Da I miserabili a Vivi e lascia vivere

Recensioni di classe a: I miserabili, My Dinner With Hervé, Vivi e lascia vivere e La scomparsa di mia madre


Da I miserabili a Vivi e lascia vivere Credits: https://www.zerkalospettacolo.com/i-miserabili-esce-on-demand-il-film-sulle-periferie-parigine-premiato-a-cannes/

I Miserabili di Ladj Ly, Francia 2019, voto: 8; film emozionante, godibile esteticamente, estremamente attuale e che lascia molto su cui riflettere allo spettatore. Per altro il film mostra come la repressione preventiva di proletariato e sottoproletariato non sia un problema dei soli Stati Uniti, ma di tutti i paesi in cui vi è la dittatura della borghesia. I miserabili è infatti un meritorio film di denuncia delle condizioni di vita nei quartieri proletari e sottoproletari, della classista e razzista repressione portata avanti dalle forze del (dis)-ordine borghese. Interessante anche l’analisi di come in tali quartieri con molti mussulmani tenda ad affermarsi il fondamentalismo islamico. Ciò avviene, innanzitutto, per l’attitudine puramente repressiva del sedicente Stato liberal-democratico. In secondo luogo per la sostanziale assenza di organizzazioni comuniste degne di questo nome. Per cui, abbandonate a loro stesse, le banlieue rischiano di essere dominate dalla droga, anche perché, come si vede bene nel film, gli apparati repressivi dello Stato trovano i loro migliori alleati nella criminalità organizzata.

Significativa è anche la catarsi e la prospettiva che giustamente conclude la tragedia, con una rivolta generalizzata e organizzata che colpisce non solo la funzione repressiva delle forze del (dis)ordine costituito, ma i politicanti opportunisti e corrotti e la criminalità organizzata. Anche se poco realistica e inverosimile è che la rivolta sia opera spontanea di soli adolescenti. Per altro non si ragiona sufficientemente sulla necessaria dialettica fra spontaneismo e direzione consapevole, per cui anche la rivolta finale finisce per apparire un po’ troppo come una vendetta particolare. Infine, per quanto si mostri che i fondamentalisti tendano in ultima istanza a collaborare con gli apparati repressivi, in quanto entrambi funzionali alla salvaguardia del (dis)ordine costituito, la loro funzione prevalentemente reazionaria non è affatto sottolineata. Anzi, alla fine tendono ad apparire la forza organizzata meno peggiore, rispetto all’aspetto essenzialmente repressivo dello Stato imperialista, i politici opportunisti e la malavita organizzata. Quasi che potesse essere, pur in modo parziale, parte della soluzione del problema, e non come è, in effetti, parte integrante di quest’ultimo. Nonostante questi limiti è certamente un film da non perdere. Infine si segnala ancora una volta la posizione inqualificabile dei cinefili che controllano le pagine dedicate al cinema dell’unico quotidiano che si autodefinisce comunista nel nostro paese e che stroncano il film in quanto tendenzialmente realista e con la motivazione che non fa sufficienti concessioni all’ideologia postmoderna irrazionalista e dominante, da cui sono totalmente egemonizzati. 

My Dinner With Hervé di Sacha Gervasi, Usa 2018, voto 6,5; film per la tv coinvolgente e interessante sulla vita narrata in modo sostanzialmente realistico di un attore affetto da nanismo. Il film mostra, senza essere didascalico, l’importanza della lotta per il riconoscimento. Per ottenere quest’ultimo, vista la propria menomazione fisica, il protagonista cerca di ovviare mirando a conquistare la fama, il denaro, il potere e il successo con le donne. In tal modo, spreca la propria esistenza dietro dei falsi miti, non raggiunge mai la felicità e in un disperato tentativo di avere, ormai rimasto sostanzialmente solo, il riconoscimento dell’opinione pubblica non esita ad auto-immolarsi. Peccato che alla giusta e realistica critica delle piccole ambizioni, non si prospetti mai la possibilità stessa di poter coltivare delle grandi ambizioni, come prendere parte da co-protagonista alla lotta per l’emancipazione del genere umano. Come molti prodotti artistici odierni anche questo film non riesce ad andare al di là della sacrosanta critica dell’esistente, della sana posizione scettica. Perciò anche la catarsi che offre a questa tipica tragedia lascia, necessariamente, con l’amaro in bocca.

Vivi e lascia vivere di Pappi Corsicato, serie tv in dieci episodi, Italia 2020, voto: 5-; la serie è interessante per la sua ambientazione in una famiglia proletaria, che si trova in una grave crisi economica dopo l’abbandono del padre. Abbiamo così una donna sola, con tre figli adolescenti che hanno, in particolare una, ambizioni di poter uscire da questo contesto proletario, mediante la capacità e l’impegno nello studio. D’altra parte, non potendo avere sostegno dai genitori, la prima figlia è costretta a fare la ballerina di notte in un locale decisamente equivoco. L’altra sorella, più superficiale, cerca di superare la difficoltà di non poter consumare i prodotti imposti dalla società capitalista attraverso piccoli furti, nei grandi magazzini o in una abitazione di ricchi. La madre non si perde d’animo e animata da uno spirito imprenditoriale piccolo borghese prova a superare le difficoltà che rischiano di precipitare dopo il suo licenziamento da un ristorante, mettendosi in proprio con un'attività di street food. L’ambientazione proletaria stona con i personaggi e gli attori che li interpretano che sembrano i consueti personaggi del ceto medio, che infestano le serie televisive.

Nel terzo e quarto episodio si concretizza il sogno piccolo borghese della protagonista, che però, realisticamente, si realizza solo grazie al capitale anticipato da un imprenditore legato alla malavita, che intende utilizzare tale attività per riciclare denaro sporco. Altrettanto realisticamente la protagonista si immedesima subito nel ruolo di padroncina, al solito più spietata dei grandi capitalisti, e licenzia su due piedi una povera lavoratrice appena assunta, solo perché ha avuto la disgrazia di nascere in una famiglia camorrista. Nonostante che la lavoratrice abbia preso pubblicamente le distanze dall’ambiente malavitoso, tanto che la famiglia stessa l'ha rinnegata. Interessante che il motivo del licenziamento è sostanzialmente analogo a quello da poco subito dalla protagonista, quando era ancora una lavoratrice salariata. Altrettanto interessante è che la proprietaria di un’attività costruita con i denari di un grande delinquente non trovi nulla di meglio da fare che licenziare in tronco una povera donna che sta facendo di tutto per uscire dal contesto di piccola criminalità in cui è nata e cresciuta. Dunque, avrebbe giovato una caratterizzazione un po’ più dialettica del personaggio principale e, soprattutto, un sano effetto di straniamento da parte dell’attrice che la interpreta e che è, al solito, del tutto assente. L’impressione è che l’attrice trovi “naturale” questo riprovevole atteggiamento del suo personaggio. Per quanto riguarda i figli, il maschio appare patetico e poco verosimile. Anche la seconda appare alquanto irrealistica, coniugando gli ottimi voti a scuola con l’hobby del furto. Per non parlare della terza che, per avere i soldi necessari ad andare a studiare negli Usa – ritorna, anche in questo caso acriticamente, il sogno americano – entra sempre più nel personaggio della cubista in un locale equivoco, con la giustificazione che si sarebbe innamorata del proprietario ex alcolista.

Nel quinto e sesto episodio si indaga, anche con efficaci flashback, i rapporti presenti e passati fra l’avventura piccolo borghese della protagonista e l’aspirante grande borghese, impegnato nella fase, necessariamente sporca e spietata, dell'accumulazione primitiva. La serie mostra bene la tentazione offerta dalla società capitalistica di accettare la logica spietata del gioco per portare a termine la propria ascesa sociale. Emerge altrettanto bene il dilemma della piccola borghesia che, per potersi affermare, è costretta a scendere a patti con l’intrinseca violenza dell’accumulazione primitiva. Il film cerca di mostrare al contempo un tentativo di riscatto delle donne dalla condizione di subalternità agli uomini, ma dinanzi alle difficoltà di superare tali problemi sul piano familiare, in una società patriarcale, provano a emanciparsi sul piano cinico e spietato della società civile capitalista. Al solito manca del tutto la possibilità stessa di poter superare i problemi della società borghese mettendone in discussione la logica di sfruttamento e dominio sul piano della lotta collettiva politica e sociale.

Nel settimo e ottavo episodio la serie, come accade quasi sempre, tende ad allungare inutilmente il brodo, perdendo completamente di vista gli aspetti sostanziali e le dinamiche sociali, per riportare tutto all’interno dell’eticità immediata della famiglia, in cui per altro tendono a introdursi elementi del tutto inverosimili, utilizzati esclusivamente per creare colpi di scena e mantenere viva la dipendenza dello spettatore dal prodotto di consumo. Nel caso specifico si assiste alla situazione assurda, in sé ultra maschilista, per cui il padre – che abbandona la famiglia e se ne costruisce un’altra, volendo rompere del tutto con la prima, che lascia sul lastrico anche per il suo vizio del gioco d’azzardo – viene fatto passare come vittima della moglie, che su suo stesso invito ne aveva annunciato la morte al resto della famiglia. Paradossalmente tutti sembrano concentrarsi sul peccato, sostanzialmente veniale, della bugia detta dalla donna, piuttosto che sulle colpe sostanziali dell’uomo. Persino quella solidarietà fra donne sfruttate sembra venire del tutto meno. L’unico aspetto di un certo rilievo che resta è l’evidenziare l’autosfruttamento tipico della piccola borghesia, accentuata dalla costituzione di pseudo-cooperative. Al punto che la protagonista, che da proletaria aveva tempo di stare dietro ai figli, mettendosi in proprio perde sempre più la capacità di dargli una direzione consapevole, per cui in tutti e tre i figli tendono ad affermarsi tendenze amorose piuttosto inverosimili e irrazionali.

Le ultime due puntate hanno semplicemente la funzione di rendere dipendenti gli spettatori meno avveduti, in funzione del lancio di una seconda serie. Per cui manca del tutto una qualsiasi forma di conclusione, ma si aprono tutta una serie di problematiche legate alla sfera sostanzialmente irrazionale dei sentimenti personali, per altro sempre meno verosimili. Inoltre appare la pericolosa tendenza a sottolineare una forma di vocazione al martirio della donna rispetto agli uomini e della madre rispetto ai figli. Le questioni sostanziali che si intravedevano nei primi episodi sono sostanzialmente messe da parte, per dare spazio agli aspetti più culinari e di evasione. Peccato in quanto vi erano all’inizio alcune riflessioni che potevano essere significative sui rapporti sociali nel modo di produzione capitalistico.

La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese, documentario, Italia 2019, voto: 4-; documentario senza arte ne parte di un figlio con il complesso di Peter Pan su una madre ormai nella prospettiva dell’essere per la morte. Seguendo l’ideologia dominante post-moderna il documentario non chiarisce nulla della realtà, ma si limita a una presa diretta puramente naturalistica di momenti inessenziali della vita della protagonista. È un peccato perché qualche cosa di significativo sarebbe pure stato possibile documentarlo, ovvero sarebbe potuta essere ricordata un’epoca di movimenti sociali e politici di massa che si battevano per la emancipazione dell’umanità in cui persino una top model ricca di famiglia sentiva il dovere etico e morale di impegnarsi in prima persona contro lo sfruttamento, in primo luogo della donna.

28/06/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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