Scuola, lavoro, Costituzione

La lotta contro la “Buona scuola” come opposizione alle tendenze politico-economiche regressive.


Scuola, lavoro, Costituzione

Privatizzazione della scuola pubblica e forte riduzione del suo finanziamento statale. Un ampio processo di compressione del salario (diretto, indiretto e differito) e di revisione antipopolare della Costituzione. La lotta contro la “Buona scuola” si potrebbe inserire in un orizzonte di opposizione a queste tendenze politico-economiche regressive.

di Paolo Valentini

Il movimento di lotta contro la legge 107/15 attraversa una fase di difficoltà sia per i comportamenti e la mentalità indotti dalla nuova normativa sia per i problemi di una nuova fase di iniziative. Si rafforza la convinzione che il limite della mobilitazione precedente e l’esigenza di una ripresa abbiano come comune radice il legame tra la scuola e altri settori del conflitto sociale. Può essere utile in questa circostanza ricordare la posizione relativa del settore scolastico riguardo la ripartizione delle risorse pubbliche. I dati Istat indicano che la quota del finanziamento della scuola pubblica sul totale del bilancio dello Stato è passata dal 22-23% degli anni sessanta all’attuale 6-7%, mentre la scolarizzazione è aumentata del 50% circa (questi dati sono fortemente aggregati: ad esempio la scolarizzazione era già ampia cinquanta anni fa nella fascia della primaria, si è incrementata invece notevolmente, da allora, nella secondaria inferiore e superiore): sebbene i calcoli possano essere precisati, lo Stato spende circa 1/3 delle risorse che destinava mezzo secolo prima all’istruzione, come quota del proprio conto complessivo.

Questa circostanza indica una scelta politica fondamentale che, pur intuita o conosciuta, non è considerata come dovrebbe nel dibattito sulla scuola: lo Stato negli ultimi decenni ha disinvestito pesantemente nell’istruzione, un settore che in realtà risulta governato dal Tesoro attraverso un costante restringimento dei fondi disponibili e una parallela delega al Miur per elaborare periodicamente riforme che giustifichino e diano legittimità a tale contrazione. Questa diminuzione è a sua volta parte di un processo più generale che riguarda un ridimensionamento della quota dei salari rispetto alle rendite e ai profitti nel PIL: i primi sono passati in Italia (ma la tendenza è simile in molti Paesi) dal 68% del PIL al 53% [1], con speculare aumento del secondo gruppo di redditi. Il calo della retribuzione del lavoro dipendente (e del piccolo lavoro autonomo) riguarda il salario diretto (quanto si riceve in busta paga), indiretto (i servizi sociali- sanità, trasporti, istruzione-), differito (pensioni): sono tutti aspetti del salario al centro, da molti anni, di un attacco forte e continuo e che quindi risultano decurtati in questo periodo dalla pressione esercitata dalle ristrutturazioni e dal decentramento produttivo, dalle delocalizzazioni, dalla precarizzazione del lavoro, dalla scissione tra lavoratori autoctoni e immigrati. In tale contesto si colloca anche il deciso restringimento del finanziamento della scuola pubblica.

A questo proposito si può ricordare la relazione tra riduzione delle risorse destinate all’istruzione e autonomia scolastica presente fin dai primi anni Novanta: nell’agosto 1993, in occasione della promulgazione del decreto “taglia classi” del ministro della Pubblica Istruzione Rosa Russo Iervolino, il Ministro della Funzione Pubblica Sabino Cassese, di fronte alle proteste dei Provveditori agli Studi e dei Sovrintendenti scolastici, ribadì il suo progetto di eliminazione quasi completa dei Provveditorati e di autonomia delle singole scuole, come aveva già sostenuto il 30 gennaio 1990 alla Conferenza nazionale sulla scuola: “Non si può attribuire ad una comunità scolastica autonomia didattica se non la si allarga anche agli aspetti organizzativi, alla destinazione e alla ricerca delle risorse finanziarie e alla scelta del personale”(sottolineatura mia). Dunque l’autonomia scolastica, collegata ad un processo di contrazione delle risorse disponibili in questo settore, prevedeva già nella sua concezione originaria la concorrenza tra scuole, il reperimento di finanziamenti da parte di ognuna di loro, la scelta del personale, ossia il percorso di cui è iniziata la realizzazione oltre venti anni fa e che è stato portato ad avanzato compimento dalla “Buona Scuola”. Di fronte a questo forte legame strategico tra riduzione dei fondi per l’istruzione pubblica e autonomia scolastica si può inoltre notare che l’idea di proporre una diversa riforma della scuola può rappresentare una manifestazione di sudditanza culturale nei confronti di coloro che, gestendo una ristrutturazione così ampia e di lunga durata della formazione dei giovani, non ammettano critiche se non “propositive”: ma all’interno della cornice costituita dai mezzi scarsi e dall’autonomia non è possibile nessuna controproposta significativa; l’unica vera controproposta consiste nella capacità di imporre un superamento decisivo di tale scarsità di risorse e del corrispondente assetto dell’autonomia.

La profonda redistribuzione del reddito e delle relazioni sociali cui si è appena fatto riferimento richiedeva una più adeguata capacità di controllo del conflitto che senza dubbio questa impostazione politico-economica suscitava. In tal senso si è aperta una nuova fase del contrasto alle istituzioni politiche delineate dalla Costituzione repubblicana del 1948. La Costituzione vigente è infatti stata osteggiata fin dalla sua elaborazione, in quanto le forze conservatrici erano comunque preoccupate di un assetto dello Stato condizionato dagli equilibri di potere nati nel periodo della lotta di liberazione nazionale, in cui il movimento operaio e i ceti popolari avevano acquisito un notevole peso. Nei primi trent’anni quindi l’opposizione alla Costituzione si è manifestata tramite una lenta o mancata attuazione di parti consistenti e rilevanti della Carta del 1948. Dalla fine degli anni settanta del Novecento si è, invece, entrati in una nuova fase: è stata diffusa l’idea che la Costituzione fosse ormai invecchiata e superata, forse nel suo stesso impianto ma comunque in aspetti importanti, soprattutto riguardo all’ordinamento dello Stato (seconda parte), e fosse dunque necessaria una sua revisione. Si potrebbe osservare che una Costituzione non invecchia in qualche lustro ma le ragioni di coloro che la criticano e ne chiedono una modifica risiedono invece in una differente concezione politica, che intendono imporre, mutando il fondamento costituzionale: si può in proposito ricordare che gli Stati Uniti hanno una medesima Costituzione da 230 anni e, sebbene sia stata integrata da diversi emendamenti, non si discute di un suo superamento o di una sua revisione; analogamente in Inghilterra, pur non essendovi una Costituzione in senso stretto, i documenti che formano la base di riferimento delle istituzioni politiche e giuridiche sono la “Magna Charta” del 1215, l’“Habeas Corpus” del 1679 e il “Bill of Rights” del 1689, il cui nucleo concettuale continua, evidentemente, ad essere condiviso dalle classi dirigenti britanniche.

I motivi dunque dei continui interventi di modifica costituzionale che da oltre trent’anni stanno stravolgendo la Carta del 1948 vanno ricercati nell’opposizione al carattere peculiare di “Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Tale particolare attacco al lavoro nella specifica situazione italiana (che, appunto, nel nostro contesto nazionale esprime una nuova fase del contrasto che le forze conservatrici hanno sviluppato a livello sociale e istituzionale rispetto alla Costituzione italiana vigente) si coniuga con la più generale ristrutturazione liberista degli ultimi decenni. Questa complessiva azione di ridimensionamento del lavoro sia da un punto di vista salariale e sociale (nelle sue varie forme, come si è già ricordato) sia dal punto di vista politico e costituzionale ha trovato espressione in un documento noto come “Piano di rinascita democratica”, preparato proprio quaranta anni fa (inizio 1976), emerso nel giugno del 1981 (tramite opportuno e “casuale” reperimento in seguito ad una provvidenziale perquisizione aeroportuale della figlia di un potente dirigente della loggia massonica P2) e pubblicato nel 1984.

Il ‘piano’ si autodefinisce ‘democratico’ poiché, nelle intenzioni ufficiali, demanda la propria attuazione non alla forza militare, che scavalchi la legalità costituzionale, ma ad interventi, che seppur ‘riservati’, rispettino la forma democratica. Questo progetto politico promuove una sterilizzazione del conflitto attraverso una serie di passaggi, facilitati dall’impiego di notevoli somme, che prevedano il bipolarismo (“La nascita di due nuovi movimenti politici i quali riaggreghino le componenti democratiche esistenti nelle due mezze ali sinistra e destra degli schieramenti attraverso scomposizioni e ricomposizioni..”), un sistema elettorale almeno parzialmente maggioritario (“nuove leggi elettorali, per la camera, di tipo misto- uninominale e proporzionale, secondo il modello tedesco-…”), il rafforzamento dell’esecutivo (vari punti, tra cui :”legge sulla presidenza del consiglio e sui ministeri per determinare competenze e numero”, “legge sulla programmazione globale- art. 41 Cost.- incentrata su un ministero dell’economia che inglobi le attuali strutture di incentivazione..”, “ modifica della costituzione per stabilire che il presidente del consiglio è eletto dalla camera all’inizio di ogni legislatura e può essere rovesciato soltanto attraverso l’elezione del successore”), il superamento del bicameralismo perfetto (“ripartizione di fatto di competenze fra le due camere – funzione politica alla camera dei deputati e funzione economica al senato”, “modifica della costituzione per dare alla camera preminenza politica –nomina del primo ministro- ed al senato preponderanza economica –esame del bilancio-“, “nuove leggi elettorali,…, per il senato, di rappresentanza di secondo grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali, diminuendo a 250 il numero dei senatori …”). Come si può notare i passi tratti dal ‘piano’, e posti tra parentesi, individuano concetti al centro del dibattito e dell’opera legislativa, ordinaria e di revisione costituzionale, degli ultimi decenni, fino, è il caso di evidenziarlo per l’attualità della questione, al superamento del bicameralismo perfetto, con la proposta di un Senato di secondo grado, su base regionale (la sottolineatura è mia nel testo del ‘Piano di rinascita’ sopra riportato). Il tratto caratteristico che lega questi passaggi è il progressivo isolamento delle strutture istituzionali e delle sedi decisionali della Repubblica rispetto alle pressioni e alle esigenze dei ceti popolari. Nella Repubblica fondata sul lavoro l’attacco al lavoro si deve sviluppare anche come attacco alla Costituzione. Questa deriva oligarchica viene coperta con l’argomentazione che l’insieme di tali meccanismi (bipolarismo- quindi semplificazione del quadro politico e riduzione o scomparsa dei piccoli partiti e del loro ‘deleterio’ potere di ricatto e condizionamento, criterio elettorale maggioritario, rafforzamento dell’esecutivo e maggiore efficacia dell’intervento dello Stato) garantirebbe un governo finalmente scelto dai cittadini elettori e dotato di rapidità e incisività, perché libero dalle pastoie di interminabili mediazioni.

Purtroppo gli elettori, man mano che procedono nella conquista di questi invidiabili poteri, si recano in numero sempre più scarso alle urne. Ad esempio, le elezioni europee del 2014 hanno registrato la partecipazione di poco più della metà del corpo elettorale; di tale metà il 40,8 % ha scelto il Partito Democratico (il più votato), la cui dirigenza ha esultato per questo notevolissimo risultato: in termini assoluti il PD ha ottenuto 11.172.861 voti su 49.256.169 aventi diritto [2], poco più del 20%. In definitiva il consenso di un quinto dell’elettorato è ritenuto un successo travolgente! Forse molti elettori, considerata la lontananza, dalle proprie esigenze, delle forze politiche che popolano ormai il panorama istituzionale ristrutturato dalle riforme oligarchiche che abbiamo ricordato, si sentono poco rappresentate e ritengono non molto significativa la propria partecipazione alla competizione elettorale. Di fronte a questo deficit di rappresentatività i sostenitori di tale concezione oligarchica delle istituzioni repubblicane sostengono che ciò rappresenta il prezzo della governabilità: vi sarebbe quindi uno scambio tra rappresentatività e governabilità; una quota, anche consistente, di popolazione non soddisfatta dell’assetto economico e politico (e non rappresentata) garantirebbe una spesa pubblica sotto controllo e un’azione di governo tempestiva ed efficace, come richiesto dalle veloci società post-moderne. Sarà necessario denunciare la miseria culturale e sociale di questa narrazione politica: ciò che è in pericolo, se si rovesciasse la tendenza sia alla compressione del lavoro e delle sue varie forme salariali e sia al progressivo isolamento delle istituzioni repubblicane dal conflitto sociale, non è la governabilità ma quel sesto del reddito nazionale (dal 68% al 53%, come si è evidenziato all’inizio) che è migrato dal lavoro dipendente e dal piccolo lavoro autonomo alle rendite e ai profitti e che potrebbe dunque percorrere il cammino opposto.

Sarà, in conclusione auspicabile che la lotta contro la legge 107/2015, la “Buona Scuola”, sia inserita in un orizzonte che preveda l’aumento della quota dei salari (nelle varie forme) sul PIL e la difesa e l’attuazione della Costituzione del 1948, con la consapevolezza che il compito è gravoso ma probabilmente ineludibile, se non si vuole che anche le battaglie che sembrano avere un certo successo (quelle contro il ‘concorsaccio’ nel 2000 o contro l’aumento dell’orario frontale nel 2012) atterrino l’avversario per consentirgli poi di ripresentarsi più forte di prima.

Note

[1] Gallino Luciano, La lotta di classe dopo la lotta di classe; Laterza, 2012; pag. 104-5.

[2] Dati del Ministero dell’Interno, “Eligendo”

19/02/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Paolo Valentini

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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