Pubblica amministrazione: Renzi non cambia verso

Il disegno di legge delega sulla riforma della Pubblica Amministrazione, approvato recentemente al Senato con le consistenti modifiche subite in sede di 1° commissione “affari costituzionali” [1] è pericoloso non tanto perché cambia il “verso” delle politiche sulla PA ma perché costituisce una forte accelerazione nello stesso brutto verso imboccato negli ultimi decenni di controriforme. 


Pubblica amministrazione: Renzi non cambia  verso

Nel DDL Madia, giunto quasi al termine del procedimento, Deregulation, privatizzazioni e accentramento dei poteri in favore del presidente del consiglio si nascondono dietro la semplificazione amministrativa 

di Ascanio Bernardeschi e Pasquale Vecchiarelli

Il disegno di legge delega sulla riforma della Pubblica Amministrazione, approvato recentemente al Senato con le consistenti modifiche subite in sede di 1° commissione “affari costituzionali” [1] è pericoloso non tanto perché cambia il “verso” delle politiche sulla PA ma perché costituisce una forte accelerazione nello stesso brutto verso imboccato negli ultimi decenni di controriforme. Intanto si tratta di una delega al governo a legiferare, e ogni elemento di genericità potrà tradursi in danni anche maggiori di quelli ragionevolmente prevedibili oggi. Purtroppo tale genericità pervade vasti ambiti della delega, per cui una valutazione più precisa deve essere rinviata all'emanazione dei decreti delegati. 

In questa sede, ci preme iniziare a tracciare una prima disamina di alcuni principi ispiratori di questo disegno di legge, che prende il nome dalla botticelliana ministra della semplificazione Marianna Madia. 

Tre sono i cardini principali che ritroviamo ad ogni pie’ sospinto rimarcati in tutto il testo di legge: la riforma non dovrà gravare sulla finanza pubblica, maggiore potere alla presidenza del consiglio e tempi rapidi nelle decisioni. Questi principi, analizzati nella loro essenza e comparati con le direttive emanate da altre leggi di marca renziana quali sblocca italia e jobs act, disegnano un quadro organico ben preciso di attacco alla democrazia. 

“Senza maggiori oneri per la finanza pubblica”, oppure “nell'ambito delle risorse disponibili” o “con invarianza delle risorse umane, finanziarie e strumentali”, e così via: la priorità sembra essere il rispetto dell'austerity, che ormai è divenuto un principio-mostro inserito nella stessa Costituzione. È immaginabile una riforma della pubblica amministrazione a costo zero? Certo, una buona riforma, in prospettiva, potrebbe comportare importanti risparmi. Tuttavia è possibile che nella fase iniziale non servano investimenti?
Ma veniamo ai temi più caldi affrontati e agli indirizzi sui quali fin da ora è possibile esprimerci. 

Cominciamo dalla “semplificazione amministrativa”. Dietro questo paravento si nasconde un altro passo verso la deregulation, proseguendo nell'alveo già tracciato da decenni in cui, in maniera demagogica si è fatto credere che la sburocratizzazione e la semplificazione si ottenga togliendo lacci e lacciuoli all'impresa.
Nelle procedure per autorizzare le attività dei privati si prevede la “riduzione dei termini” per la convocazione delle conferenze di servizio e per “l’acquisizione degli atti di assenso previsti” dai “soggetti preposti alla tutela della salute, del patrimonio storico- artistico e dell'ambiente”. Se entro tali termini detti soggetti non hanno potuto esprimersi, si “considera acquisito” il loro consenso. La delega dispone anche che il governo “precisi i poteri” dell'amministrazione titolare del procedimento in simili casi. Insomma il governo potrebbe dare loro il potere di dire “tutto va bene madama la Marchesa”. Si deve comunque “pervenire alla conclusione del procedimento entro i termini previsti”. 
Il che potrebbe anche essere ragionevole in presenza di strutture ben organizzate, dotate di strumenti adeguati e in cui non c'è il rischio di pratiche corruttive. Ma, a parte l'immancabile retorica sulla digitalizzazione e uno sconto sui costi delle intercettazioni – che però si intende depotenziare con altri provvedimenti –, la delega non indica strumenti per raggiungere simili requisiti. Così, per abbassare i controlli, il governo viene autorizzato anche a sopprimere il corpo della guardia forestale.
La tendenza alla riduzione delle tutele in fatto salvaguardia dei beni ambientali, della salute e della sicurezza pubblica, iniziata qualche decennio fa, si era già approfondita con il decreto “sblocca Italia”, nell'illusorio tentativo di uscire dalla crisi permettendo la devastazione del nostro patrimonio più prezioso. La filosofia è identica a quella del jobs act: svendendo il territorio e i diritti si attraggono capitali.
Non si considera che in questa gara di emulazione al ribasso, si falcidiano le tutele, mentre, con la generalizzazione in ogni paese di queste politiche, scompaiono gli stessi vantaggi comparati. Non preoccupa l'impoverimento delle persone e del territorio che ne consegue. Non sorge il sospetto che così si attraggano le imprese peggiori, quelle che vengono solo per approfittare dei tappeti di velluto loro stesi e pronte ad andarsene altrove se vengono loro assicurati profitti più alti.

Preoccupanti sono anche gli incentivi che favoriscono l’aggregazione delle gestioni di servizi pubblici, stoppando quelle “non conformi ai principi di concorrenza”. Infatti non tutte le tipologie di servizio guadagnano in efficacia con l'accrescimento delle dimensioni del gestore.
Che vantaggio c'è per esempio, ad avere un mega gestore nella raccolta dei rifiuti urbani di piccole e medie realtà urbane? E se poi tale gestore lo si accorpa con quello dello smaltimento dei rifiuti, il quale magari aspira a fruire dei contributi previsti per l'incenerimento, pensiamo forse che ne guadagnerà la raccolta differenziata? Oppure si innesca un altro conflitto di interessi? Che dietro ci sia la voglia di dare un'altra spinta al processo di privatizzazione e di ingresso di grandi capitali nelle gestioni lo ha ammesso la stessa On. Lanzillotta, autrice dell'emendamento. Una conferma è nell'art. 7, in cui si prevede una “razionalizzazione con eventuale soppressione degli uffici ministeriali le cui funzioni si sovrappongono a quelle proprie delle autorità indipendenti”. Tale sostituzione delle autority agli uffici statali può essere un formidabile strumento per velocizzare le privatizzazioni e accorciare la catena di comando tra il governo e le aziende, scavalcando altri poteri di indirizzo e controllo. 
Andrea Camanzi, presidente dell’autority dei trasporti, in una recente intervista rilasciata al Sole 24 ore [2] dove spiega che l’autority ha aperto un procedimento sanzionatorio nei confronti dell’ azienda di stato RFI allo scopo di difendere i principi di libera concorrenza (cioè i profitti di NTV), pare confermare le nostre perplessità sul ruolo nefasto per la democrazia ed il bene comune di queste nuove strutture, le autority, nate proprio per procedere più velocemente sulla via della privatizzazione . Nessun lume ci è fornito, inoltre, in merito a quali delle autorità esistenti devono essere mantenute e quali possono essere accorpate o eliminate.

Per quanto riguarda i servizi pubblici locali l'ingerenza del governo sarà pesante. Andrà dalla loro disciplina generale – e fin qui può andare – alla “definizione dei criteri” per la loro “organizzazione territoriale ottimale”, all'individuazione “delle modalità di gestione o di conferimento della gestione” all'introduzione di incentivi per la loro aggregazione e privatizzazione. 

Altro elemento di grande pericolo è la concentrazione dei poteri in capo al governo e al Presidente del Consiglio, in coerenza con il progetto di riforma costituzionale in itinere e con la appena varata legge elettorale. In materia di conferenza di sevizi, per esempio, si prevede che partecipi “un unico rappresentante delle amministrazioni statali” a prescindere dalle diversificate competenze. Nel caso di uffici periferici tale rappresentante è designato dalla rinnovata prefettura.
In particolare al Presidente del Consiglio verranno attribuite ulteriori competenze di guida delle attività dei ministeri, di “definizione e valutazione delle politiche pubbliche” (e qui ci sta tutto!), “in materia di vigilanza sulle agenzie governative nazionali”. E l'elenco è incompleto.
In questo sommario esame dobbiamo includere anche il tema dei dipendenti pubblici e della dirigenza, oggetto in passato di diversi interventi volti ad una sorta di privatizzazione del rapporto d'impiego pubblico, anteponendo al ruolo di garanzia, imparzialità e legittimità i criteri di efficienza, risparmio e soprattutto arbitrio da parte degli amministratori nei confronti delle carriere, attraverso lo strumento dello spoil system, cioè del meccanismo attraverso cui chi governa la cosa pubblica distribuisce a piacere la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere di modo che i destinatari garantiscano gli interessi di chi li ha incaricati. 

La legge delega infatti prevede per la dirigenza la “piena mobilità tra i ruoli”, il “superamento degli automatismi nel percorso di carriera”, incarichi triennali rinnovabili una sola volta. Certo, un po' di fumo viene sparso prevedendo commissioni che precisino criteri, procedure ecc. per la valutazione e la selezione. Ma è dirimente il potere di revoca degli incarichi “in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi”, che rende la dirigenza pienamente assoggettata ai voleri del politico di turno. Tanto più che le conseguenze di tale revoca possono essere nefaste: erogazione del solo “trattamento economico fondamentale e della parte fissa della retribuzione” maturata prima dei decreti delegati (escludendo quindi le altre indennità che mediamente valgono un altro stipendio); “collocamento in disponibilità” con “decadenza dal ruolo unico” della dirigenza dopo “un determinato periodo di collocamento in disponibilità; “destinazione allo svolgimento di attività di supporto [...] senza retribuzioni aggiuntive”; rilevanza degli “esiti” delle valutazioni “per il conferimento dei successivi incarichi dirigenziali”. 

Insomma, la classe dirigenziale, di per sé non impavida, sarà ancor più del passato ricattabile e, a cascata, lo saranno i comuni dipendenti pubblici, soggetti a loro volta alle valutazioni e all'attribuzione o meno di incentivi da parte dei dirigenti.
Per quanto riguarda gli enti locali, al vertice della piramide amministrativa, viene confermata e – a differenza del passato – resa obbligatoria, la figura del direttore generale e soppressa la figura del segretario comunale. In questo modo scompare l'ultimo barlume di controllo preventivo di legittimità dei provvedimenti.
Nel solco delle precedenti riforme, viene anche confermata la distinzione, in sé non irragionevole, tra indirizzo politico e attività gestionale, rafforzando tale distinzione con l'attribuzione ai dirigenti in via “esclusiva” della “responsabilità per l’attività gestionale”. Però, dal momento che si è disegnata l'attività dei dirigenti come fortemente esposta ai capricci dei politici, la norma si trasforma in una protezione dei politici che saranno indenni da imputazioni di responsabilità in quanto sulla carta non gestiscono niente.
Altre parti della delega, su cui non possiamo qui soffermarci, centralizzano la contrattazione sindacale integrativa, la definizione degli “obiettivi di contenimento delle assunzioni” e dei criteri di valutazione del personale (su tutto questo si veda l'art. 12). 

Insomma, sottomettendo l'amministrazione pubblica alla volontà del governo, si restringe il perimetro democratico, si accentrano i poteri nel capo del governo, per la gioia del nostro piccolo Bonaparte. 

[1] http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/testi/44709_testi.htm
[2] http://www.autorita-trasporti.it/wp-content/uploads/2014/05/Intervista-a-Camanzi- Il-Sole-24-ore-del-9-4-2015.pdf 

09/05/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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