Draghi come Ciampi, commissari della democrazia

Il confronto dell’attuale emergenza pandemica con la passata emergenza “morale” della vicenda Mani Pulite fa capire come, al di là della narrazione mistificata e nell’appiattimento acritico dello scenario politico anche di campo “progressista”, i governi tecnici rappresentano l’intervento diretto delle oligarchie finanziarie ed economiche per indirizzare a loro vantaggio, in momenti cruciali, le scelte economiche e sociali fondamentali del paese.


Draghi come Ciampi, commissari della democrazia

Nel momento in cui ci accingiamo a scrivere questo articolo tutti gli organi di informazione e l’opinione pubblica italiana ed europea seguono le consultazioni che presumibilmente porteranno alla nascita del governo presieduto da Mario Draghi. Il “clima” del dibattito pubblico registra quell’ondata di unanimismo degno dei grandi momenti della storia, come una dichiarazione di guerra o una grande catastrofe naturale, che richiedono, ognuno a suo modo, la mobilitazione, se non dei corpi, delle coscienze, e non tollerano defezioni o diserzioni. La forza della corrente è impressionante. L’unanimità dovrebbe sempre generare sospetto negli spiriti critici: in questo caso, l’euforia quasi orgasmatica delle forze socialmente e culturalmente egemoni si incontra col deserto di analisi e di consistenza finanche morale di quel che dovrebbe essere, ma non è, il campo progressista e popolare. La mancanza di resistenza, di attrito ai flussi comunicativi del Dominio genera l’appiattimento delle idee e il livellamento, al basso, del dibattito, stretto tra l’affermazione delle mille possibili sfumature del conformismo più o meno servile e il rifiuto stizzoso dei bastian contrari. Nella scarsità di tempo e di risorse tentiamo qui almeno di sollevare un dubbio, un’obiezione.

Da “Repubblica” del 4 febbraio: “Il modello è Carlo Azeglio Ciampi. Il governo del 1993. Un esecutivo «tecnico-politico». (...) la politica non verrà commissariata. Anzi, il connubio tra essa e la componente «tecnica» dovrà essere virtuoso. Come lo fu, appunto, 28 anni fa con l’approdo a Palazzo Chigi dell’allora Governatore della Banca d’Italia. In quel momento l’emergenza era un’altra. Il Paese stava assistendo al collasso del sistema dei partiti e alla più grande inchiesta che metteva sotto processo una intera classe dirigente: Mani pulite. Adesso la situazione è ovviamente diversa. L’emergenza è la stessa. E il governo reclamato dal Quirinale ha un solo «scopo»: uscire dalle secche virali dell’epidemia ed evitare l’abisso di una occasione persa, quella del Recovery Fund”.

Quello che queste parole del giornalista Claudio Tito ci presentano non è solo il punto centrale della narrazione affermata da pressoché tutti coloro che ritengono di avere il dovere e il privilegio di formare l’opinione corrente, ma il cuore di una vera mistificazione della nostra storia recente. Non è strano che questa mistificazione venga proposta dalle forze che hanno evidente interesse a difenderla, e dai loro alfieri e messaggeri; è però quasi incredibile che essa non trovi contappunto e critiche.

Draghi è come Ciampi. Non solo e non tanto per l’evidente contiguità culturale e biografica, su cui pure ci sarebbe da discorrere, ma per l’identità di contesto, di situazione. Uomini tecnicamente preparati, estranei alla quotidianità della lotta politica di fazione, chiamati a intervenire e a ristabilire con la loro saggezza ed equidistanza l’unità d’azione della comunità nazionale di fronte a un’emergenza straordinaria, che con loro e grazie a loro possiamo affrontare e vincere. Propongo di andare all’origine del paragone, in un momento realmente chiave della nostra storia. Perché se davvero sono tante e tali le somiglianze tra i due cavalieri salvatori che devono aiutarci, tutti noi, a “evitare l’abisso”, allora non possiamo capire il prossimo governo Draghi senza parlare di Mani Pulite. L’altra emergenza. Il collasso della politica, da lei stessa generato, da cui la democrazia minacciava di non avere forze e risorse per sollevarsi.

Esprimo in modo diretto la mia tesi. Mani pulite non è stata il crollo di un ceto politico immorale e delle sue organizzazioni di partito, spazzate via per una dinamica incontrollabile da un’inchiesta che come una valanga, partendo da piccoli episodi, ne ha svelato in modo sempre più contundente e irresistibile la corruzione sistemica, fino a minarne irreversibilmente il consenso. Il significato storico di Mani pulite, indipendentemente dalle circostanze minute in cui sono sorte e si sono sviluppate le inchieste, è consistito nella liquidazione di un ceto politico indissolubilmente legato, in molte forme, al controllo da parte dello Stato di parte rilevante dell’economia nazionale. Mani pulite è un sottoprodotto del collasso dei regimi socialisti sovietici e dell’Europa dell’Est e del venir meno della loro pressione competitiva. Senza l’ombra del socialismo e della sua capacità di generare consenso e coscienza popolare è diminuita esponenzialmente la necessità delle classi dominanti di ricercare la mediazione della politica nel perseguire stabilità ed esercizio del potere. Di più, si apriva lo spazio per una riconfigurazione strutturale e istituzionale profonda. La corrente del nuovo ordine neoliberale non trovava e non voleva trovare più né dighe né argini che potessero contenerlo o limitarlo. I nostri avversari sono stati estremamente rapidi a capire le potenzialità della situazione, la possibilità di generare fatti irreversibili nella direzione dell’affermazione di un ordine consono alla loro visione di classe e della limitazione e addomesticamento di qualsiasi idea di democrazia sostanziale. Capisco l’emozione nostalgica che deve generare nei nostri borghesi il ricordo di quegli anni, che parvero davvero aprir loro la possibilità di modellare il mondo a esclusiva immagine, somiglianza, e facilità d’uso. Stiamo parlando di uno dei maggiori movimenti di privatizzazione del mondo occidentale, di cui non si dovrebbe mettere in discussione la modalità, ma la sostanza. È impressionante, e inaccettabile, che l’idea di sinistra politica si sia tanto diluita e compromessa da prestarsi a essere evocata da forze che non intendono e non sono disposti ad accettare che in questo preciso punto nasca tanta parte della miseria e dell’involuzione, reazionaria, del mondo in cui siamo oggi tenuti a vivere.

I «tecnici» sono intervenuti per prendere forse le ultime decisioni davvero importanti per la nostra comunità nazionale e per tracciare la strada futura della politica in questa parte di mondo: quella della deresponsabilizzazione. In Italia questa era già consolidata nella gestione della politica estera, da sempre delegata alla potenza egemone alle cui forze militari, a tre quarti di secolo dalla fine della Seconda guerra mondiale, ancora oggi concediamo l’uso e l’occupazione del territorio; la ritirata dello Stato, potenzialmente condizionabile da dinamiche democratiche, dalla gestione del sistema produttivo e delle infrastrutture fondamentali, apriva le porte all’inessenzialità, all’intrattenimento, alla farsa, ai buffoni e ai cialtroni di turno. Sbagliavano, negli anni Novanta, quanti pensavano che Berlusconi e le sue convinzioni ideologiche o morali potessero avere un effetto concreto sulle nostre vite; eravamo già al momento del varietà, di quel che poteva essere la democrazia avevamo appena visto i titoli di coda. I trattati europei chiudevano il cerchio dal punto di vista istituzionale creando una barriera poderosa a qualsiasi eventualità di influenza democratica e popolare sulle politiche economiche, dichiarate neoliberiste in modo di fatto costituzionale – ma immodificabile. Le oligarchie finanziarie e produttive, in breve la parte egemone delle nostre classi dominanti si era costruita per un’intera fase storica una botte di ferro confortevole e adeguata alla difesa dei propri privilegi e all’edificazione di una società a misura delle proprie ambizioni. La spaventosa eccezionalità storica è che nel paese di Gramsci, che ha vissuto intensamente e per lungo tempo l’esistenza e l’azione del più grande partito comunista d’occidente, queste affermazioni, che non si discostano troppo da un certo grado di ovvietà, suonino come isolate o controcorrente nel campo di coloro che dovrebbero avere come minimo un’intenzione critica nei confronti della società capitalista contemporanea.

Draghi, dunque, è come Ciampi, noi siamo d’accordo. È, come il suo predecessore, pronto a intervenire con la massima efficienza nella promozione brutale degli interessi settoriali delle élite economiche e finanziarie, che decidono di intervenire attraverso lui, cioè in prima persona, nel governo dello Stato per la contemporanea presenza di due precondizioni: la grande entità della posta in gioco e un clima emergenziale che permette di alzare la pressione su ciò che resta – nel nostro caso, poco – della rappresentanza democratica, imponendole di farsi da parte. Oggi i fondi europei, capaci per ordine di grandezza di provocare cambiamenti strutturali; ieri la possibilità di gestione di parte importante delle infrastrutture produttive del paese. Oggi l’emergenza sanitaria, ieri la crisi della “vecchia politica”. Non è necessario spingersi troppo sul cammino del complotto delle forze oscure, le oligarchie non hanno necessità di creare le emergenze: è per loro sufficiente saperle sobillare, e poi gestire, approfittando delle occasioni come chi nella furia generale sa che avrà sempre le redini saldamente in mano. Ciò che inquieta in questa allegra frenesia collettiva, che non risparmia nell’essenza nessuna forza politica di ragionevole visibilità, è che il punto di vista popolare e democratico non sia, in questo dibattito, perdente, bensì assente. Si tratta di un’involuzione civile. Sia detto nel modo più semplice possibile: non esiste oggi nessuno nel dibattito pubblico italiano che stia dicendo, al popolo, la verità. Che da una parte c’è Draghi, dall’altra la democrazia. Che non si tratta di un tecnico, ma di un commissario. E che una volta di più, ma in modo più sostanziale, e di fronte a scelte decisive, si tratta d’esser governati per conto d’altri

12/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Marco De Liso

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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