Lotte di classe nel primo dopoguerra

Dalla crisi economica e politica del primo dopoguerra in Italia, all’impresa di Fiume, al grande sviluppo del sindacato e dei partiti di massa: popolare e socialista


Lotte di classe nel primo dopoguerra Credits: http://imparareconlastoria.blogspot.com/2016/04/82-il-primo-dopoguerra-in-italia-dal.html

La crisi economica e politica del primo dopoguerra in Italia

L’Italia, pur essendo parte della coalizione che ha vinto la Prima guerra mondiale imperialista, attraversa una crisi economica e sociale spaventosa nel primo dopoguerra, dovuta in primo luogo alle distruzioni subite e alla necessità di riconvertire le industrie belliche. La crisi tende a estendersi sul piano politico, in quanto già nei complessi “trattati di pace” l’Italia è considerata dai suoi stessi alleati una potenza di secondo rango e ciò fa sì che raggiunga solo parzialmente gli obiettivi cui il governo liberal-conservatore puntava per essere entrato in guerra con la coalizione poi uscita vincitrice.

Il presidente degli Stati uniti W. Wilson, esponente del partito democratico, dal momento che non può né intende imporre i propri princìpi di autodeterminazione a inglesi e francesi – in quanto la loro espansione era indispensabile affinché tali paesi potessero ripagare con gli interessi gli enormi debiti di guerra contratti con gli Usa – finisce con l’imporli ai più deboli italiani, o meglio al governo liberal-conservatore italiano. Ciò provoca immediatamente la dura reazione della destra nazionalista e sciovinista che grida, attraverso la celebre espressione di Gabriele D’annunzio, alla “vittoria mutilata”, in quanto puntava a espandersi ulteriormente a est ai danni degli slavi e prender parte con gli imperialismi anglo-francesi alla spartizione delle colonie tedesche e dei paesi extra-europei precedentemente assoggettati al disciolto Impero turco ottomano.

Le frustrazioni della destra nazionalista e sciovinista trovano sfogo nella “impresa di Fiume”

Da una parte le masse popolari, in via di rapida politicizzazione in particolare grazie alla spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre, sono sempre più convinte che la guerra sia stata una fonte di spaventose violenze ingiustificate, imposte dalla classe dominante per i suoi sporchi interessi imperialisti e speculativi. D’altra parte le frustrazioni della destra piccolo-borghese e del ceto medio – che dopo essere stati fortemente interventisti erano ora fortemente scontenti per i magri risultati raggiunti, per la crisi economica che tendeva a proletarizzarli e per aver perso il potere ottenuto durante la guerra sui proletari ridotti a soldati semplici – tendono a trovare sfogo nella “impresa di Fiume”, ordita dall’interventista D’Annunzio con la complicità di ampi settori dell’esercito. Fiume era una città a maggioranza italofona, essendo stata a lungo sotto il dominio della Repubblica di Venezia, che si trovava però in una regione a maggioranza slava, la Dalmazia, che era stata perciò assegnata sulla base dei principi di autodeterminazione, che Wilson aveva dovuto riprendere dalla Rivoluzione d’Ottobre, al Regno di Jugoslavia, sorto in seguito al crollo dell’Impero austro-ungarico.

Il debito pubblico e la conseguente inflazione accrescono il disagio dei lavoratori salariati, dei ceti medi e della piccola borghesia

Nel frattempo il debito pubblico, esploso durante la guerra, e ulteriormente ingigantito dalle esigenze della ricostruzione e dalla consueta corruzione legata all’assegnazione degli appalti pubblici ai privati, aveva spinto la classe dirigente, contraria a toccare gli enormi e ingiusti privilegi degli stessi pescecani di guerra con una patrimoniale, ad aumentare l’emissione di carta moneta, senza copertura aurea. Così facendo era aumentata in modo spaventoso l’infrazione, dovuta alla rapida svalutazione della moneta italiana. Si trattava del solito strumento di politica economica volto a scaricare i costi della crisi sui ceti sociali subalterni.

L’inflazione polverizza i risparmi della piccola e media borghesia, riduce il salario al di sotto della stessa soglia di sussistenza e colpisce gli stipendi fissi del ceto medio, sempre più in via di proletarizzazione, e il reddito anch’esso fisso dei pensionati, che perdono rapidamente il precedente potere d’acquisto. Inoltre, come abbiamo visto, i settori destrorsi della piccola e media borghesia, che avevano avuto ruoli dirigenziali e condotto una vita ai loro occhi eroica durante la guerra, si trovano ora radicalmente impoveriti e spesso disoccupati. I miraggi di ricche terre coloniali da conquistare con la Grande guerra si erano totalmente dissolti, dinanzi alla completa incapacità della classe dirigente liberal-conservatrice di far valere le proprie ragioni, essendo quello italiano “un imperialismo da straccioni”, come lo aveva definito acutamente Lenin.

I “pescecani” di guerra

A trarre beneficio dalla guerra era il settore egemone del blocco sociale economicamente dominante, composto principalmente dall’alta borghesia di banchieri, industriali e grandi commercianti che si era spesso enormemente arricchito con i superprofitti della guerra a spese della nazione, prestando o vendendo a caro prezzo, in mancanza di concorrenza straniera, i propri soldi o le proprie merci allo Stato. Diversi grandi commercianti, finanzieri e industriali avevano speculato sulla tragedia della guerra imperialista e si erano enormemente arricchiti, mentre il resto del paese precipitava nella miseria. Costoro erano, perciò, definiti “pescecani di guerra”.

Il forte malcontento dei lavoratori agricoli per la mancata riforma agraria promessa durante la guerra

Per mantenere i lavoratori della terra – i quali costituivano la grande maggioranza della truppa nelle prime linee – al fronte a combattere una guerra che non avevano voluto e di cui non comprendevano l’utilità, la classe dirigente aveva loro promesso, in caso di vittoria, la realizzazione della da sempre agognata riforma agraria, impegno che, terminato il conflitto, era rimasto come di consueto lettera morta. Per cui, mentre settori soprattutto dei braccianti agricoli, che nel corso della guerra hanno acquisito, combattendo fianco a fianco nelle trincee con i più avanzati operai, una certa coscienza di classe e compreso la necessità di lottare uniti e organizzati, tendono a unirsi alle lotte sociali sempre più intense del proletariato urbano e dei piccoli e medi contadini che si battono per delle riforme che migliorino la loro difficile condizione, ulteriormente peggiorata a causa del conflitto. Si viene così a creare, anche per la forte spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre, una situazione potenzialmente rivoluzionaria, essendo ormai in buona parte maturate le condizioni oggettive per la sua riuscita.

Il partito popolare cattolico

In tale drammatica situazione il Vaticano, il più preoccupato dalla prospettiva di una situazione rivoluzionaria, mettendo per la prima volta un limite alle sua aspirazioni universaliste si decide infine a sostenere la formazione di un partito cattolico (1919), che prenderà il nome di partito popolare, sotto la direzione di don Luigi Sturzo. Tale partito mescola la difesa dei valori tradizionalisti cattolici, di natura conservatrice o reazionaria, come la pretesa di controllare la sessualità e l’educazione, con posizioni politico-sociali interclassiste e rivendicazioni economiche a favore dei piccoli e medi proprietari agricoli, per evitare che la maggioranza delle classi intermedie, da sempre legate alla chiesa, in quella situazione di crisi potenzialmente rivoluzionaria potessero rivolgersi ai socialisti, già egemoni sulla maggioranza del proletariato, rendendo difficilmente battibile il movimento rivoluzionario. A ciò i popolari aggiungono rivendicazioni democratiche e populiste che non intendono, demagogicamente, lasciare propagandare ai soli socialisti, come: far pagare le tasse ai ricchi, il sistema di voto democratico, ossia proporzionale, il suffragio universale ampliato alle donne (nella maggior parte dei casi analfabete e, quindi, fortemente soggette agli spesso unici intellettuali di riferimento, ovvero i membri del clero), le autonomie locali.

Il loro obiettivo distopico era di bandire la moderna lotta di classe, restaurando il sistema corporativo medievale. Il partito popolare era infatti, sulla base della dottrina sociale della Chiesa cattolica, interclassista, e mieteva consensi soprattutto tra i contadini, in generale scarsamente alfabetizzati. Seguendo la linea della Rerum novarum, il Partito popolare era in primo luogo antisocialista, ma al contempo manteneva demagogicamente una posizione critica verso la classe dirigente liberale – restia a dividere il potere con il nuovo partito cattolico – che attaccava tanto da destra, quando da sinistra. Il partito era foraggiato dalle potenti banche cattoliche e dagli allora imponenti mezzi di informazione clericale, garantiti dalla capillare presenza di intellettuali cattolici, a partire dai parroci, su tutto il territorio italiano, a differenza del movimento rivoluzionario che era forte a nord, ma ancora scarsamente organizzato al sud.

Il partito socialista

Tuttavia il maggior partito in grado di egemonizzare le masse popolari, decisamente dominate nel proletariato moderno, restava il partito socialista, per arrestare la costante crescita del quale, in particolare dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la grande guerra imperialista, era sorto il primo partito cattolico. Il partito socialista aveva la propria spina dorsale nella classe operaia e, in tal modo, era ampiamente egemone all’interno dell’unico sindacato di massa, la Confederazione generale del lavoro (CGL), in grandissima espansione nel dopoguerra.

Nel 1919, con la radicalizzazione della situazione a livello nazionale e internazionale, prendono saldamente le redini del partito i massimalisti, ovvero coloro che si richiamavano al programma massimo rivoluzionario, guidati da G. M. Serrati che, pur ritendendo al contrario dei riformisti necessaria la rottura rivoluzionaria per il superamento in senso socialista del capitalismo, influenzati dall’ideologia dominante positivista e dal suo determinismo, mantenevano una posizione attendista in attesa che si venissero a produrre le condizioni oggettive necessarie alla riuscita, senza dunque preparare le altrettanto necessarie condizioni soggettive.

D’altra parte, a rendere tali condizioni decisamente più arretrate rispetto alle avanzate condizioni oggettive, vie era il dato di fatto che la maggioranza sindacale e parlamentare era, come di consueto, egemonizzata dai riformisti, allora guidati da F. Turati. Perciò, a sinistra della maggioranza massimalista, si era venuta formando una opposizione su posizioni rivoluzionarie capeggiata da A. Bordiga, alla quale facevano riferimento i redattori del periodico rivoluzionario “L’Ordine Nuovo”, capeggiati da Gramsci, P. Togliatti e U. Terracini. Questi ultimi non si stancavano di criticare l’incoerenza dei massimalisti che, pur proclamandosi a parole rivoluzionari, non facevano nulla per prepararla concretamente, per organizzarne le forze e per dare una direzione consapevole allo spontaneismo proletario che tendeva a radicalizzarsi sempre di più. In particolare gli ordinovisti puntavano, traducendo nel contesto italiano i capisaldi della rivoluzione russa, a sviluppare anche in Italia il principale soggetto rivoluzionario insieme al partito ovvero i consigli (soviet in russo) essenzialmente di fabbrica, non essendo ancora in grado di egemonizzare i lavoratori della terra.

20/05/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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