Recensione a Il fascismo non è mai morto di Luciano Canfora, Dedalo, Bari, 2024, pag. 94.
Quando Umberto Eco pubblicò il suo Fascismo eterno [1], si assisté, oltre a un favore diffuso, anche a una reazione critica, che da direzioni varie imputava allo scrittore e filosofo una sorta di ipostatizzazione di una categoria politica che, secondo taluni analisti, andava più laicamente ricondotta a uno specifico e circoscritto contesto temporale, irriproducibile in mutate condizioni storiche e dunque consegnato a un passato impossibile da ripristinare tout-court (che non fosse la proverbiale “farsa” marxiana [2]).
In particolare, la riflessione del semiologo verteva sulla suggestiva e altisonante nozione di “Ur-Fascismo” (fascismo “originario”), nel tentativo di perimetrare istituzionalmente (per la precisione in 14 punti) l’area ideologico-valoriale, le coordinate culturali, che ne consentivano una chiara riconoscibilità atemporale, oltre il variare dei contesti e il mutare delle contingenze. Una sorta di “aurea” e stabile ricognizione archetipica, valida a riconoscere e tracciare, una volta per tutte, i “requisiti” di una sensibilità e di un agire politico che tanto hanno influito sulle sorti della contemporaneità e dei quali gli sviluppi più recenti della vicenda nostrana (ma non solo) paiono indicare un carsico e multiforme riaffiorare, sia pure nelle forme cangianti e diversificate che i tempi pretendono. Di fronte, e contro, si ergeva la folla degli storici di professione, diversamente dislocati, che, nell’evocare l’irriducibilità e unicità degli accadimenti occorrenti, del fascismo rivendicavano, per così dire, la storicità in senso stretto e pregnante, la puntuale e definita aderenza a irripetibili temperie storiche, connotate originalmente come emergenze inaudite dello svolgersi delle cose umane [3].
D’altro canto, come ha sostenuto a suo tempo lo storico liberale Walter Laqueur, ”benché sembri morto, il fascismo potrebbe affiorare di nuovo in diverse forme” [4], osservando in sintesi eloquente (siamo alla fine del millennio) che “sotto nuove modalità il fantasma fascista è affiorato anche in parti del pianeta dove pochi se lo sarebbero aspettato” (p.12). E mentre problematizzava l’ampio e flessibile spettro semantico/terminologico che abbraccia “il termine generico di fascista”, lo studioso non mancava di segnalare le incertezze di quei “puristi” (p. 13), che si irrigidiscono nella difesa della eccezionalità della “coppia” e della temperie hitlerismo/mussolinismo [5].
Scaturito originalmente, e in modo assai significativo, dalle trincee italiane della Prima guerra mondiale, il “movimento”, alle sue origini caotico, “informale” e proteiforme (prima di definirsi nelle apodittiche coordinate politiche e culturali che lo avrebbero connotato come punta di lancia della “controrivoluzione preventiva” [6] dunque come strumento del dominio borghese nel nostro Paese e di una feroce reazione anti-popolare), godeva, senza esplicitamente saperlo, di un vasto retroterra culturale (anche, ma non solo) sul Continente, alimentato dalle politiche coloniali e dai loro corollari d’umanesimo sprezzantemente suprematista. In (quasi) tutto l’Occidente atlantico, ricorda Canfora questo pregresso (“nocciolo” del fascismo, p. 13) si alimentava di vaste elaborazioni, spesso a sfondo “scientifico”, alle quali attingeva una larga platea di soggetti alla facile ricerca di una legittimazione per le politiche di rapina imperiale nelle terre d’oltremare [7]. Il fascismo, dunque, prima di tutto come condensazione e localizzazione di umori “bianchi” preesistenti e tutti imperniati sull’idea di un “diritto” degli Herrenvölker, nell’espressione impiegata da Losurdo [8], al dominio sulle disperse e afasiche res nullius delle terre fatte oggetto dello sfruttamento più barbarico e dell’abiezione morale. In tal senso, prodotto eminente di una specifica area del pianeta ed emanazione di un ethos, di una disposizione verso le alterità, nutrita di una narcisistica e tolemaica auto-percezione di superiorità. Pionieristico “merito” del fascismo nostrano è quello di tradurre in prassi politica e statuale, di “aver messo mano e favorito, sorretto, alla fine reso norma e legge questo gruzzolo di concezioni para-positivistiche, para-scientifiche devianti e dagli effetti mortiferi” (p. 14), come dev’essere ben chiaro , “dopo essere stato portato al potere dalle robuste correnti e istituzioni liberal-conservatrici e nazionalistiche, che assisterono – complici e consenzienti – alla mutazione di un movimento politico spregiudicato e magmatico in macchina repressiva” (p. 15). Sarebbe così cominciato il cammino di una formazione a suo modo cangiante e versatile, non comprimibile negli spesso elusivi schemi di comodo che ne hanno fissato lo stereotipo totalitario, temporalmente delimitato, così appiattendolo su una precisa figura della sua traiettoria storica. È per questo che, secondo Canfora, “ai banalizzanti assertori della sua irripetibilità andrebbero poste alcune domande attinenti alla cronologia e alla geografia” (p. 21), così articolandone la plastica (e subdola) fungibilità ai tempi e ai luoghi. Che parlano di fascismi nel fascismo, prima di tutto in una capacità adattativa e di auto-diversificazione di assoluta amoralità e duttilità tattica. A cominciare dalla versione diciannovista, allorché esso dispiegò un grezzo impasto progettuale scaltramente concorrenziale alle sinistre, scorrazzando fragorosamente e impunito per il biennio 1919-1922 (quando con l’appoggio della forza pubblica e dei corpi dello Stato neutralizzò brutalmente quelle forze), passando per il denso quadriennio 1922-1926 (a sua volta da Canfora distinto e bipartito), allorché esso seppe genialmente destreggiarsi tra l’opportunismo delle classi dirigenti liberali, le divisioni delle sinistre, le simpatie di potenze estere, dispiegando un’indubbia capacità di inserirsi nel gioco politico e mettere a resa la sua abilità manovriera, dentro una crisi sociale devastante e sullo sfondo di una paventatissima rivoluzione bolscevica. Per concludere, per così dire, nella costruzione risoluta del Regime, nell’”epopea” imperiale, nell’avventura coerente della guerra hitleriana, nella Repubblica sociale e nella feroce iperbole delle origini incattivite dagli esiti nichilistici. Che non fu solo l’infortunio di una ancillarità rispetto all’alleato nazista, ma “anche la matrice di una forza politica che vi si richiamò nel nome e nel programma: una forza politica (MSI) i cui eredi, fieri del proposito di «non rinnegare» […] sono ora al vertice della Repubblica italiana” [9] (p. 24). Per queste ragioni, un “fascismo che fu tale in tutte le sue fasi e mutazioni […] resta tuttora un modello per esperimenti e metodi già sperimentati e ritornanti”. D’altra parte, quella densissima stagione storica non poteva non essersi incistata nel profondo del corpo sociale né poteva semplicemente “scomparire d’incanto. Era nato da convergenza di interessi di settori significativi della società e perciò continuò a «esserci»”.
Quello che nel tempo si è modificato e andato precisando, piuttosto, è il progressivo penetrare “man mano che ci si allontanava dalla fine della guerra mondiale”, della “percezione della cosiddetta «normalità» del fascismo: forza politica tra le forze politiche; ma anche realtà statuale come nel caso della Spagna di Francisco Franco” (p. 26), a suo tempo tranquillamente “arruolata” da John Foster Dulles tra le forze del “mondo libero”.
Poiché il fascismo italiano seppe anche produrre quelle irradiazioni geografiche [10] che, per Canfora, su una base comune di “razzismo nella sua forma tipicamente «occidentale» di «suprematismo bianco»” (p.29), produssero “similfascismi” (p. 30), localmente articolati e motivati, capaci di radicarsi significativamente su più latitudini, mantenendo al medesimo tempo spesso “la reciproca rivalità potenzialmente insita in ogni nazionalismo esasperato” (p. 29) e la consentaneità ideologica sotto traccia che avrebbe fatto chiedere a Gramsci se esso non fosse “la forma di rivoluzione passiva propria del secolo XX”, proprio “come il liberalismo lo era stato per il XIX” (p. 38). Preziose appaiono, anche da questo punto di vista, le notazioni di Canfora sulle rotonde simpatie storiche nutrite da esponenti del mondo liberal-conservatore (si parla soprattutto di Winston Churchill, ma anche dell’insospettabile… Franklin D. Roosevelt e del suo “ottimo rapporto” – p. 49 - con il Duce ) nei riguardi del “grande uomo”, “reincarnazione del «genio romano»”, che aveva saputo condurre una “trionfante lotta contro gli appetiti bestiali e le pressioni del bolscevismo”, così rendendo “un servigio al mondo intero”. L’Italia fascista, aveva insomma “dimostrato che vi è un modo di combattere le forze sovversive” (p. 51).
Né è pensabile che la conclusione della guerra, dalle nostre parti, avesse chiuso la partita, proprio in ragione di un organico radicamento, attingente a fasce consistenti di popolazione che, a vario titolo e con varia intensità, si trattasse di identificazione attiva o di “zone grigie” di complicità torpida o oggettiva, nel Regime si era riconosciuta (soprattutto negli “anni dell’Impero”, allorché i successi esteri avevano cristallizzato un blocco del “consenso” e prima che la guerra abbassasse verticalmente il grado di condivisione e accettazione). Non a caso il dopoguerra, già dal 1946, assiste a una riemersione di pezzi importanti della nomenklatura, auspice l’“ambiente” della Guerra Fredda, che trasparentemente e in modo tatticamente sagace sanno inserirsi nella dialettica politica, agendo sul doppio binario della disponibilità politicistica a fare da ruota di scorta ai governi centristi (dunque docilmente adattandosi all’almirantiana repubblica “bastarda”) e pervicacemente tramando in chiave eversiva con ambienti atlantici e logge massoniche. Comunque confermando a piè sospinto che il fascismo rimaneva “il traguardo” (nelle parole di Almirante, p. 59) del Movimento Sociale Italiano, la mai sopita aspirazione a una restaurazione del regime e sistema che aveva condotto il Paese al disastro.
I cui eredi, documenta agilmente ma in modo puntuale ed efficace Canfora, al di là degli imbarazzi istituzionali, degli “arrampicamenti retorici” (p. 62), delle goffaggini, delle gaffes e dei ricorrenti lapsus, delle macroscopiche miserie umane, del conflitto tattico interno tra pragmatico-governativi e “destra-destra” (p. 65), costantemente tradiscono il richiamo della foresta di un’appartenenza profondamente vissuta e partecipata. Non riescono a sormontare quella che appare una coazione a ripetere, tuttavia sempre capace di intercettare umori e bisogni delle classi dirigenti, nostrane o “atlantiche”, ribadendo del fascismo il carattere strutturale di cane da guardia del privilegio.
Canfora civetta anche con l’”argomento antropologico, non politologico”, secondo il quale gli eredi proclamati di quell’infelice stagione storica “si rivelano […] «mezze tacche» e arruolano figure consimili”. E, conoscitore non superficiale della vicenda italica, ricorda che “il fascismo invece seppe arruolare [...] il fior fiore del ceto intellettuale e accademico d’Italia”, per concluderne che “da questo angolo visuale, davvero il fascismo è finito. E la sua caricatura non fa neanche ridere” (pp. 10-11) [11]. Ma sa bene che il Proteo novecentesco “in virtù delle successive sue metamorfosi, non è uscito di scena […] e per ora difficilmente scomparirà” (p. 78). In forma ragionata e argomentante la sua analisi evoca l’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 26 marzo 2007, dal Nobel José Saramago, che sentenziava: “Io credo che ci sia la possibilità che il fascismo stia aspettando di tornare in Europa. Non verrà con le camicie nere, né brune né cose simili […] Ma il fascismo non si nasconde più. È lì, è uscito in strada, è arrivato anche sui media. E può succedere che ci troviamo in una situazione politica prefascista senza rendercene conto. E che improvvisamente il fascismo arrivi a governare [corsivo mio, NdR] E noi continuiamo a non rendercene conto. Perché la facciata si mantiene. E la facciata è l’illusione democratica”.
Note:
[1] La nave di Teseo, Milano 2018. Si tratta del frutto di una conferenza tenuta davanti agli studenti della Columbia University 25 aprile 1995 in seguito all’attentato di un suprematista bianco ad Oklahoma City, che portò alla morte di 180 persone.
[2] Si veda, in tal senso, la magistrale e calibratissima lettura del Mario Monicelli di “Vogliamo i colonnelli” (1973).
[3] È il caso, ma si tratta solo di un esempio tra gli altri, dello storico Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice, cfr. Chi è fascista, Roma-Bari, Laterza, 2019. “Non credo che abbia alcun senso,né storico, né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo”, pag. 3. Inoltre, prosegue Gentile, “la tesi dell’eterno ritorno del fascismo si basa sull’uso di analogie, che solitamente producono falsificazioni nella conoscenza storica”, pag. 6.
[4] In Fascismi. Passato, presente, futuro, Milano, Tropea, 2008 (ed. or. 1996).
[5] “… dopo un secolo, questi potenti impulsi sussistono, ma lo scenario circostante è cambiato”, ivi, pag. 18.
[6] V. Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, Pistoia, 1975. V. anche l’uso del termine nelle opere di Mario Isnenghi.
[7] Non si può, in tal senso, non accennare alla costellazione ideologica nordamericana a cavallo tra XIX e XX secolo (si pensi a Lothrop Stoddard) accuratamente esaminata nella solida riflessione di Domenico Losurdo. Cfr. Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana , Roma-Bari, Laterza, 2007.
[8] Solo a titolo d’esempio, si veda Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005.
[9] “Il fascismo risorto come neofascismo alla fine del 1946 «profeticamente» annunciò: «Torneremo”», ivi.
[10] “Sta di fatto che per un tempo non breve il fascismo italiano divenne modello per movimenti e partiti e correnti di opinione pubblica in tutto l’Occidente (specie in USA), sposandosi però anche con il nazionalismo «anticolonialista» (cioè anti-britannico e anti-francese) in Medio Oriente, in Nord Africa e pesino in India” (pag. 29).