Mother India

Un’intervista ad un testimone diretto del processo di indipendenza dell’India dal dominio coloniale inglese, divenuta oggi una potenza economica in piena esplosione


Mother India Credits: alokranjan1981.blogspot.it
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Non c’è nulla che faccia sentire un individuo figlio della propria Nazione più di aver combattuto per la sua indipendenza. E, certamente, quando parliamo di combattere, pensiamo subito ad eventi sanguinosi, ed anche in questo caso ve ne sono stati, ma, per chi non conosce bene la Storia dell’Indipendenza indiana, essa viene generalmente associata alla figura del Mahatma Gandhi ed alla sua opposizione al colonialismo inglese basata sul principio della non-violenza.

Sono passati 70 anni da quando, il 15 agosto del 1947, la più grande Repubblica del mondo ha visto la luce [1] ed è importante comprendere come il processo di Indipendenza indiana abbia seguito una strada diversa da quello della Partizione.

Ad aiutarci a comprendere, le parole di un testimone diretto, un Freedom Fighter [2] che vive da oltre 50 anni in Italia, cittadino italiano da oltre 40. All’epoca dei fatti aveva 18 anni. Si chiama Dott. Y.K.S. Murthy e il suo nome è oggi associato al mondo della Scienza, noto microbiologo ed eminente ricercatore, classe 1929.

Dott. Murthy, nel 1947 lei era appena maggiorenne, ma già da tempo impegnato nel Movimento di liberazione indiana “ Quit India”. Ci vuole raccontare in che modo e a che età ha deciso di diventare un attivista del Movimento?

L’8 agosto del 1942, Gandhi dà inizio al Movimento con un discorso pubblico in un parco di Bombay. Io avevo 13 anni e mezzo e l’impatto di quelle parole, con cui si invitavano gli inglesi a lasciare spontaneamente il Paese, raggiungeva le piazze di tutta l’India. Un mio amico, il Sig. Prananath, mi invitò a partecipare a delle riunioni clandestine (clandestine perché il Governo inglese aveva reagito all’attività di Quit India con l’arresto del Mahatma e di tutti gli altri membri del Congresso dichiarati fuorilegge). Ci riunivamo in un cimitero abbandonato. Ero molto giovane e rimasi infiammato dalle parole che ascoltai. Bangalore, la mia città, era la sede del più importante contingente militare della Corona nel Sud dell’India. Inoltre, la città faceva parte dello Stato di Mysore, governato da un Maharaja che altro non era se non un amministratore indiano della Corona, letteralmente un “ British Resident” alleato degli inglesi. Ovviamente, io partecipavo a queste riunioni all’oscuro dei miei genitori. Tra l’altro mio padre era un’importante personalità dello Stato, il primo medico radiologo di tutta la Regione, e temevo di nuocergli. A 14 anni ero già iscritto all’Università e noi studenti eravamo controllati dalla Polizia Speciale del Maharaja che lavorava in accordo con gli inglesi. Fui arrestato e detenuto nelle carceri della città per due settimane, minorenni con maggiorenni, tutti insieme. A quel punto, mio padre venne a conoscenza di tutto ed ottenne il permesso di riportarmi a casa sotto la sua tutela. Per fortuna, senza conseguenze per la sua carriera. Io so perché sono stato arrestato, ma è un dato che non mi è permesso rivelare: avevamo giurato di mantenere segrete le nostre azioni fino alla morte ed ho intenzione di mantenere quel giuramento. Posso solo dire che sono stato fermato senza nessun capo d’imputazione preciso e detenuto come possibile sospetto: nessun processo, nessuna difesa.

Nel cappello introduttivo si è fatto cenno alla differenza tra Indipendenza e Partizione dell’India. Ci vuole aiutare a capire meglio?

Indipendenza e Partizione sono effettivamente due processi completamente diversi, sebbene correlati. In qualche modo, la Partizione è una diretta conseguenza dell’Indipendenza indiana, voluta e stimolata dai poteri forti uscenti. In tutti i colonialismi vi è sempre la volontà di tenere soggiogato il Paese occupato e non c’è niente di meglio che lasciarlo profondamente diviso al suo interno. Le due maggioranze etniche, culturali e religiose – induisti e musulmani- hanno convissuto pacificamente per secoli finché, intuendo di dover lasciare l’India, il Governo inglese non decise di fomentare e, direi, di sovvenzionare la nascita della Lega Musulmana che rivendicava una “casa” per tutti i musulmani d’India. La figura di Muhammad Ali Jinnah è fondamentale per comprendere questo passaggio. Fino al 1940, infatti, questo grande avvocato, educato nelle migliori Università inglesi, aveva, in accordo con le idee di Gandhi, sostenuto l’importanza di una collaborazione tra induisti e musulmani per la costituzione di un unico grande Paese. Nel 1940, comincia invece a parlare di una “terra promessa” per i musulmani e così a prospettare una partizione. Esattamente 48 ore dopo la dichiarazione di indipendenza dell’India da parte degli inglesi- avvenuta ufficialmente alle ore 24.00 del 15 agosto 1947- viene dichiarata anche, da parte degli stessi, la partizione del Paese in Unione Indiana e Pakistan. Jinnah divenne il primo Governatore generale del Pakistan. In quei primi giorni dopo l’Indipendenza vi fu una migrazione di 7 milioni di musulmani e di 5 milioni di induisti e circa un milione di morti: una carneficina innescata da un potere uscente che lasciava dietro di sé confini irreali. Fu il tentativo, pianificato a tavolino, di dimostrare che in India si stava meglio quando si stava peggio.

Dunque, se dovesse descrivere l’atteggiamento dell’allora Impero Inglese rispetto al legittimo desiderio di indipendenza dell’India, lo descriverebbe come un atteggiamento di dura repressione o di graduale uscita di scena?

Gli inglesi non avevano alcuna intenzione di lasciare l’India. Il loro è sempre stato un tipo di colonialismo fondato sullo sfruttamento economico delle risorse indiane e purtroppo anche su una posizione di soggezione culturale. I ruoli di potere, di comando furono sempre e solo affidati ad alti funzionari inglesi, mai ad indiani. L’esempio dei Maharaja è calzante: essi erano indiani, ma profondamente corrotti che non hanno esitato a stabilire trattati di comodo con la Corona inglese pur di mantenere privilegi di potere feudale.

Con questo non voglio dire che la popolazione indiana fosse unita ed omogenea: piuttosto un coacervo di etnie, lingue, religione. Tessuto prolifico per un colonizzatore. Eppure, non posso neanche dire che ci fosse una forma di animosità reciproca tra inglesi ed indiani: molti inglesi si erano trasferiti ormai da generazioni in India, avevano costruito famiglie, generato figli; altrettanti indiani avevano perfezionato la loro formazione accademica nelle migliori università inglesi, sebbene non vi fosse facile accesso per certi tipi di facoltà come quelle tecniche. Insomma, di norma, una volte rientrati in India, si faceva solo un determinato tipo di carriera e solo fino ad un certo livello. La convivenza tra indiani ed inglesi era per lo più serena, ma la politica economica era divenuta inaccettabile. Mantenere la gente comune in uno stato di prostrazione materiale quando l’Inghilterra depredava sistematicamente le materie prime del paese. Un esempio banale fra tutti: i gioielli della Corona sono stati realizzati con oro e preziosi provenienti dalle miniere indiane e africane. Potremmo, inoltre, parlare delle restrizioni sulla lavorazione del cotone che veniva coltivato in India, trasportato in Inghilterra, lì manufatto e rivenduto come cotone inglese in tutto il mondo, quando in India vigeva il divieto di lavorazione secondo tecnologie raffinate. Insomma, gli indiani dovevano accontentarsi di un tessuto di pessima qualità perchè agli inglesi spettava quel primato. E molti altri esempi ancora...

Quali furono, a suo avviso, gli errori più gravi di gestione da parte dell’Inghilterra nel processo di indipendenza?

Guardi, ad essere onesto, non credo che l’Inghilterra abbia commesso errori strategici. Mi spiego: visto dall’ottica colonialista, la loro politica è stata impeccabile. Posso definirla furba, ma non sbagliata. La repressione, l’arresto dei cosiddetti “fuorilegge”, le stragi, come quella di Amritsar [3], rientrano nel prezzo da pagare in un regime, anche se questo si sforza di non apparire tale. La cosa che, eticamente, trovo più grave è l’aver lavorato per portare il Paese sul baratro della guerra civile. Il panorama religioso, culturale, linguistico ed etnico dell’India era ed è ancora molto eterogeneo, dunque non era difficile far leva sugli interessi particolari delle varie comunità. L’India stessa, come la conosciamo oggi, non esisteva, si trattava di un insieme di principati, stati indipendenti governati da Raja che, presto, stipularono trattati economici con il governo inglese. Dunque, la convinzione che il paese non fosse in grado di auto-amministrarsi al di fuori di un governatorato straniero, spinse l’impero britannico a non prendere in seria considerazione le istanze indipendentiste nate già ad inizio ‘900. Inoltre, non possiamo dimenticare le condizioni economiche disastrose dell’Inghilterra tra il 1942 e il 1945, impegnata su vari fronti durante la II Guerra Mondiale: impensabile accettare di buon grado di lasciare una colonia così fruttuosa dal punto di vista delle materie prime e, anche, delle risorse umane. Il British-Indian Army contava ben 2.500.000 unità durante il secondo conflitto mondiale: il più grande contingente di volontari impegnato sui più disparati campi di battaglia, compreso Montecassino e con un tributo totale di ben 87.000 vittime.

Per concludere, vorrei farle una domanda piuttosto personale. All’indomani dell’Indipendenza dell’India, lei era uno studente universitario. Come cittadino di una ex colonia avrebbe potuto, cosa che tanti suoi connazionali hanno fatto, scegliere di continuare i suoi studi in un’università inglese, ma no lo ha fatto. Ci vuole spiegare le sue ragioni?

Certamente, mio padre mi offrì l’opportunità di andare a studiare in Inghilterra, così come aveva fatto mio nonno e tanti indiani delle precedenti generazioni. L’Inghilterra rimaneva una meta importante per l’istruzione accademica, ma, in quegli anni, una nuova “Mecca” universitaria si stava affermando, soprattutto in campo scientifico - il mio settore di interesse - ed erano gli Stati Uniti. E’ lì che scelsi di andare, ma non subito dopo l’Indipendenza. Ho proseguito i miei studi in India conseguendo la mia seconda Laurea a Bangalore ed il Master presso l’Istituto di Ricerca di New Delhi, tra il 1946 ed il 1953, dove sono stato formato, finalmente, da docenti indiani, molti dei quali provenienti dalla prima generazione di coloro che avevano scelto di completare l’Istruzione Superiore in America. Gli USA offrivano molte borse di studio per il dottorato di ricerca ed è per questo, segnalato anche dai miei professori, che decisi di andare in quella parte del mondo, alla fine del 1953. Se mi sta chiedendo se la mia scelta fu dettata da un sentimento di animosità nei confronti dell’Inghilterra, la mia risposta è: no! Sono sempre stato critico nei confronti del loro modo di amministrare il mio Paese d’origine, ma sono uno scienziato e non avrei esitato ad andare a completare i miei studi lì se solo mi fosse stata offerta un’occasione altrettanto vantaggiosa.


Note:

[1] La Repubblica federale indiana conta 1.324.000.000 abitanti.

[2] Freedom Fighter è un termine inglese per indicare chiunque decida di diventare un “combattente per la libertà” del proprio Paese che ritiene soggetto ad un potere straniero illegittimo.

[3] Massacro di Amritsar o anche massacro di Jalianwalla Bagh è il nome che indica un episodio avvenuto il 13 aprile 1919 ad Amritsar, principale città dello stato indiano del Punjab, allora parte dell'India e quindi dell'Impero britannico. Il generale Reginald Dyer ordinò alle sue truppe, in parte britanniche e in parte Gurkha di aprire il fuoco sulla folla che assisteva ad un comizio in un'angusta piazzetta della città, causando più di 1500 tra morti e feriti. Non ritenne di sparare alcun colpo di avvertimento affinché la folla si disperdesse.

31/03/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Silvia Vastano

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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