, persecuzioni e discriminazioni varie ed anche da fenomeni naturali avversi quali catastrofi e cambiamenti climatici. Numerosi sono i casi storici di movimenti di interi popoli o di parte di essi sospinti da fenomeni naturali, in quanto le migrazioni hanno da sempre rappresentato una fondamentale strategia di adattamento ai mutamenti climatico-ambientali. Nonostante ciò, l'élite politica mondiale e i media internazionali non hanno, sino a pochi anni fa, prestato particolare attenzione a questo fenomeno. La comunità scientifica mondiale, invece, dalla fine del scorso secolo ha mostrato crescente interesse sia verso lo studio dei cambiamenti climatici che delle sue conseguenze, come l'impatto sui flussi migratori.

Le problematiche metodologiche

L'analisi del fenomeno ha tuttavia evidenziato criticità di carattere metodologico a seguito della sua complessità e della sua eterogeneità, pertanto, nonostante le pubblicazioni accademiche abbiano registrato un sensibile incremento nell'ultimo ventennio (Amato 2019 [1]), la sua conoscenza risulta ancora frammentaria e non del tutto esaustiva. Le difficoltà di indagine riguardano aspetti di diversa natura legati, in primis, alla peculiarità del fenomeno migratorio che si può manifestare in ampia gamma di variabili riconducibili alla durata, temporanea o definitiva, alle cause, volontarie o forzate, e al raggio di spostamento, interne, internazionali o intercontinentali.

Per quanto riguarda il rapporto tra fenomeni naturali e migrazioni, che in questo contesto ci proponiamo di indagare, i primi possono essere distinti, in base alla dinamica temporale in cui si manifestano, in eventi a "insorgenza lenta" come i cambiamenti climatico-ambientali (riscaldamento globale, desertificazione, innalzamento del livello dei mari, erosione dei suoli ecc.) e ad "insorgenza rapida" come uragani, tempeste, bombe d'acqua e inondazioni oltre alle calamità naturali (terremoti, tsunami ed eruzioni vulcaniche). La diversa natura e tipologia di fenomeno scatenante genera inevitabili riflessi sulle caratteristiche dei flussi migratori, infatti mentre i fenomeni ad "insorgenza lenta" spesso generano migrazioni volontarie mosse da motivi economici, le risposte ad eventi ad "insorgenza rapida" risultano invece prevalentemente involontarie e di breve durata.

Nell'intento di effettuare una classificazione delle migrazioni riconducibili a soli fattori climatici e ambientali, escludendo quindi i fenomeni geofisici come terremoti e tsunami, una corrente di studiosi ha identificato 4 tipologie distinte, equamente ripartite fra processi progressivi ed eventi improvvisi: 1) perdita di territorio dovuto a innalzamento del livello del mare, 2) siccità e desertificazione, 3) disastri naturali come alluvioni, cicloni e tempeste e 4) conflitti per le scarse risorse che possono portare a tensioni e violenze.

Opera abbastanza complessa si presenta quindi la l'individuazione, la quantificazione e la classificazione degli spostamenti generati da fenomeni naturali che, nella sostanza a causa della comune origine involontaria, vanno ad aggiungersi alle altre tipologie di migrazioni forzate, riconducibili a guerre, conflitti, persecuzioni personali e calamità naturali. Nonostante il riscaldamento globale, la cui origine antropica sia ormai ampiamente comprovata dalla comunità scientifica mondiale, e i conseguenti cambiamenti climatico-ambientali (siccità, desertificazione, piogge intense, inondazioni, innalzamento del livello dei mari ecc) siano alla base di un numero crescente di spostamenti di persone in tutte le aree del pianeta (Amato, 2019), è opportuno evidenziare come alle migrazioni climatiche non sia stata ancora attribuita una precisa definizione, sia in campo semantico che in quello giuridico.

Elementi di criticità ad oggi restano oltre all'identificazione del fenomeno, anche la sua estensione territoriale, le cause e la terminologia da utilizzare per identificarlo. I soggetti interessati dal fenomeno vengono definiti indistintamente come: profughi ambientali, migranti ambientali, profughi climatici, rifugiati climatici o rifugiati ambientali. Quest'ultimo termine, che risulta il più utilizzato, non viene però adottato dalle Nazioni Unite in quanto lo status di rifugiato viene riconosciuto dal diritto internazionale (Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951) ai perseguitati per motivi razziali, religiosi, politici e a chi in fuga da guerre ma non per cause climatiche o ambientali (Amato, 2019). Un vulnus nell'architettura normativa sovranazionale che rappresenta elemento di discriminazione e che necessita di essere colmato, appurato il consistente numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case a seguito di fenomeni naturali avversi.

Sullo sfondo dell'ambito metodologico, si staglia, in veste di problematica principale, la determinazione della causa che, sia nel caso di spostamenti interni che internazionali, si presenta non di rado in forma non univoca. Frequentemente sussistono infatti molteplici cause, spesso interagenti fra loro, riconducibili a fattori di natura sociale, economica, demografica, politica, bellica e ambientale che rendono difficile ricondurne l'origine ad una in particolare. Ad esempio risulta problematico identificare l'origine della migrazione, fra economica e climatica, nel caso in cui il surriscaldamento globale, comportando una riduzione delle rese agricole, spinge i piccoli produttori nella povertà estrema costringendoli ad abbandonare le proprie terre.

L'origine del termine "migranti climatici" venne coniato nel 1976 dall'ambientalista statunitense Lester Brown, tuttavia, il "padre" della corrente di pensiero viene considerato l'ambientalista inglese, professore ad Oxford, Norman Myers il quale già alla metà degli anni ’90 affermava che a livello mondiale erano presenti circa 25 milioni di “rifugiati climatici” prevedendo che nel 2050 avrebbero raggiunto quota 200 milioni. L'espressione “rifugiato ambientale”, invece, venne utilizzato per la prima volta in un report delle Nazioni Unite del 1985 e, successivamente, inserita nel 1997 nel Glossario di Statistiche Ambientali in riferimento a “una persona sfollata per cause ambientali, in particolare degrado ambientale”.

Tutt'oggi non è stata ancora trovata né una definizione condivisa, né il suo inquadramento giuridico a causa dell'inerzia politica, in quanto un accordo a livello intergovernativo che modifichi il diritto internazionale introducendo il riconoscimento dello status di "rifugiato ambientale o climatico", con il conseguente obbligo di non respingimento degli stessi alle frontiere, amplierebbe la platea delle persone da accogliere, aumentando le problematiche sociali e logistiche ed i costi per gli stati di arrivo. Pertanto, l'immobilismo della leadership politica internazionale, che peraltro non tiene in considerazione l'aggravarsi degli effetti della crisi climatico-ambientale sulle condizioni di vita delle persone, si concretizza nel fatto che i soggetti coinvolti, non avendo riconosciuto il loro status dal punto di vista giuridico e adeguata protezione internazionale, finiscono per ingrossare le file dell'immigrazione irregolare internazionale.

Una panoramica globale

Le emissioni antropogeniche di gas climalteranti, che già alla fine del 2018 avevano fatto salire la concentrazione di CO2 nell’atmosfera a 410 ppm (parti per milione), con aumento di circa 100 punti solo negli ultimi 60 anni (grafico 1), rappresentano la causa principale dell’aumento della temperatura media globale che, rispetto al periodo pre industriale, è aumentata di 1,1° con un'impennata nel quinquennio 2014-2019 di ben 0,2° a conferma dell'aggravamento del trend in atto.

Grafico 1: aumento della concentrazione di Co2 in atmosfera per parti per milione (ppm) 1958-2018

 

Il fenomeno, tuttavia, evidenzia elementi di complessità e di difformità geografica accertato che il riscaldamento globale, da un lato, non si presenta in forma omogenea nell'atmosfera terrestre, vista ad esempio la maggior intensità registrata alle alte latitudini (carta 1), dall'altro, innesca un ampio spettro di mutamenti climatici dai connotati locali talvolta molto diversi, che stanno assumendo negli ultimi anni frequenza e intensità crescenti, con inevitabili riflessi sulle condizioni di vita delle popolazioni.

Dal rapporto pubblicato nel 2017 dal Carbon Disclosure Project emerge come le maggiori responsabilità del fenomeno siano riconducibili alle principali 100 società mondiali, sia pubbliche che private, del settore energetico, le quali tra il 1988 e il 2015 avrebbero rilasciato oltre il 70% delle emissioni globali e che anche a livello dei singoli paesi risultano gravi squilibri visto che solo Cina, Ue e Usa provocano oltre la metà del totale delle emissioni. Fuoriesce un quadro abbastanza nitido rispetto alle responsabilità che non sono attribuibili all'umanità in toto bensì a determinati stati, alle grandi imprese ed ai gruppi finanziari che vi investono.

Carta 1: aumento della temperatura media dell'anno 2017 rispetto alla media del periodo 1951-1980

 

Le difficoltà metodologiche precedentemente rilevate rendono problematico da quantificare un fenomeno che, come visto, risulta complesso, spesso multicausale [2] e, soprattutto, riguardante soggetti il cui status non è stato ancora precisamente definito e tanto meno tutelato dal diritto internazionale. In considerazione di ciò, lo studio del fenomeno presenta un certo grado di complessità e di difficoltà oggettive in quanto, nonostante la lunga ricerca, non è risultato possibile attingere dati da fonti ufficiali circa l'entità del fenomeno globale, composto sia dalle migrazioni internazionali che da quelle interne: per le prime sono state diffuse solo stime, mentre per le seconde l'istituto più autorevole impegnato a monitorare, l’Internal Displacement Monitoring Centre (Centro di monitoraggio degli spostamenti interni), è attivo solamente dal 2008.

Un arco di tempo non lungo ma sufficiente a comprenderne le dimensioni e le tendenze visto che, in base a questa fonte, solo le persone costrette a spostarsi all'interno dello stesso paese (internally displaced persons) a causa di fenomeni climatico-ambientali fra il 2008 e il 2014 sono risultate oltre 150 milioni, un numero superiore rispetto a quello causato da guerre e conflitti e addirittura, nello stesso periodo, oltre 170 milioni secondo i dati dell'Unione Europea (tabella 1).

Tabella 1: sfollati interni a livello globale 2008-2016 in milioni di persone - Fonte Unione Europea


Migranti climatici e ambientali interni
Fonte Ue

Anno

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

Milioni

36,5

16,7

42,4

15

34,4

22,1

19,1

19,2

24,2

In base a recenti pubblicazioni sul tema emerge come gli effetti dei cambiamenti climatici e dei fenomeni estremi inneschino prevalentemente mobilità forzate interne invece che internazionali, ciò a seguito sia della scelta prioritaria di non spostarsi al di fuori del proprio paese, dove le condizioni di vita diventano più difficili, sia per l'impossibilità delle persone in stato di fragilità estrema a muoversi (trapped population) (Amato, 2019). Nell'ambito di questa analisi, risulta utile supporto uno studio [3] che ha indagato il rapporto tra l’aumento della temperatura globale e la migrazione internazionale prendendo in esame 116 paesi, suddivisi fra paesi a basso e a medio reddito, nel periodo compreso fra il 1960 e il 2000.

L'indagine parte dall’ipotesi che nel lungo termine il riscaldamento atmosferico impoverendo le popolazioni rurali e peggiorando le loro condizioni di vita, influenzi la migrazione, ma con modalità diverse a seconda del reddito delle popolazioni. I risultati delle analisi confermano questa ipotesi: da un lato l’aumento graduale della temperatura contribuisce ad un aumento dei flussi migratori dai paesi a medio reddito. Al contrario, lo stesso fenomeno contribuisce a ridurre l’emigrazione da paesi più poveri. Questo risultato mette in luce l’esistenza di una relazione di costo-opportunità fra gli alti incentivi a migrare e le risorse per farlo. L’aumento della temperatura, infatti, provocando un calo della produttività agricola, genera un maggiore spinta migratoria. Pur rappresentando un significativo input, questo calo del reddito riduce la possibilità di emigrare da paesi meno sviluppati, dove un'elevata percentuale di persone vivono con un misero reddito addirittura sotto la soglia di povertà estrema di 1,90 $ al giorno, in particolare in Africa Sub-Sahariana dove nel 2015 in tale condizione si trovava ancora il 41.2% della popolazione totale [4]. Il riscaldamento globale tende quindi ad intrappolare le popolazioni povere nei loro territori di appartenenza a causa dell'elevato costo degli spostamenti internazionali che i potenziali migranti hanno raramente capacità di finanziare.

Un secondo importante risultato emerso dall'analisi è che i flussi migratori da paesi a medio reddito causati dell’aumento della temperatura, sono principalmente diretti verso destinazioni limitrofe, in genere nel raggio di 1.000 km, come ci confermano i dati dell'Unhcr [5].

Procedendo quindi all'analisi degli unici dati attendibili e completi, vale a dire quelli relativi agli sfollati o ai dislocamenti interni, secondo il Global Report on Internal Displacement (2019) pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), i nuovi spostamenti interni a livello globale a fine 2018 (tabella 2) raggiungevano i 28 milioni di unità che interessavano 148 paesi dei quali, 17,2 milioni a causa di calamità naturali e 10,8 per conflitti. Le migrazioni interne sono dunque per il 61% legate a eventi naturali e di queste la stragrande maggioranza è rappresentata da persone costrette a fuggire da eventi climatici estremi: 16,1 milioni per alluvioni, cicloni e tempeste, mentre solamente 1,1 milioni riconducibili a fenomeni geofisici, principalmente terremoti [6].

Il rapporto indica che il totale mondiale degli sfollati interni, a causa sia di fenomeni naturali che di violenze, aveva raggiunto a fine 2018, i 41,3 milioni di persone, la cifra più elevata mai registrata secondo la direttrice dell'IDMC Alexandra Bilac. Un fenomeno che appare fortemente concentrato in specifiche aree, appurato che 3/4, ovvero 30,9 milioni di persone, si trovano in soli dieci paesi, principalmente Siria (6,2), Colombia (5,8), Repubblica Democratica del Congo (3,1), Somalia (2,6) e Afghanistan (2,6) che da sole ne ospitano quasi la metà.

Tabella 2: nuovi spostamenti interni a livello globale anno 2018

Nuovi spostamenti interni a livello globale: 28.000.000

calamità naturali:

Conflitti:

17.200.000
(61%)

10.800.000
(39%)

alluvioni, cicloni e tempeste:

fenomeni geofisici:

 

16.100.000

1.1000.000

Fonte: Global Report on Internal Displacement (2019) del Internal Displacement Monitoring Centre.

 

Premettendo che di anno in anno il quadro mondiale degli sfollati interni appare in sensibile mutamento a causa sia dell'improvvisa esplosione di conflitti che dall'imprevedibilità temporale e geografica dei fenomeni climatici, dall'analisi dei dati macroregionali disaggregati, in base alle cause dei nuovi ricollocati interni del solo 2018, suddivisi fra eventi naturali e conflitti, fuoriesce un quadro eterogeneo (tabella 3): mentre i primi superano i secondi in Asia orientale e Pacifico (9,3 milioni contro 236.000), Asia meridionale (3,3 milioni contro 544.000), Americhe (1,7 milioni contro 404.000), Europa e Asia centrale (41.000 contro 12.000), in Africa Sub-sahariana (2,6 e 7,4 milioni) e nell'area Medio Oriente e Nord-Africa (214.000 contro 2,1 milioni), a causa dell'elevato numero di guerre e scontri armati, la situazione era invertita.

Tabella 3: dati macroregionali disaggregati in base alle cause dei nuovi ricollocati interni del 2018


Nuovi sfollati interni per macroregione e per cause di ricollocamento anno 2018

 

 

Asia orientale e
Pacifico

 

Asia meridionale

 

Americhe

 

Medio Oriente e
Nord-Africa

 

Africa
Sub-sahariana

Eventi naturali

9,3
milioni

3,3
milioni

1,7
milioni

2,6
milioni

214.000

Conflitti

236.000

544.000

404.000

7,4
milioni

2,1
milioni

Fonte: Global Report on Internal Displacement (2019) del Internal Displacement Monitoring Centre


L'intensificarsi dei fenomeni meteorologici estremi, come visto, ha determinato la maggior parte dei nuovi spostamenti innescando, nel 2018, 17,2 milioni di nuovi ricollocamenti su 28 milioni; dislocamenti interni che geograficamente hanno interessato, soprattutto, l'Asia meridionale e orientale, accertato che Filippine (3,8), Cina (3,8) e India (2,7) hanno assorbito circa il 60% del totale di nuovi sfollati, principalmente sotto forma di evacuazioni. Al quarto posto seguono gli Stati Uniti, unico paese ad economia avanzata fra i primi 10, con 1,2 milioni di sfollati confermando da un lato che i fenomeni naturali estremi colpiscono soprattutto le zone tropicali asiatiche e il Sud del mondo in generale, dall'altro che i paesi sviluppati, anche che se localizzati prevalentemente nella fascia temperata, non ne sono di certo al riparo.

Segue sul prossimo numero in uscita sabato 28 marzo 2020

Note:

[1] Saggio "Le migrazioni e l'Atropocene" di Fabio Amato in "Geografia e Antropocene. Uomo, ambiente, educazione" a cura di C. Giorda, Carocci editore, Roma 2019, da pag 96 a pag 104.
[2] Quinto Rapporto del 2014 del Gruppo di lavoro Ipcc II (Intergovernamental Panerl on Climate Change)
[3] Cattaneo C. & Peri G. (2016) “The Migration Response to Increasing Temperatures”, pag 122-146.
[4] Andrea Vento, 2019 - Africa: povertà e denutrizione in aumento nonostante la crescita economica e l’aumento dell’import di prodotti agro-industriali
[5] UNHCR - Homepage - UNHCR (statistiche)
[6] GRID 2019 | Global Report on Internal Displacement 2019

21/03/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Andrea Vento

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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