La crisi del lavoro autonomo

In dieci anni 100 mila negozi in meno secondo una Ricerca di Confcommercio.


La crisi del lavoro autonomo

Premessa: ragionare sulle partite Iva senza preconcetti

Ragionare sulle Partite Iva è difficile senza cadere in alcuni stereotipi. Un'analisi del lavoro autonomo oggi viene demandata alla associazioni di categoria senza essere oggetto di riflessione dentro una lettura di classe dei cambiamenti produttivi e quasi mai indagando i soggetti protagonisti.

Se il Governo di destra ha favorito gli autonomi con il sistema fiscale della tassa piatta, a beneficiarne sono in prevalenza quanti presentano fatturati ragguardevoli che potremmo far rientrare in una classe agiata di produttori. Le piccole partite Iva invece arrancano e non si sono più riprese dalla crisi economica e pandemica degli ultimi anni.

Per anni alcuni analisti hanno criticato il modello produttivo italiano per l'elevato numero delle partite Iva rispetto ad altre nazioni a capitalismo avanzato, gli autonomi sarebbero, in questa ottica, la causa della mancata crescita economica al pari della forte presenza di piccole imprese a discapito di grandi aziende.

Proletarizzazione del ceto autonomo

L'impoverimento e la proletarizzazione di parte del ceto autonomo sono anche conseguenze delle vendite online e della nascita di colossi che recapitano a casa i prodotti acquistati.

Una valutazione oggettiva delle esperienze dei mercati contadini, fuori da ogni retorica, sarebbe necessaria per conoscere meglio reti alternative di acquisto ad appannaggio di ristretti gruppi sociali che paradossalmente possono sostenere le spese di prodotti a Km zero provenienti da coltivazioni autonome e a prezzi decisamente più alti di quanto possiamo acquistare agli ipermercati.

Non saremo tra quanti si sono innamorati nel tempo del lavoro autonomo di ultima generazione o non verremo essere annoverati nelle fila di chi si innamora di qualche categoria autonoma protagonista di lotte corporative anche radicali. 

L'analisi di Confcommercio e le nostre riflessioni

Una recente indagine di Confcommercio (L'analisi di Confcommercio: in Italia -100mila negozi dal 2012 (tag24.it) e il giornale cattolico Avvenire parlano della perdita di 100 mila negozi in un decennio. Solo tra il 2012 e il 2022 sono sparite quasi 100 mila attività di commercio al dettaglio e 16mila imprese di commercio ambulante. Al contempo risultano in espansione alberghi, bar e ristoranti (+10.275) risultato anche della gentrificazione dei centri urbani e di quel fenomeno commerciale definito movida, visto dalla destra sovente come degrado urbano e motivo di ordine pubblico salvo poi favorirne lo sviluppo per ragioni di opportunità economica.

Il commercio vede in calo la presenza di autoctoni e in crescita quella di migranti disposti a orari di lavoro superiori alle 12 ore giornaliere per retribuzioni decisamente basse.

I processi di trasformazione del commercio vedono complessivamente un vistoso calo di occupati, la chiusura di tante attività ma anche spazi per il lavoro autonomo sottopagato ad appannaggio di famiglie migranti.

Qualche considerazione meriterebbe anche il crollo degli ambulanti. La crisi dei mercati tradizionali è percepita come conseguenza delle elevate tassazioni alle quali sarebbe sottoposto il lavoro autonomo salvo poi ricredersi davanti alle sperequazioni, a danno del lavoro dipendente, derivanti dalla applicazione della flat tax.

Forse dovremmo anche ragionare sulla chiusura di tante piccole aziende produttrici di vestiti, scarpe e oggetti vari che un tempo rappresentavano il made in Italy. Il mercato del lusso ha soppiantato quello destinato alle classi popolari ed è anche il risultato delle delocalizzazioni produttive verso paesi nei quali il costo della manodopera è assai contenuto, oltre che l'esito indotto dal consistente trasferimento di ricchezza dai bassi agli alti redditi. E il mercato del lusso oggi è in crisi proprio a causa della guerra in Ucraina...

In vistoso calo risultano i negozi di beni tradizionali, come quelli di libri e giocattoli (-31,5%). Pensiamo che il Pil prodotto dall'industria militare, stando ai dati di Giorgio Beretta, equivale a quello dell'industria dei giochi. Eppure il primo beneficia di sponsors politici influenti e viene giudicato vitale per l'economia italiana. Quanto poi alle librerie il ragionamento investe il numero dei lettori che in Italia è da anni in caduta libera. Si legge sempre meno, chiudono le edicole e le piccole librerie non riescono a sopravvivere. Facendo la spesa in un supermercato puoi acquistare qualche libro salvo poi scoprire che i titoli disponibili sono assai limitati (non ti lamentare poi se ti imbatti in pile dei libri di Bruno Vespa) e, a causa dell'estrema concentrazione del comparto dell'editoria, la libertà di scelta è ridotta ai minimi termini o piuttosto non esiste vincolando la scelta a pochi testi e quasi mai utili a comprendere i processi di trasformazione (dietro alle logiche di mercato esiste anche l'omologazione al pensiero unico).

 Alcune grandi catene librarie notoriamente di sinistra hanno favorito questi processi. Già 25 anni anni fa misuravano il numero dei dipendenti in base al fatturato o intraprendevano mortificanti campagne di pubblicità che mettevano sullo stesso piano, secondo logiche tipicamente di mercato, la vendita di un libro con quella di qualsiasi altro prodotto.

L'avvento di colossi e multinazionali ha determinato la crisi dei negozi di mobili e ferramenta (-30,5%) e dell'abbigliamento (-21,8%). La privatizzazione della sanità ha invece favorito lo sviluppo delle farmacie (+12,6%). La gentrificazione delle città sopra menzionata ha determinato l'aumento delle attività di alloggio (+43,3%) e di ristorazione (+4%).

In dieci anni sono così scomparsi 100 mila negozi e la densità degli stessi in rapporto alla popolazione è passata da 9 a 7,3 negozi per mille abitanti, in percentuale quasi il 20% in meno.

Un aspetto dirimente per comprendere la crisi dei lavoro autonomo riguarda le vendite online passate da 16,6 miliardi nel 2015 a 48,1 miliardi nel 2022. Questo sistema ha anche ripercussioni negative sul piano occupazionale anche se crescono i fattorini alle dipendenze di colossi della distribuzione e in generale il settore della logistica dentro cui si registrano gli ormai noti sistemi di sfruttamento della forza lavoro con i famigerati algoritmi a dettare i tempi all'insegna della massima ottimizzazione della prestazione lavorativa.

La crisi del settore autonomo è quindi comprensibile se la analizziamo dentro i cambiamenti produttivi e sociali avvenuti negli ultimi 25 anni; una crisi che dovrebbe essere di aiuto a cogliere anche la complessità dei processi di ristrutturazione capitalistica che poi hanno ripercussioni anche sulla stessa composizione di classe, sull'organizzazione del lavoro che ridimensiona i settori autonomi a vantaggio di quelli subordinati, sulle partite Iva fittizie e infine sull'avvento di nuove filiere dello sfruttamento. E sullo sfondo di queste valutazioni dovremmo anche guardare ai processi di gentrificazione e alle ripercussioni sui processi di trasformazione delle città.

10/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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