Lo spauracchio dell’inflazione che smorza i trionfalismi

Una breve analisi sul fenomeno dell’inflazione che sta investendo il mondo occidentale a causa della pandemia da Covid-19.


Lo spauracchio dell’inflazione che smorza i trionfalismi

Grandi testate giornalistiche internazionali come “The Economist” stanno spendendo fiumi di parole per incoronare l’Italia di Mario Draghi come un esempio da seguire, decretando il nostro paese come il capofila della prossima gloriosa espansione economica dell’Unione Europea: finalmente l’Italia spendacciona sta facendo le riforme strutturali che i burocrati europei ci hanno sempre chiesto di fare grazie ai fondi del Recovery Fund. Ma c’è davvero così tanto da festeggiare? Probabilmente no, ma cerchiamo di andare per gradi.

Il motivo principale che rischia di spezzare qualunque tono di giubilo è la questione (ricorrente) dell’inflazione che storicamente ha messo in ginocchio una quantità innumerevole di paesi.

Cos’è l’inflazione e quali sono le sue cause?

L’inflazione è un aumento generalizzato (o localizzato) dei prezzi di beni e servizi, le cui cause non sono mai facili da individuare in maniera specifica in quanto i fattori scatenanti possono essere molteplici e poiché non sempre ognuno di questi entra in gioco.

Una delle principali cause dell’aumento dell’inflazione è un’impennata non prevista della domanda, a fronte della quale i produttori non riescono a sopperire nel breve termine con un incremento adeguato dell’offerta. In tal caso rispondono, quindi, con un aumento dei prezzi. Il prezzo dei beni non aumenta in maniera omogenea. Questo significa che ci saranno beni che subiranno un aumento maggiore di altri e che ci saranno categorie di persone maggiormente colpite di altre: se cresce il prezzo dei tartufi, la maggior parte della popolazione non se ne renderà quasi conto in quanto o non può permetterseli o non li acquista per altre motivazioni; al contrario, se aumenta il prezzo del pane o del latte (o in generale dei beni di prima necessità), a soffrirne sarà una platea molto più vasta di consumatori specialmente gli strati più deboli della popolazione.

Un’altra possibile causa dell’inflazione (che non esclude la precedente) è una politica monetaria e fiscale eccessivamente espansiva che “inietta” nei conti delle imprese e delle banche una liquidità maggiore di quella che il mercato è in grado di assorbire provocando una svalutazione della moneta.

Ci sono tante altre possibili cause che si potrebbero elencare ma restando specificamente nell’attuale situazione europea, le due ipotesi che interessano maggiormente la nostra analisi sono quelle sopracitate. In particolare, la prima sembra più plausibile della seconda in quanto siamo reduci da un periodo che ha visto la capacità produttiva, commerciale e logistica dei vari paesi artificialmente limitata dai lockdown che si sono susseguiti negli ultimi due anni a fronte di una domanda crescente. Questa condizione ha provocato un innalzamento dei prezzi delle materie prime e di conseguenza anche dei beni finali, un processo che ha interessato principalmente il mercato recentemente liberalizzato dell’energia (oltre alla questione diplomatica Ue-Russia sulla distribuzione del gas naturale) e che sta causando l’aumento del costo del carburante e i famosi rincari in bolletta che il governo Draghi non è “riuscito” a evitare coi fondi stanziati nella Legge di Bilancio. Infine, l’ultimo fattore che ci permette di scartare la seconda ipotesi è che i finanziamenti del Recovery Fund sono pervenuti per il momento solo in piccola percentuale e la politica fiscale attuata finora dai governi non è stata eccessivamente espansiva se paragonata alla recessione che ci ha investiti.

Quali sono le conseguenze dell’inflazione?

La conseguenza più catastrofica dell’inflazione è la perdita di potere d’acquisto delle famiglie: mentre la borghesia risulta maggiormente tutelata dal fenomeno inflattivo, chi ne paga maggiormente le conseguenze è quella parte di popolazione che vive di un reddito fisso, cioè i salariati. I ricavi di un imprenditore dipendono principalmente dagli andamenti dei mercati, mentre i lavoratori dipendono da un salario stabilito all’interno di una cornice contrattuale che resta fisso nel breve-medio periodo e che, quindi, risulta assolutamente inadeguato a far fronte a un aumento dei prezzi dei beni di consumo.

Inoltre, in Italia nel 1992 è stata anche abolita la cosiddetta scala mobile, uno strumento giuridico che aveva lo scopo di indicizzare i salari al tasso di inflazione corrente rendendo così la classe lavoratrice maggiormente difesa da questo tipo di fenomeno.

Qual è la situazione attuale dell’inflazione in Europa e Italia?

L’analisi finora proposta non voleva essere meramente didascalica bensì funzionale a osservare e commentare la situazione attuale in Europa e in Italia: recenti dati dell’Eurostat ci dicono che il livello dei prezzi di beni e servizi nell’Eurozona è aumentato da novembre 2020 a novembre 2021 del 4,9% con particolare attenzione ai beni energetici che hanno segnato un aumento del 27,5% su base annua [1], una crescita già precedentemente citata e che ribadiamo essere ascrivibile alla recente liberalizzazione del mercato dell’energia e alle frizioni diplomatiche con la Russia; facendo invece un focus sull’Italia noteremo che la situazione non è troppo differente, infatti l’aumento dell’inflazione su base annua è stato del 3,8% e la componente energetica continua a essere il fattore di maggior impatto [2].

Inoltre, dati simili si registrano anche negli Usa, in Giappone e in Australia.

Il quadro non è certamente confortante ma la questione su cui si dibatte maggiormente è un’altra: questo fenomeno sarà transitorio o stiamo per cadere in una spirale inflattiva senza precedenti?

In merito a questo le banche centrali (che sono responsabili della politica monetaria) sono divise su posizioni più o meno interventiste. Innanzitutto, bisogna precisare che il meccanismo più efficace di inversione del fenomeno inflazionistico che le Banche Centrali possono introdurre è quello dell’aumento dei tassi di interesse sui titoli (sia di stato che privati), in questo modo si riduce la domanda di moneta perché detenere titoli diventa più redditizio che detenere moneta, pertanto le vie percorribili sono sostanzialmente due: le banche centrali possono decidere di non intervenire, convinte che questa inflazione sarà transitoria e che rientrerà da sé; ma nel caso in cui questa dovesse rivelarsi strutturale rischiamo che il paese e la classe lavoratrice prima di tutti finiscano sul lastrico. La seconda opzione è che le banche centrali decidano di intervenire innalzando i tassi di interesse sui titoli nella convinzione che questo processo inflazionistico sia strutturale, tuttavia se questo dovesse solo essere un fenomeno passeggero rischiamo di scoraggiare gli investimenti e arrestare la tanto acclamata crescita economica che ci aspetta e, nello scenario peggiore, andremmo incontro a una nuova crisi del debito simile a quella che investì Grecia, Italia, Irlanda e Spagna dieci anni fa a causa dei tassi di interesse troppo elevati.

La Federal Reserve (la banca centrale statunitense) ha già annunciato l’interruzione dell’acquisto di titoli e un innalzamento dei tassi di interesse, mentre la Bce è più cauta e ha solo annunciato una diminuzione del ritmo di acquisto di titoli di stato auspicando che l’attuale tasso di inflazione diminuirà autonomamente nel corso del 2022.

Il futuro, quindi, che si prospetta all’orizzonte non è roseo come quello che viene giornalmente descritto dalle grandi testate giornalistiche acclamatrici del governo bonapartista Draghi e della “crescita economica senza precedenti” che ci aspetta nel biennio 2022-2023.

 

Note:

[1] Dati Eurostat novembre 2021.

[2] Dati Istat novembre 2021.

24/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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