Miseria della (a)critica: i Nastri d'argento

I risultati dei Nastri d’argento rappresentano soltanto la più recente puntata della serie “che vinca il peggiore”, particolarmente seguita in Italia


Miseria della (a)critica: i Nastri d'argento Credits: https://www.insidemusic.it/il-traditore-di-marco-bellocchio/

I Nastri d'argento, giunti alla loro 74ª edizione, sono insieme ai David di Donatello il premio cinematografico italiano di maggior prestigio, assegnato dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani. Essi premiano i film usciti in sala nei giorni seguenti al Festival di Cannes, ossia entro fine maggio, quando vengono annunciate le “cinquine” finaliste. Il traditore di Marco Bellocchio (2019) ha fatto incetta di quasi tutti i premi maggiormente ambiti, ovvero miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio, colonna sonora, premio da protagonista a Pierfrancesco Favino per il suo ritratto di Tommaso Buscetta, ma anche ai non protagonisti, Luigi Lo Cascio e Fabrizio Ferracane.

Premetto subito che, fra i film italiani dell’anno presi in considerazione dai critici cinematografici, mancavano del tutto pellicole che meritassero veramente di essere premiate. Nel senso che è stato certamente uno degli anni più bui per il cinema italiano. Fra le pellicole in lizza come miglior film, il meno peggio è certamente Euforia di Valeria Golino, fra i pochissimi a essere valutabili sopra la sufficienza, più per la mancanza dei tipici difetti che generalmente rendono intollerabile il cinema italiano contemporaneo, che per reali meriti. In altri termini si tratta di un film più che sufficiente – non male considerato il resto della produzione italiana, in quanto evita sia il grottesco che il postmoderno (tolta la pessima scena iniziale) e ha spunti realisti all’interno di un impianto generale sostanzialmente naturalistico. Come ho già avuto modo di scrivere fra i candidati ai David per la miglior regia avrebbe meritato, visto il pessimo livello degli altri, il primo posto, mentre come miglior film sempre tra i candidati ai David, lo ho valuto secondo dopo Sulla mia pelle. Tenendo presenti tutti i film usciti nelle sale dal 2018 a oggi lo collocherei fra il settimo e il decimo posto [1]. Mentre considerando quelli usciti nell’anno preso in considerazione dai Nastri d’argento, lo colloco al primo posto ex equo con il sottovalutato Menocchio di Alberto Fasulo (Italia, Romania 2018), che ha ottenuto una sola candidatura nella categoria miglior fotografia, in cui si è affermato Daniele Ciprì con Il primo re e La paranza dei bambini, entrambi pessimi film.

Come nel caso dei David dove si è affermato l’intollerabile Dogman, a vincere il maggior numero e i più importanti premi è stato il peggiore film, o quasi, a riconferma del livello altrettanto scarso dell’attuale critica italiana. Ad esempio dei cinque candidati a miglior film, forse soltanto l’insostenibile remake di Suspiria può considerarsi peggiore. Anche fra i sette candidati a miglior regista soltanto Luca Guadagnino, il più sopravvalutato dei registi emergenti italiani, ha fatto peggio, mentre anche in questo caso la meno peggio è stata Golino sebbene, come è noto, sia un’attrice più che una regista.

Particolarmente imbarazzante è la giustificazione offerta da Laura Delli Colli, che presiede il Sngci (il sindacato giornalisti cinematografici italiani), “il trionfo di Bellocchio – ha sostenuto – ci racconta l’importanza di un film che è riuscito a coniugare il pubblico e il successo internazionale con un contenuto che per noi giornalisti è anche molto forte dal punto di vista del cinema civile. In questo stesso senso la scelta del direttivo e il voto dei cento giornalisti è andata a un film come Sulla mia pelle”. Ora, proprio al contrario, il film di Bellocchio mi appare indegno di qualsivoglia giudizio positivo, in primo luogo proprio perché nell’affrontare un tema decisivo e una questione essenziale – come la storia della malavita organizzata in Italia – proprio al contrario di Sulla mia pelle, non dimostra un minimo di coraggio e di senso civico.

Paradossalmente il film di Bellocchio accredita come punto di vista privilegiato per ricostruire, almeno in parte, la storia della mafia – un po’ come nell’altrettanto vergognosa saga di Coppola sul padrino – il punto di vista ultra particolaristico di un boss di Cosa nostra, che non fa che sottolineare di non essere affatto un pentito o un traditore, ma un vero uomo d’onore e un difensore dell’autentico spirito della mafia, che i corleonesi avrebbero tradito. Per accreditare che Cosa nostra sarebbe stata un’accolita di uomini d’onore, salvo la parentesi in cui finì sotto il dominio dei folli sanguinari al servizio di Riina.

Ancora più imbarazzante è che Buscetta sia l’indubbio protagonista del film, tanto da finire per apparire quasi un eroe, in quanto avrebbe dato un contributo decisivo alla “sconfitta” della malavita organizzata. Tale scelta sconsiderata, che porta il pubblico a impersonarsi nel punto di vista di questo sanguinario criminale, è anche dovuta all’altrettanto sciagurata completa immedesimazione con il proprio personaggio da parte dell’attuale “divo” del cinema italiano Favino, che sembra far di tutto, con la complicità del regista, per non far assumere allo spettatore un’adeguata comprensione critica di una vicenda così centrale nella storia del nostro paese. In altri termini, nella rappresentazione del celebre boss mafioso – talmente disumano da abbandonare al suo tragico destino lo stesso figlio vittima del traffico di droga, da lui cogestito – manca del tutto sia da parte del regista che dell’attore l’effetto di straniamento, quanto mai indispensabile in un caso del genere.

Proprio dal punto di vista “dell’impegno civile”, ovvero del film di denuncia, Il traditore rappresenta quindi uno spaventoso e imperdonabile arretramento rispetto all’ultimo significativo e coraggioso film autenticamente di denuncia su questa decisiva questione, ovvero La trattativa Stato mafia di Sabina Guzzanti. Per non parlare degli ottimi e davvero coraggiosi documentari presentati nella trasmissione Lucarelli Racconta; Il Segreto Di Paolo Borsellino e La trattativa tra Stato e mafia. Non solo perché a differenza del film di Bellocchio si parla tanto nel film che nei documentari di fatti di stringente attualità, di inaudita gravità sconosciuti alla grandissima parte del pubblico, ma perché si indagano in profondità le cause della permanente forza della malavita organizzata, ovvero la cause politiche, anche se anche in questi casi rimangono un po’ in ombra le fondamentali cause strutturali, ovvero sociali ed economiche. Al contrario il film di Bellocchio rimane completamente prigioniero degli aspetti superficiali del fenomeno mafioso, limitandosi a narrare, essenzialmente dal punto di vista del protagonista, la del tutto inessenziale “vicenda umana” di Buscetta. In tal modo, nella narrazione di ciò che è veramente importante, ovvero l’enorme potere che ha avuto e tutt’ora mantiene nel nostro paese la malavita organizzata, il film non va al di là un descrizione del tutto superficiale, narrando alcuni effetti senza mai risalire criticamente alle cause. In tal modo si resta al, più o meno consapevole, stesso livello di sostanziale occultamento del problema cui assistiamo quando sentiamo parlare di mafia nei telegiornali.

Tanto è vero che, persino diversi film realizzati anche molti anni fa, che trattano di eventi ben più antichi di quelli affrontati nel modo più superficiale da Il traditore, o persino serie televisive basate su trame di fantasia, risultano molto più attuali, interessanti, significativi, godibili e di denuncia del film di Bellocchio che, per altro, è anche piuttosto noioso. Così, ad esempio, persino la prime due serie televisive de La piovra di Damiano Damiani (1984) e Florestano Vancini (1986), sono decisamente ancora oggi più attuali, avvincenti, profonde e di denuncia del pessimo film di Bellocchio, osannato da una (a)critica ancora più conformista, inetta e senza qualità (compresa quella sedicente comunista).

Allo stesso modo restano incomparabilmente più godibili dal punto di vista estetico e decisamente più interessanti per comprendere alcuni aspetti sostanziali del fenomeno mafioso quelli che possiamo considerare i grandi classici del passato di questo genere come: Un uomo da bruciare di Orsini e i fratelli Taviani, Salvatore Giuliano e La mani sulla città, di Rosi. Nettamente superiori da tutti i punti di vista sono anche i più significativi film italiani sulla malavita organizzata degli anni settanta, come Lucky Luciano e Cadaveri eccellenti ancora di Rosi. Nettamente superiori sotto tutti i punti di vista, rispetto al film di Bellocchio, sono certamente anche i più recenti Placido Rizzotto, I cento passi e Segreti di Stato, imprescindibile per comprendere le dinamiche della madre di tutte le stragi di mafia e di Stato, ovvero quella di Portella della Ginestra.

Infine, decisamente più interessante e utile per comprendere la storia della malavita organizzata è il documentario Gli ultimi padrini - (Storia della mafia in America dal 1800 ad oggi) trasmesso su Rai 3 per il programma La grande storia, Il Caso Sindona nel programma Blu Notte. Infine decisamente più istruttivi e significativi sono gli stessi diversi interventi di Antonio Ingroia, facilmente individuabili sulla rete, o persino quelli su Borsellino e la “trattativa” di Marco Travaglio. In altri termini sul tema vi sono numerosissimi materiali ben più significati e scottanti a cui Bellocchio avrebbe potuto far riferimento, magari aggiungendo quale nuova scoperta. Mancando tutto questo il film può apparire addirittura omertoso nella sua assoluta incapacità di denunciare in modo minimamente significativo una questione essenziale e purtroppo attualissima, come la malavita organizzata. In particolare il film di Bellocchio è da criticare in quanto, in modo presumibilmente inconsapevole, (il che non si sa se è peggio o meglio), finisce essenzialmente per occultare nella narrazione della mafia le decisive connessioni con il mondo politico e socio-economico.

Altrettanto pessimo sarebbe anche la La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi (Italia, Francia 2019) – anch’esso assurdamente sopravvalutato dalla critica e inserito nella cinquina dei candidati a miglior film ai Nastri d’argento – se non fosse un po’ meno noioso e pretenzioso de Il traditore. Ciò non toglie che il film affronti la decisiva questione della malavita organizzata nel modo più banale e al contempo pericoloso, non a caso La paranza dei bambini è basato sulla, al solito, pessima sceneggiatura del nostro “eroe di carta” nazionale. Pur non riuscendo altrettanto intollerabile e pretenzioso di Gomorra, il film di Giovannesi risulta una cronaca estremamente superficiale dell’attuale fenomeno delle baby gang che tendono ad affermarsi nell’anarchia della camorra napoletana. Il film è assolutamente diseducativo, il classico micidiale prodotto dell’industria culturale, in quanto tende a naturalizzare le tragiche vicende del sottoproletariato napoletano. Così facendo le vicende narrate perdono anche il loro aspetto tragico, in quanto vengono rappresentate positivisticamente come il prodotto necessario di un ambiente estremamente degradato. Anzi, al solito, la completa assenza dell’effetto di straniamento porta lo spettatore – soprattutto quello più debole e indifeso, ovvero più giovane e immaturo o semplicemente privo degli strumenti etico-morali e culturali – a impersonarsi nel baby boss protagonista del film, il quale dovrebbe rappresentare una sorta di modello di camorrista amico del popolo.

Note

[1] Certamente superiori a Euforia sono l’inarrivabile Santiago, Italia, unico autentico capolavoro italiano di questo biennio, il miglior film per la televisione Prima che la notte, il coraggioso e già ricordato Sulla mia pelle, Nome di donna di Marco Tullio Giordana, l’ingiustamente dimenticato Ora e sempre riprendiamoci la vita di Silvano Agosti e, forse, anche l’altrettanto ingiustamente sottovalutato Io c'è di Alessandro Aronadio e la migliore serie italiana L’amica geniale di Saverio Costanzo.

03/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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