Notarelle sulla storia e sulla situazione cinese

Un’analisi critica della Cina, nella sua storia e nelle sue prospettive, è profondamente necessaria per la crescita della concezione del mondo marxista e per rilanciare oggi la battaglia teorica e la lotta di classe dal basso.


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Con lo svilupparsi della tensione a livello globale si rende sempre più necessario analizzare il ruolo internazionale della Cina ed il suo andamento interno, per comprendere il quale è indispensabile avere chiari gli elementi fondamentali del suo sviluppo storico come paese arretrato in cui si è portata avanti, con successo, una rivoluzione socialista. A questi propositi tenterò in questo articolo, più che di dilungarmi in un resoconto informativo, di riassumere alcuni degli aspetti e delle analisi più originali su cui mi pare necessario soffermarsi per affrontare una riflessione sulla Cina, evitando di precipitare nelle opposte e un po’ semplicistiche interpretazioni che riducono la Cina a paese socialista (come se questo fosse in sé qualcosa che la esenti da ogni ulteriore sviluppo analitico anche in senso critico) o invece a potenza capitalista e persino imperialista in contrapposizione agli Usa per il predominio sul mondo.

La tecnica, l’indipendenza nazionale, il ruolo del soggetto

Una caratteristica universalmente riconosciuta alla Repubblica Popolare Cinese è la sua stupefacente capacità nell’aver portato avanti uno sviluppo industriale, economico e sociale che, assieme a quello sovietico, può essere considerato senza precedenti nella storia umana [1]. Raggiungere questo obiettivo sarebbe stato impossibile per la Cina prerivoluzionaria senza un poderoso sviluppo tecnologico ed una formazione della classe lavoratrice preposta all’uso delle macchine (quindi sviluppo delle forze produttive), come anche senza una riorganizzazione dei rapporti di produzione. La tecnica tuttavia è, come tutta la conoscenza umana, un prodotto storico e non innato, la cui rapida acquisizione era assolutamente cruciale per il gigante asiatico, che senza potersi garantire un rapido sviluppo si sarebbe trovato preda delle grandi potenze imperialiste in un rapporto coloniale o semicoloniale. Oltre a questa criticità a livello internazionale, ad imporre alla Repubblica Popolare di forzare in ogni modo i tempi di sviluppo era la situazione interna: era necessario permettere alla vastissima popolazione del paese di emergere da una situazione di disastrosa povertà ed inedia (generata da oltre un secolo di dominio coloniale occidentale e quindi contro la quale proprio quell’indipendenza nazionale era necessaria, ed ulteriormente aggravata dalla guerra durissima contro i partiti borghesi, i feudatari e l’imperialismo giapponese che le forze comuniste erano state costrette ad affrontare) in un regime sostanzialmente feudale; il sistema più rapido per avere accesso a questa conoscenza e per sviluppare al meglio le proprie forze produttive è mutato nella storia della Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo [2] [3].

Senza dubbio segnante in modo definitivo è stata l’apertura alle industrie, alle università ed alle altre istituzioni occidentali [4], cosa che ancora oggi caratterizza la società cinese, anche se con significativi sviluppi rispetto anche solo a qualche anno fa e che vedremo più avanti nell’argomentazione. Questo processo da una parte ha garantito alla Cina le infrastrutture e la formazione necessarie a far emergere dalla povertà oltre 750 milioni di persone negli ultimi 30 anni, imponendo il ruolo del paese come grande potenza moderna e trascinando centinaia di milioni di persone sul palco della storia, dall’altra ha significato l’assoggettamento cinese all’imperialismo occidentale in funzione antisovietica, ha favorito il processo di delocalizzazione della produzione industriale dall’Occidente (complice la sconfitta storica dei settori subalterni a livello internazionale) ed ha generato forti disuguaglianze nel gigante asiatico, tra le altre cose. Questa ambivalenza della condizione cinese ha profonde fondamenta nelle condizioni oggettive riscontrate nel paese (sostanziale assenza della produzione industriale, controllo coloniale nel paese etc.), ma riguarda molto anche decisioni soggettive del gruppo dirigente maoista e delle fazioni interne al Pcc (Grande Balzo in avanti, Rivoluzione Culturale etc.), è emblematico di un più ampio conflitto tra posizioni tendenzialmente differenziate nel marxismo (a partire dalla contrapposizione tra opportunismo di destra e di sinistra) che erano in tal senso già segnalate da Domenico Losurdo nel suo ultimo testo [5]. Stiamo parlando quindi, procedendo ad un’astrazione filosofica più universale, di un conflitto irrisolto tra il peso del soggetto e quello dell’oggetto, ma anche di quanto le specifiche condizioni nazionali influiscano sullo sviluppo del socialismo in un dato paese. E se si può riscontrare nel grande storico delle idee italiano un eccesso di zelo nel mettere in luce le criticità oggettive, rischiando in questo modo di oscurare i limiti soggettivi [6], non si può neppure ignorare l’atteggiamento astratto di chi invece, imponendo la propria volontà alla storia, avrebbe avuto la pretesa di andare al di là dello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di forza internazionali. La questione, come si capisce bene, è enormemente significativa, ed ha storicamente determinato nel marxismo una decisiva frattura tra i fautori di uno immediato sviluppo socialista, contrastando la tecnica ed il moderno Leviatano (in Occidente) ed invece chi, come Mao o Ho Chi Minh [7], riteneva cruciale lo sviluppo tecnico e la costruzione di un apparato di gestione dello stesso per poter avanzare sulla via dell’indipendenza nazionale e del socialismo (si sta parlando, come si capisce, dell’Oriente).

I due momenti sono a lungo stati posti in conflitto, tuttavia la risoluzione dialettica di questo conflitto (che dipende in primis dal riconoscimento che ci si trova, in Oriente ed Occidente, in fasi diverse dello sviluppo delle forze produttive, ma anche dal riconoscere soggettivamente nelle dirigenze orientali un eccesso di realismo senza un briciolo di spirito dell’utopia ed in quelle occidentali il contrario) si fa oggi più che mai conditio sine qua non della realizzazione del socialismo a livello internazionale, e punto cruciale per comprendere cosa sia la Cina, dove essa stia andando e come farla andare in una determinata direzione [8]. Proviamo qui a proporre degli spunti su tale questione, che è essenzialmente pratica.

Per prima cosa dobbiamo riconoscere nella sconfitta della sinistra del Pcc, nella distruzione del mondo socialista e nell’allontanamento tra Cina ed Urss elementi che hanno segnato un arretramento determinante, e non necessario come fosse una tappa obbligata nella storia, dello sviluppo di una società più razionale. D’altro canto non possiamo neppure non riconoscere, dialetticamente, come nelle politiche portate avanti dalla destra del partito (quali lo sviluppo nel paese di una Nep di lungo periodo, con l’apertura all’Occidente, come dicevamo sopra) ci fosse una base concreta, oggettiva, nello sforzarsi di garantire questo sviluppo di forze produttive che già dalla sua fondazione la Repubblica Popolare ricercava disperatamente, ma che era stato perseguito da Mao, da una posizione più a sinistra, con risultati minori da un lato ma senza snaturare la rivoluzione socialista nel paese dall’altro. Il “gioco” sta tutto nel capire l’ordine delle priorità, nello stabilire come agire in funzione di queste, e nel sapere che se è vero che sono le condizioni oggettive a determinare in qualche forma la presa di posizione soggettiva, è vero dialetticamente anche il contrario. L’autonomia relativa delle sovrastrutture dimostra in tal senso la necessità dello studio, del lavoro politico, del dibattito di partito.

Ad oggi, comunque, ciò che è certo è che questo processo di svolta a destra storica, che oltre ad aprire all’Occidente ha distrutto le comuni contadine, privatizzato ampi settori economici e permeato il paese del pensiero occidentale, ha lasciato alla Cina un grandioso sviluppo ma profonde contraddizioni. L’apertura del partito ai miliardari (sul cui ruolo discuteremo più avanti nel testo, per approfondire ed allargare l’analisi), la propaganda contro la lotta di classe nelle università, il nazionalismo sempre più diffuso (giustificato dalla necessità di sviluppo nazionale, ma nei fatti tradimento della prospettiva socialista ed internazionalista) sono elementi che evidenziano la drammaticità della situazione (al punto che c’è chi parla, per la Cina, di “paese in transizione al capitalismo”) che deve essere risolta.

La forma del capitalismo di Stato, insomma, sembra ormai insufficiente al grandioso sviluppo delle forze produttive in Cina; è necessario quindi valutare, anche se di fronte ad una drammatica situazione di aggressione internazionale, la necessità di uno slancio in avanti del processo rivoluzionario in direzione di una società più razionale: il socialismo. Il rischio concreto in caso di sconfitta di questa transizione è lo smantellamento definitivo della grandiosa rivoluzione socialista del 1949.

Stato, burocrazia, lotta di classe

In tutta l’esposizione sulla tecnica e sull’indipendenza nazionale abbiamo volontariamente omesso un grande elemento, sostanzialmente centrale: lo Stato. È impossibile comprendere il significato profondo del dibattito avuto in Cina (ma non solo, come vedremo in questo paragrafo) tra il privilegiare lo sviluppo delle forze produttive o quello di più eguali rapporti di produzione se non si comprende che la spada di Damocle pendente in tutto il dibattito è sempre quella del pericolo di sconfitta della rivoluzione non già a causa di una controrivoluzione interna ma per aggressione esterna. Si pensi a questo quando si vede Mao, appena portata avanti la rivoluzione, allearsi con la “borghesia nazionale”, in grado di far funzionare i mezzi di produzione, contro la borghesia rapace dei paesi imperialisti. Tutto ciò, a prima vista, sconvolge. Non dovrebbe essere il socialismo uno strumento per abbattere lo Stato? La questione è più complessa, e per coglierne gli elementi più interessanti vediamo lo sviluppo di Lenin nel densissimo periodo che va da Stato e Rivoluzione alla costruzione della Terza Internazionale.

Il grande rivoluzionario russo, dopo aver seguito su questa questione una più tradizionale posizione marxiana (per così dire) ponendo al centro la necessità dello smantellamento dell’apparato statale [9], sviluppa, con l’esperienza fatta sulla sua pelle della rivoluzione socialista e della Terza Internazionale, un’impostazione più originale, che riconosce nel rafforzamento e nella costruzione dello Stato un elemento non superabile (o per lo meno non superato) nello sviluppo di un paese [10]. In certe circostanze persino i marxisti, che dovrebbero distruggere lo Stato, per poterlo distruggere sono prima tenuti a costruirlo! Già questo atto, tuttavia, è profondamente rivoluzionario, specialmente se, come dice Lenin, è interesse delle forze imperialiste quello di impedire la costruzione di Stati nazionali indipendenti [11]. Va detto che, implicitamente, il necessario collegamento tra il superamento dello Stato e l’esistenza del capitalismo sviluppato appariva già in Stato e Rivoluzione, allorché Lenin segnalava come l’espansione della burocrazia e dell’esercito permanente (che sono i due elementi cruciali dello Stato nell’impostazione di Lenin), fossero una conseguenza “involontaria”, putrescente del capitalismo [12] (e quindi, diciamo noi, possibili da superare solo se prima sviluppati, ovvero solo in presenza di capitalismo).

Prima di Lenin già Marx, criticando la filosofia del diritto di Hegel, aveva analizzato la burocrazia, ritrovando in essa proprio un corpo morto e biecamente materialista, interessato ai propri immediati interessi, che poteva essere superato soltanto dal proletariato e che era nato a sua volta dal superamento della divisione feudale della società (sullo stesso tema, ma con un giudizio di segno opposto, interverrà per esempio anche Max Weber nella sua conferenza sulla politica come professione, confermando comunque questo ruolo della burocrazia nella nascita dello Stato moderno borghese, o meglio, ragionando in senso marxista, il ruolo della borghesia e del capitalismo nella nascita della burocrazia moderna). Con l’avanzare del capitalismo in imperialismo, lo sviluppo di un’aristocrazia operaia schierata opportunisticamente con la propria borghesia [13] (e quindi con l’enormemente burocratico Stato imperialista [14]), invece, ha lasciato ai paesi coloniali (vittime dell’imperialismo per eccellenza) questo compito di spezzare la costruzione di macchine statali, burocratizzate e militarizzate, intenzionate a sfruttare l’intero pianeta per i loro interessi, in un processo da compiersi, come ripetuto più volte nella storia del marxismo, in primis come lotta di liberazione nazionale (e quindi di una apparentemente paradossale costruzione di un proprio Stato nazionale).

Se fin qui ci siamo nuovamente soffermati sugli elementi che indubbiamente, da un punto di vista oggettivo, hanno portato a ritrovare nella burocratizzazione un elemento, se non positivo, per lo meno giustificabile (e giustificato) dello sviluppo cinese (ovvero l’importanza di avere rapidamente un apparato in grado di gestire l’enorme sviluppo tecnologico del paese, di controllare il territorio, di distribuire e raccogliere informazioni in tutti gli angoli dello Stato, per potersi salvare dal giogo coloniale), l’altra faccia, sempre presente, della medaglia, è la rassegnazione all’immediatezza e la scomparsa di ogni spinta propulsiva soggettiva, ergo la sclerotizzazione dell’assetto sociale, che la stessa burocratizzazione tende a produrre. Come nel paragrafo precedente, gli elementi di necessità e volontà non possono che essere visti nel loro rapporto dialettico, per evitare di precipitare nella concezione opportunista di destra o di sinistra, ovvero nel trovare nel processo il proprio fine ultimo, a prescindere da ogni obiettivo di lungo termine che viene nella sostanza accantonato, oppure al contrario nel vedere il fine come il tutto e non dare la giusta dignità al pur necessario processo di raggiungimento. È un dibattito nel quale interviene anche Domenico Losurdo analizzando l’Unione Sovietica staliniana nel suo celebre Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, ma su tale questione la forzatura nel vedere come necessario in toto il periodo staliniano (complice anche il bisogno di contrastare la propaganda occidentale su Stalin con un eccesso nella direzione opposta) in virtù dell’accerchiamento e dell’instabilità del paese della Rivoluzione d’Ottobre, non lascia dignità al riconoscimento dei tanti arretramenti e della sclerotizzazione dello Stato sovietico che sarà poi tra le principali cause della lunga agonia dell’Urss. Nella sintesi necessaria nel Pcus, e non nelle epurazioni, si sarebbe trovata la più corretta soluzione per mantenere ad un tempo in vita lo Stato ma anche lo spirito necessario al suo superamento; ma questa sintesi, difficilissima all’indomani del fallimento della rivoluzione internazionale e con la guerra civile incombente [15], e poi più avanti con il paese isolato e distrutto in mano a gruppi armati, è risultata introvabile, nonostante gli appelli di grandi personalità, come Gramsci, ad operare in tal senso [16]. La figura di Trotsky è probabilmente la più rappresentativa di questo scontro, che ha posto le basi per la sconfitta storica dello scorso secolo.

Oggi, un secolo dopo, la questione si rinnova e dovrà essere la capacità della futura generazione di rivoluzionari in Cina a superare la posizione unilaterale e tendente all’immobilismo della direzione del Pcc (che, chiariamo, ha delle sue ragioni) e soprattutto della burocrazia cinese in una nuova, più avanzata organizzazione sociale che sappia tesaurizzare gli elementi più avanzati della Rpc ma, con l’aiuto delle masse, spingere ad uno stadio superiore la costruzione del socialismo in Cina, come indicato già da Mao. I problemi e le complessità di analisi, tuttavia, sembrano apparire ad ogni angolo.

Conclusioni provvisorie

Avviandoci a concludere, cerchiamo di riprendere le fila della situazione odierna della Cina, per capire cosa resta da fare in funzione di uno sviluppo della società cinese in senso socialista. È indubbio che le pressioni sono violentissime: immaginate un paese che in 30 anni è passato da una struttura agricola arcaica ad essere ora (o prossimamente) la più grande potenza mondiale, al centro dei principali scontri internazionali sul piano diplomatico, economico, geopolitico e militare ed in grado di influenzare un’enorme parte dei paesi (specie arretrati) attraendoli nella sua sfera di influenza. Parliamo di uno Stato, poi, nato da una rivoluzione socialista e sviluppato in senso socialista, ma d’altro canto anche cresciuto da decenni nel libero mercato, con una quantità enorme di miliardari che godono del sostegno del grande capitale internazionale ed un mercato finanziario non più trascurabile. Si capisce bene che le complessità ci sono e sono enormi, tanto che anche chi se ne intende, spesso, fa fatica a dire cosa sia l’organizzazione socioeconomica della Cina al di fuori della formula autoreferenziale del “socialismo di mercato alla cinese”. Si tratta di uno Stato socialista? Di una forma, quale che sia, del capitalismo di Stato? O forse, come dicono alcune persone, parliamo di uno Stato capitalista-imperialista? Proviamo anche qui a addentrarci nel ragionamento per vedere cosa ne deduciamo, analizzando rapidamente la gestione che c’è in Cina delle banche, dell’agricoltura, dell’industria e delle relazioni internazionali, tenendo presente il rapporto tra l’eredità socialista (che resiste alla transizione al capitalismo) e la svolta capitalista nel paese.

Le quattro più grandi banche al mondo sono cinesi [17]. Questa affermazione, da sola, non può che condurre ad una risposta: la Cina non solo è capitalista, ma è la più grande forza imperialista al mondo, con un gigantesco capitale finanziario! Quando poi si scopre che l’attivo complessivo di queste banche, sommato, arriva a quasi 15.000 miliardi di dollari statunitensi, si ha una conferma definitiva del carattere assolutamente imperialista della Cina. Tuttavia le cose non stanno proprio così. Per prima cosa, nelle banche l’azionista principale è lo Stato, che dirige anche la People’s Bank of China con il compito di organizzare l’economia del paese; inoltre anche molta parte delle attività delle banche è rivolta ad aziende proprietà di Stato. E lo Stato, vale la pena ricordarlo, è essenzialmente diretto dal Pcc, del quale analizzeremo tra poco l’operato, specie per quanto riguarda la finanza (altro elemento fondamentale). Se quindi è vero che le banche cinesi gestiscono flussi enormi di capitale, non possono però essere in toto allineate ai grandi gruppi finanziari occidentali, e questo proprio grazie alla resistenza che il lascito della rivoluzione socialista e la direzione del Partito Comunista Cinese fanno al ritorno al capitalismo. Per il solo fatto di avere sotto controllo enormi flussi di capitale, insomma, la Cina non può essere tacciata di essere una potenza capitalista-imperialista nella quale il capitale bancario si è fuso con quello industriale sostanzialmente controllando e dirigendo lo Stato in maniera organica per i suoi interessi, ma può piuttosto, per quello che abbiamo detto finora, somigliare al famoso sciamano del Manifesto del partito comunista che rischia di essere travolto dalle forze mostruose da lui evocate. Il giudizio sul carattere imperialistico della Cina è quindi per ora negativo, anche se resterà da valutare se nel futuro il lascito rivoluzionario continuerà a fungere da argine alla vittoria del capitale finanziario, o se piuttosto, come indicato da Lenin [18], sarà quest’ultimo a riuscire a controllare organicamente la direzione politica dello Stato.

Riguardo all’agricoltura si penserà subito al socialismo scoprendo che la proprietà della terra è statale. Come nel paragrafo precedente, tuttavia, le semplificazioni non riescono ad arrivare molto al nocciolo della questione. Infatti, nel periodo denghista, con la costituzione del “sistema di responsabilità familiare” la proprietà della terra è stata separata dall’usufrutto della stessa da parte delle famiglie: la terra è quindi statale (o collettiva [19], quindi di proprietà di villaggi o gruppi di famiglie, amministrazioni locali o comunque “collettività” più prossime rispetto allo Stato) ma affidata per 25-30 anni alle famiglie che sono responsabili della sua gestione, dei profitti e delle perdite. Parallelamente viene smantellato il sistema delle comuni agricole, con quindi un significativo passo indietro rispetto all’organizzazione socialista della società. Inoltre, un ulteriore passo “avanti” nell’apertura è stato fatto permettendo a chi prende in usufrutto la terra di cederla a sua volta (nonostante la proprietà resti statale o collettiva) [20]. Questi processi, oltre al lungo periodo di privilegio assoluto di cui hanno goduto le aziende straniere, hanno in alcuni casi portato a significative proteste, sintomatiche della tendenza piccolo borghese preponderante nelle campagne in cui larghe masse di contadini percepiscono se stessi come (ed in un certo senso sono) proprietari [21]. Nonostante tutto ciò, è istruttivo notare come Lenin giudicasse il periodo di apertura della Russia rivoluzionaria all’indomani del fallimento del “comunismo di guerra” [22], ed in tal senso, pur con decisive differenze, non si può non cogliere anche una linea di continuità tra l’azione bolscevica e quella postmaoista. Resta da capire se le differenze siano soltanto quantitative, ovvero sulla dimensione di apertura dei due paesi, o abbiano già causato nel paese asiatico anche uno sviluppo qualitativo in senso controrivoluzionario. Certo è, comunque, che sia impossibile al momento attribuire alla Cina il pomposo (ma anonimo) attributo di Stato “socialista”.

Abbiamo finora scartato la possibilità di considerare la Cina socialista (o capitalista-imperialista) in toto, addentrandoci quindi nel più complesso e confuso campo del grigio del capitalismo di Stato (ovvero socialismo di mercato) che lo stesso “dragone” si attribuisce. Vediamo cosa accade cercando di analizzare l’industria.

La Rpc ha sviluppato in qualche decennio la più grande industria globale (in particolare a livello manifatturiero), al punto da essere stata a lungo definita la “fabbrica del mondo”. Questa industrializzazione ha portato con sé importanti mutamenti sociali, a partire dalla percentuale di popolazione che vive in territori urbani [23], ed allo stesso tempo, come conseguenza del processo, anche il peso del settore primario sul Pil è precipitato, mentre è di poco calato il peso del settore secondario ed è di molto incrementato il terziario [24]. Insomma, l’economia cinese è passata da essere agricola ad industriale, mentre ormai da un decennio il settore che pesa di più sul Pil è quello dei servizi (che, va detto, nel paese è sempre stato importante, almeno dai dati che si hanno a partire dal 1978). Questo processo di crescita è passato per l’acquisizione di enormi conoscenze in fatto di produzione e ricerca, che come dicevamo dall’inizio dell’articolo erano al centro degli interessi del dragone. Acquisita una certa capacità tecnica, il processo sembra essere però ad un punto decisivo di svolta, perché l’ultimo lustro ha segnato un mutato atteggiamento della Cina in quanto a politica industriale.

Già da qualche anno si parla della Cina non più come della “fabbrica del mondo” che produce manifattura a basso costo, ma se ne parla invece rispetto ad una importante rivoluzione tecnologica ed industriale sulla base del principio della “doppia circolazione” [25] basata sul mercato interno e l’autosufficienza tecnologica, e solo in seconda battuta sul mercato estero: tecnologie avanzate [26] (si pensi alla lotta per i semiconduttori [27]), “rivoluzione verde” [28], spinta al mercato interno [29] con conseguente possibile uscita dal paese di una parte significativa delle imprese estere [30] che andranno in cerca di mercati dove il costo del lavoro è più ridotto sono alcune delle questioni di cui si sta discutendo a proposito di questa svolta storica.

Tra le altre questioni che indubbiamente sono di interesse rispetto alla nuova organizzazione della Cina c’è il tentativo da parte dello Stato di ri-acquisire fette delle imprese private, mettere sotto maggiore controllo le imprese estere e la finanza ed utilizzare in modo più consapevole il mercato per i propri interessi; a tal proposito è indicativo il peso che le imprese con partecipazione statale hanno sul totale delle principali imprese cinesi [31], per quanto sia importante anche rilevare, guardando ai dati del 2021 [32], come sia minimo il peso delle imprese dell’industria in senso stretto in questa classifica, ad ulteriore dimostrazione che fino ad oggi il paese si è caratterizzato per il dominio delle imprese estere e parallelamente per l’esistenza principalmente di un forte settore manifatturiero. Prima di addentrarci ulteriormente nelle ultime novità dello sviluppo cinese, però, recuperiamo l’ultimo dei grandi temi in ambito economico che riguarda la Cina.

La Bri (Belt and Road Initative) è un colossale progetto finanziario, commerciale ed infrastrutturale che coinvolge la gran parte dei paesi del mondo e vede la Cina al centro. Il progetto è stato lanciato nel 2013 ed ha implicato fino ad oggi la spesa di trilioni di dollari per la Cina, rivolti ad una serie di settori differenti.

Per capire le dimensioni di questo progetto, si vedano i settori concreti di intervento: in particolare, per quanto riguarda le infrastrutture, la Bri si è rivolta specialmente ai paesi poco sviluppati, i quali si sono impegnati in progetti miliardari di modernizzazione finanziati dalla Cina; per quanto riguarda gli investimenti specialmente verso il mondo occidentale, la Russia, il Brasile, Singapore e l’Australia [33]; per quanto riguarda invece l’acquisizione di energia, in particolare verso la Russia [34]; infine hanno avuto un ruolo, specie di recente, anche gli scambi di carattere sanitario, ecologico, digitale [35] ed altri.

Alle considerazioni di poco fa sui settori di investimento e costruzioni, tuttavia, va aggiunto che mentre le infrastrutture sono state a lungo finanziate in particolare dalle Soe (State-owned enterprise, o aziende pubbliche), le attività finanziarie hanno avuto come centro le compagnie private. Questa caratterizzazione è mutata abbastanza nell’ultimo periodo, per una serie di motivi: da una parte fin dal 2017 il governo ha ridotto le possibilità di investimento estero delle imprese private [36] (pur avendo invece aperto le aziende pubbliche ai privati, andando verso una situazione intermedia generalizzata [37]), oltre a questo ha operato in direzione di una riacquisizione di fette di capitali privati ed ha tagliato la finanza [38], ma in parallelo si è trovato senza ampie riserve di moneta estera ed ha dovuto quindi cercare di facilitare gli investimenti diretti in Cina [39] per riuscire a stabilizzare il renminbi, impedendo in parallelo la fuga di capitali all’estero (necessaria alla BRI sotto forma di investimento) [40]. Il progetto, che come si capisce sta dietro molti dei movimenti del governo della Cina, ha inoltre lo scopo di creare buone relazioni internazionali per il gigante asiatico e di emanciparsi dalla talassocrazia statunitense [41].

Anche riguardo questo progetto di portata globale non sono mancate accuse di imperialismo verso la Cina, per l’esportazione massiccia di capitali. Non sembrano tuttavia soddisfacenti le ragioni addotte al riguardo, in quanto il paese non sembra concretamente stare ricorrendo in senso generalizzato alla “trappola del debito” di cui hanno ripetutamente parlato i media occidentali [42] per controllare con la sua influenza economica gli altri paesi, nonostante alcuni casi dubbi [43]; inoltre, la politica estera della Cina, di carattere collaborativo e non predatorio, va in contraddizione con la tendenza tipica che ci aspetteremmo da una forza imperialista, pur particolare come sarebbe la Cina; infine, il fatto di aver dovuto interrompere gli investimenti delle Soe per mancanza di capitali stranieri, ed il tentativo parallelo di ridurre il peso della finanza sconsiderata anche a rischio di importanti perdite economiche paiono elementi in contraddizione con la fase imperialista del capitalismo.

Abbiamo parlato di banche, agricoltura, industria e Bri; vediamo di arrivare a concludere con alcune considerazioni sugli ultimi sviluppi e qualche brevissimo accenno su questioni di finanza.

Il periodo pandemico ha significato una svolta significativa per la Repubblica Popolare, svolta già preannunciata da anni ed incominciata ma che la pandemia ha contribuito a caratterizzare ed accelerare. È il processo di cui abbiamo parlato finora di rafforzamento del mercato interno, costruzione di solide relazioni internazionali, competizione sul settore tecnologico, svolta ecologista e ripubblicizzazione dei settori essenziali etc. L’ultimo elemento che abbiamo toccato ma non ancora in modo approfondito è la questione finanziaria, che ci aiuta anche a capire le complessità di immaginare oggi uno sviluppo in senso socialista dello Stato cinese.

Dallo scorso anno è iniziato un periodo di riforme massiccio in Cina, che ha avuto tra i suoi centri principali la limitazione dell’attività delle aziende che operano, tra le molte cose, nel Fintech (tecnologia finanziaria). Il celeberrimo caso di Jack Ma e della sua Alibaba [44] è stato probabilmente il più emblematico di questo sviluppo, nel quale una grande compagnia tentacolare è stata sostanzialmente smantellata per aver cercato di opporsi alla linea del Pcc [45], sostenendosi grazie all’appoggio dell’imperialismo occidentale e dei suoi capitali con cui Jack Ma, entrato in aperta competizione con l’organizzazione statale cinese, aveva da tempo legami [46]. L’azienda ha dovuto inoltre sottomettersi a fornire i dati dei suoi utenti allo Stato, dati fino ad allora utilizzati dall’azienda e dalle partnership occidentali per acquisire sempre più potere in Cina. Una prospettiva preoccupate.

Consapevole di questo rischio di presa di sopravvento del capitale finanziario, il Pcc, per impedire la costruzione di un collegamento organico tra capitale industriale e bancario e scongiurare fallimenti come quello della Lehman Brothers (erroneamente paragonata ad Evergrande [47]), ha operato per separare l’attività finanziaria da quella commerciale o industriale; su questa base, contravvenuta da Alibaba e Tencent, è stata creata la prima holding finanziaria privata in Cina [48], essendo comunque i capitali gestiti dalla finanza necessari nell’ottica della linea del Pcc.

Questo aspetto del ruolo della finanza nella penetrazione nello Stato cinese per scardinare il controllo ancora mantenuto dal Partito Comunista è, a mio avviso, l’ultimo elemento rilevante per comporre il quadro di cosa stia accadendo in Cina: un paese con il nemico in casa e sempre sul chi va là, costantemente alla ricerca di una stabilizzazione che si sta conformando sempre di più in una modalità ibrida. La grandezza del Pcc è stata proprio in questo riuscire, fino ad oggi, a mantenere senza sbavature enormi il paese sulla via intermedia tra il precipitare nell’imperialismo e l’arretratezza che facilita il colonialismo. Il peso dell’apparato che ha costruito per sostenere questa sfida, tuttavia, forse è stato eccessivo per mantenere in vita la dinamicità del processo di transizione: invece di tenere sempre presente che dopo la rivoluzione la lotta di classe si fa ancora più acuta di prima, il Pcc ha preteso fosse conclusa e si è aperto ai grandi borghesi “patriottici” (che non sono la “borghesia nazionale” di Mao, ma temibili imperialisti!). Avendo perso di vista il ruolo della centralità della lotta di classe; avendo smarrito il collegamento con il dinamismo continuo che solo le masse ed un giusto atteggiamento della dirigenza possono offrire, il Pcc sta sostanzialmente rinunciando al progetto di transizione al socialismo in un paese in cui le forze produttive sono ormai enormemente sviluppate, precipitando piano piano nel rendersi un ceto burocratico con i suoi interessi contrapposti a quelli tanto borghesi quanto subalterni.

Sapere cosa debbano dire al riguardo le forze che si rifanno al marxismo, si capisce, è difficilissimo, e viene da dare ragione a Xi Jinping stesso quando diceva che serva “attraversare il fiume tastando le pietre” [49]. Si può, questo sì, seguire attentamente i nuovi sviluppi cercando di dare il proprio contributo teorico e pratico, nella speranza che la parte più genuina del partito riesca, recuperando il collegamento con le masse sepolte nella burocrazia [50] e sostenendo anche con la loro forza lo scontro con il capitale finanziario, l’imperialismo internazionale ed i leader dei colossi privati (criminosamente ammessi nello stesso Partito Comunista o persino nella sua dirigenza) a camminare faticosamente oltre l’enorme fiume limaccioso della rivoluzione in Oriente.

 

Note:

[1] Dopo essersi dilungato a parlare del “totalitarismo Marxista-Leninista di Mao” lo stesso “Sole 24 Ore” è costretto a questa ammissione.

[2] L’alleanza con la borghesia nazionale in chiave antimperialista, che aveva il rischio di cedere a determinati settori della borghesia la direzione del movimento, come segnala il paragrafo “La base teorica e politica della rivoluzione cinese” a p.15 del numero di “Rinascita” del 26 gennaio 1963.

[3] A livello internazionale, la Cina, inizialmente vicina all’Unione Sovietica, con cui ha significativi scambi, si allontana per le mutate condizioni nel paese della Rivoluzione d’Ottobre, aprendo all’Occidente. A tal proposito si vedano questo articolo e quest’altro articolo.

[4] A tal proposito: “Il processo evolutivo che ha avuto luogo in Cina nel corso di un secolo e più è stato definito sia di «modernizzazione» che di «occidentalizzazione». I due termini sono ugualmente impropri. Da un lato, fu in gran parte per impulso occidentale che il paese arrivò a quei cambiamenti che in altre circostanze avrebbero forse avuto un corso e risultati assai diversi. D’altro canto gli elementi di importazione occidentale non hanno affatto soppiantato i costumi e il pensiero tradizionale cinese, ma sono stati assorbiti in un insieme omogeneo”. (la citazione è stata liberamente tagliata, i tagli non sono segnati). Schram, S.R. (1963). The Political Thought of Mao Tse-tung. Paris: Librairie Armand Colin (trad. it. Il pensiero politico di Mao Tse-tung, Mondadori Editore, Milano, 1974) p.12.

[5] “Allorché era al suo primo stadio, quello della lotta spesso anche militare per l’indipendenza politica, la rivoluzione anticoloniale di rado ha suscitato nel marxismo occidentale l’attenzione simpatetica e l’interesse teorico che essa meritava; ora che la rivoluzione anticoloniale è al suo secondo stadio, quello della lotta per l’indipendenza economica e tecnologica, il marxismo occidentale reagisce con un atteggiamento all’insegna del disinteresse, del disdegno, dell’ostilità. (…) a Oriente la prospettiva socialista non può fare astrazione dal compimento a ogni livello della rivoluzione anticoloniale; in Occidente la prospettiva socialista passa attraverso la lotta contro un capitalismo che è sinonimo di acutizzazione della polarizzazione sociale e di crescenti tentazioni militari.” Losurdo, D. (2017). Il marxismo occidentale Come nacque, come morì, come può rinascere. Bari-Roma: Laterza, pp.217-218.

[6] La questione viene riassunta in questo articolo.

[7] Dice Losurdo: “Vedremo Mao dichiarare nel 1940 che la rivoluzione da lui promossa, prima di conseguire il socialismo, intende «sgomberare il terreno allo sviluppo del capitalismo», sia pure di un capitalismo strettamente controllato da un potere politico e da un partito decisi a procedere ben oltre nella trasformazione rivoluzionaria della società esistente.”. Poi, su Ho Chi Minh: “Nove anni prima della sua morte, mentre in Indocina infuria una delle più barbare guerre coloniali del XX secolo, in occasione del suo settantesimo compleanno, Ho Chi Minh rievoca il suo percorso intellettuale e politico: «In principio a spingermi a credere in Lenin e nella Terza Internazionale era stato il patriottismo, non il comunismo»”. Losurdo, D. (2017). Il marxismo occidentale Come nacque, come morì, come può rinascere. Bari-Roma: Laterza, pp.24, 33.

[8] Sulla situazione cinese può offrire spunti validi questo articolo.

[9] “«Spezzare la macchina burocratica e militare»: in queste parole è espresso in modo incisivo l'insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato.” Lenin, V. I. (1918). Государство и революция. Петроград (trad. it. Stato e Rivoluzione).

[10] Per sapere di più al riguardo si veda il discorso di apertura di Lenin al IV congresso dell’internazionale comunista, ritrovabile in Lenin, V.I. (1966). Opere complete XXXIII. Roma: Editori Riuniti, pp.384-397, o a questo link.

[11] Dice Lenin: “Al socialista di una nazione che ne opprime altre Marx rivolge domande sul suo atteggiamento verso la nazione oppressa e scopre immediatamente un difetto comune [il corsivo è di Lenin, ndr] ai socialisti delle nazioni dominanti (inglese e russa): l’incomprensione dei loro doveri socialisti verso le nazioni asservite, le rimasticature di pregiudizi presi a prestito dalla borghesia della «grande nazione dominante». (…) La deduzione (…) è chiara: la classe operaia può meno di qualsiasi altra farsi un feticcio della questione nazionale, perché lo sviluppo del capitalismo non ridesta necessariamente a vita indipendente tutte le nazioni. Ma, dal momento che sono sorti dei movimenti nazionali di massa, infischiarsi di essi, rifiutare di appoggiare quanto vi è in essi di progressivo significa, in realtà, cedere ai pregiudizi nazionalistici e, precisamente, riconoscere la «propria» nazione come «nazione modello» (oppure, aggiungiamo per conto nostro, come nazione che possiede il privilegio esclusivo della formazione dello Stato)”. Lenin, V.I. (1966). Opere complete XX. Roma: Editori Riuniti, pp.415-417.

[12] “La burocrazia e l'esercito permanente sono dei «parassiti» sul corpo della società borghese, parassiti generati dalle contraddizioni interne che dilaniano questa società, ma parassiti appunto che ne «ostruiscono» i pori vitali.” Lenin, V. I. (1918). Государство и революция. Петроград (trad. it. Stato e Rivoluzione).

[13] “I capitalisti di uno dei tanti rami industriali, di uno dei tanti paesi ecc., raccogliendo gli alti profitti monopolistici hanno la possibilità di corrompere singoli strati di operai e, transitoriamente, perfino considerevoli minoranze di essi schierandole a fianco della borghesia del rispettivo ramo industriale o della rispettiva nazione contro tutte le altre. (…) Così sorge un legame tra l'imperialismo e l'opportunismo” Lenin, V.I. (1917) Империализм как высшая стадия капитализма. Петроград: Жизнь и знания (trad. it. L’imperialismo fase suprema del capitalismo).

[14] Che addirittura porta alla costruzione di una burocrazia anche quei paesi fino ad allora “immuni”, come dice Lenin, criticando l’atteggiamento riformista dell’opportunismo di destra: “Attualmente, nel 1917, nell'epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade: l’Inghilterra e l’America, che erano, in tutto il mondo, le maggiori e le ultime rappresentanti della «libertà» anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia, sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la «condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare» è la rottura, la distruzione della «macchina statale già pronta» (portata in questi paesi nel 1914-1917 a una perfezione «europea», imperialistica)”. Lenin, V. I. (1918). Государство и революция. Петроград (trad. it. Stato e Rivoluzione).

[15] Si veda l’atteggiamento di Lenin al riguardo.

[16] In proposito si segnala una celeberrima lettera di Gramsci.

[17] Si veda per conferma questa statistica relativa al 2020.

[18] A tal proposito Lenin, citando l’economista inglese Hobson, dice: “Questi gruppi [i gruppi finanziari, ndr] si assicurano l’attiva cooperazione degli statisti e dei gruppi politici che detengono il potere nei «partiti», in parte associandoli direttamente alle loro combinazioni, e in parte appellandosi all’istinto di conservazione dei membri delle classi possidenti, i cui interessi costituiti e il cui predominio di classe possono meglio preservarsi deviando le correnti politiche dalla politica interna a quella estera”. Lenin, V.I. (1917) Империализм как высшая стадия капитализма. Петроград: Жизнь и знания (trad. it. L’imperialismo fase suprema del capitalismo).

[19] Si vedano, sulla proprietà della terra e delle risorse naturali, gli articoli 8-10 della Costituzione della Rpc del 1982.

[20] Su questo argomento si vedano questo articolo e quest’altro articolo, per quanto viziati in senso ideologico e contrapposti rispetto all’interpretazione di alcune conseguenze.

[21] Si veda per esempio il seguente articolo, dell’epoca subito precedente alla recente riforma, che non lesina sostegno alla lotta “rivoluzionaria” dei contadini cinesi contro le promesse non mantenute dalla Repubblica Popolare.

[22] Dice a tal proposito Lenin, nel discorso di apertura al IV congresso dell’Internazionale comunista: “Il capitalismo di Stato, come l’abbiamo instaurato da noi è un capitalismo di Stato particolare. Esso non corrisponde al concetto ordinario di capitalismo di Stato. Noi abbiamo nelle nostre mani tutte le leve di comando, abbiamo nelle nostre mani la terra che appartiene allo Stato. Ciò è molto importante, quantunque i nostri avversari presentino la questione come se ciò non avesse alcuna importanza. (…) abbiamo nelle mani dello Stato proletario non soltanto la terra, ma anche i settori più importanti dell’industria. Anzitutto abbiamo dato in affitto una certa parte della piccola e media industria; ma tutto il rimanente resta nelle nostre mani. Per quanto riguarda il commercio, voglio ancora sottolineare che ci adoperiamo a fondare, e che anzi stiamo fondando, delle società miste, cioè delle società nelle quali una parte del capitale appartiene a capitalisti privati – e particolarmente a capitalisti stranieri – e l’altra parte a noi”. Lenin, V.I. (1966). Opere complete XXXIII. Roma: Editori Riuniti, p.393.

[23] Si veda questo articolo.

[24] I dati sono qui.

[25] Si vedano ad esempio questo articolo o quest’altro.

[26] A proposito si veda qui.

[27] Come segnalato per esempio in questo articolo.

[28] “Dimenticando” di mettere in chiaro come i dati sulla Cina siano condizionati dal fatto che si occupa di produrre per tutto il mondo, lo segnala anche questo articolo.

[29] Si veda questo articolo, che, come di consueto nella stampa occidentale mainstream, ha una pesante tara ideologica.

[30] Si veda al riguardo questo articolo.

[31] Si veda l’ennesimo articolo con tara ideologica qui.

[32] A tal proposito i dati sono ritrovabili qui.

[33] Qui i dati al 2018.

[34] Sui rapporti tra Cina e Russia al riguardo si veda qui.

[35] Il ruolo della Bri nel periodo pandemico è brevemente riassunto qui; sulla funzione rispetto al mondo digitale, il ruolo della Bri è ben compreso guardando i mutamenti nel settore di Investimenti Diretti Esteri (Ide) tra Cina e Usa, rintracciabili qui.

[36] Si veda qui.

[37] La questione viene posta, per esempio, qui.

[38] Possono essere utili le questioni sollevate in questo articolo o in questo articolo.

[39] Fra le tante svolte al riguardo, una delle ultime è quella riassunta qui.

[40] Ne parla il “Sole 24 Ore” qui; errando sulle conclusioni ma dicendo qualcosa di valido sull’analisi, invece, la questione viene affrontata in questo articolo.

[41] Si veda un approfondimento qui.

[42] Un debunking della questione a questo link.

[43] Al riguardo nel settore privato gli investimenti sono principalmente su manifattura e servizi, quelli pubblici principalmente in miniere ed edilizia come indicato qui. Le imprese private hanno quindi delocalizzato per interesse di riduzione del costo del lavoro, come fecero quelle occidentali in Cina anni prima (si veda qui); il settore pubblico invece ha operato in modo maggiormente indirizzato. Un noto caso ambiguo riguarda la situazione in Congo, visionabile qui.

[44] Alcuni elementi della storia tra Jack Ma ed il Pcc si trovano qui.

[45] Un resoconto dello scontro si può trovare qui.

[46] Alcuni spunti sui legami internazionali di Jack Ma si ritrovano qui.

[47] Si veda qui.

[48] Un articolo al riguardo è questo, ripreso da molte altre testate. La società Ant è stata quella a scatenare lo scontro aperto tra Xi Jinping e Jack Ma, ora rientrato per il ruolo di Ma nella produzione dei semiconduttori necessari all’industria cinese (si riconferma come Xi accetti i grandi capitalisti, ma solo se si sottomettono agli interessi decisi dal Pcc).

[49] Alla fine del testo ritrovabile a questo link.

[50] Un valido articolo di resoconto che accenna all’atteggiamento burocratico del Pcc è questo; utile anche la ricostruzione proposta qui, per quanto sia necessario separare gli utili dati e la pessima analisi. È infine istruttivo vedere invece che ci sono stati momenti di sviluppo della forza delle masse, come in questo caso o in questo.

25/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Simone Rossi

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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