Internazionalismo proletario

Occorre fare, in piena autonomia dall’ideologia dominante, un bilancio critico della secolare esperienza storica di transizione al socialismo, portando fino in fondo l’indispensabile autocritica, ma senza cadere nell’odiosa pratica, oggi così diffusa, dell’autofobia con conseguente incapacità di riconoscersi nella propria storia.


Internazionalismo proletario

Per quanto la realtà sia sempre il prodotto della compenetrazione fra l’elemento oggettivo e l’elemento soggettivo, è certamente utile – per analizzarla – comprendere nel proprio specifico questi due determinanti aspetti dell’intero. Dal punto di vista oggettivo la situazione appare quanto mai favorevole per le forze rivoluzionarie. Il capitalismo, da oltre cinquant’anni, vive la sua più lunga e ampia crisi strutturale di sovrapproduzione. Tutti i paesi a capitalismo maturo sono da anni in crisi. Anzi, negli ultimi anni, il mondo intero sarebbe in recessione senza lo spettacolare sviluppo di un grande paese guidato dal Partito Comunista, ovvero la Repubblica Popolare Cinese. Sviluppatasi dapprima a livello strutturale, la crisi del modo capitalistico di produzione dominante si è espansa e largamente diffusa nell’ambito delle sovrastrutture in un po’ tutte le loro molteplici determinazioni. Dunque, se per essere all’ordine del giorno il suo superamento un modo di produzione deve aver dato, grosso modo, tutto quanto aveva da offrire allo sviluppo e all’emancipazione del genere umano, si direbbe che l’umanità è oggi dinanzi a un bivio decisivo, o si svilupperà in senso socialista o si andrà sempre più accentuando una crisi generalizzata della civiltà umana. Se la transizione al socialismo non si affermerà sfruttando la vantaggiosa contingenza storica, rischieremo di assistere al progressivo andare a fondo delle classi in lotta che aprirà la strada a ogni sorta di deriva, dal cesarismo regressivo alle nuove forme assunte dai fascismi e dal populismo demagogico conservatore e reazionario.

D’altra parte, le condizioni altrettanto necessarie della soggettività rivoluzionaria sono arretratissime, tante da aver raggiunto forse il loro livello più basso. I comunisti sono sempre di meno al livello internazionale, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato – in cui vi sarebbero le condizioni oggettive necessarie alla transizione al socialismo. Inoltre, i comunisti sono sempre più divisi, non solo permangono le storiche contrapposizioni vecchie di quasi un secolo, ma se ne creano sempre di nuove anche all’interno delle diverse tendenze. Infine, i comunisti sono sempre meno capaci di avere l’egemonia sul proletariato e persino sugli studenti. Tanto che nei paesi in cui vi sarebbero le migliori condizioni di sviluppo in senso socialista, i comunisti sono generalmente considerati un residuo di un passato, sostanzialmente distopico. In effetti, sebbene le contraddizioni del modo di produzione capitalistico maturo siano più o meno sotto gli occhi di tutti, manca completamente la fiducia in un suo rivoluzionamento in senso socialista. Anche perché l’ideologia dominante e l’autofobia così diffusa soprattutto nel marxismo occidentale portano a considerare con sospetto e forte prevenzione i diversi tentativi compiuti per realizzare una società socialista. Persino i rari paesi in cui – in controtendenza con la situazione internazionale dopo il crollo del 1989-1991 – la sinistra radicale era in crescita, negli ultimi anni la prospettiva dell’alternativa socialista ha perso di credibilità. Dopo la morte di Chavez il socialismo del XXI secolo, che pareva in grado di influenzare l’intera America latina, ha subito una netta battuta d’arresto. Anche in Nepal dove i comunisti sembravano aver conquistato il potere, la situazione non appare particolarmente rosea. In ultimo, anche i paesi ancora governati da partiti comunisti sono sulla difensiva, da tempo non sembrano esserci segnali di un sostanziale avanzamento della transizione al socialismo, sempre più sostituita da forme diverse di capitalismo di Stato. Anche i movimenti guerriglieri, a partire dalle Farc in Colombia, sembrano vivere nel complesso un momento di crisi. Del resto, persino i grandi movimenti di massa – che hanno dato vita negli ultimi anni a significative rivolte – non sono quasi mai stati egemonizzati dai comunisti e, anzi, il più delle volte hanno finito per essere maggiormente influenzati da prospettive conservatrici o addirittura reazionarie. Non è, dunque, un caso che anche nell’immaginario collettivo, nelle opere di fantascienza manca qualsiasi spirito d’utopia e sembra venir meno lo stesso principio di speranza. Nel futuro immaginato – che è sempre caratterizzato dal sostanziale collasso o, comunque, dal discredito del modo di produzione oggi dominante – le alternative proposte indicano quasi esclusivamente nella direzione di un’uscita da destra dalla crisi.

Conditio sine qua non per il recupero di un minimo di credibilità fra gli sfruttati della prospettiva comunista è il superamento dello spirito settario che storicamente si diffonde proprio nelle fasi di maggiore crisi. Non bisognerebbe mai dimenticare da un lato il necessario spirito di scissione nei riguardi delle componenti del socialismo utopistico, del riformismo e della piccola borghesia, dall’altro il deciso abbandono di divisioni storiche del movimento comunista che hanno da tempo perduto la loro ragione d’ssere e che non hanno più nessuna attualità. Non bisognerebbe mai dimenticare come allo spirito di scissione così netto e determinante in Marx ed Engels si sia storicamente accompagnata la tragica lotta condotta da Lenin e Gramsci per mantenere, quale bene più prezioso, l’unità del partito rivoluzionario fondata sul centralismo democratico.

In questa fase di crisi, in cui quasi sempre non si hanno le forze per accettare uno scontro in campo aperto con il nemico di classe – senza scadere nell’infantilismo avventurista – diviene indispensabile attrezzarsi per portare avanti, una volta arginata l’avanzata del nemico e la rotta del fronte comunista, una lunga e dura guerra di logoramento, con il fine di contendere all’ideologia dominante tutte le casematte della società civile. Di qui la necessità di rilanciare a tutto campo la battaglia per le idee, per rilanciare la lotta di classe dal basso anche dal punto di vista ideologico. Per fissare una linea del Piave – indispensabile per riassestare il fronte – non è più rinviabile l’esigenza di metabolizzare la sconfitta storica subita, a partire da una necessaria autocritica. Com’è noto, infatti, solo facendo nuovi errori è possibile imparare sbagliando, mentre perseverare nelle cattive risoluzioni del passato è necessariamente diabolico. Occorre dunque fare – in modo del tutto autonomo dall’ideologia dominante – un bilancio critico della ormai più che secolare esperienza storica di costruzione della transizione al socialismo. In tal senso bisogna portare fino in fondo l’indispensabile autocritica, senza però mai cadere nell’odiosa pratica – purtroppo ai giorni nostri così diffusa – dell’autofobia e della conseguente incapacità di riconoscersi nella propria storia.

In quest’ottica è altrettanto importante fare un bilancio storico, su cui costruire su basi scientifiche l’analisi della fase delle forze antimperialiste. Queste ultime, in quanto tali, vanno comunque supportate dai comunisti, di contro alle posizioni socialimperialiste dei riformisti, passati ormai in via definitiva dal costituire l’ala destra del movimento proletario a rappresentare l’ala più radicale del fronte borghese. D’altra parte non bisogna cadere in nuove messianiche illusioni e in concezioni campiste fuori tempo massimo. Occorre, al contrario, avere ben chiaro che le odierne forze anti-imperialiste – pur svolgendo un ruolo decisivo nell’impedire all’imperialismo di dominare in modo incontrastato sul piano internazionale –ben poco sembrano offrire in positivo alle prospettive di un avanzamento del fronte comunista. Perciò l’asse mai così compatto fra Russia e Cina, resistenza sciita e forze antimperialiste latinoamericane – per quanto importante quale baluardo alle politiche aggressive delle potenze imperialiste – non possono costituire un modello da seguire per le forze rivoluzionarie.

Dall’altra parte, a meno di rinunciare alla decisiva questione della conquista del potere, e alla ragione stessa di essere delle forze comuniste in rottura contro ogni forma di socialimperialismo, occorre mantenere sempre ben viva la necessità fondante del leninismo di considerare il primo nemico da abbattere il proprio imperialismo nazionale, per quanto straccione possa apparire. Immediatamente dopo interviene la necessità di individuare il secondo nemico da abbattere nel polo imperialista di cui il proprio imperialismo è parte integrante. In terzo luogo si tratterà di sconfiggere l’alleanza militare transnazionale imperialista cui prende parte il proprio imperialismo. Non dimenticando che individuare il principale nemico nell’imperialismo antagonista o nel polo imperialista antagonista al proprio è da considerare, seguendo Lenin, la peggiore forma di opportunismo. Ciò nulla toglie alla necessità di individuare, da un punto di vista genuinamente contemplativo, nell’imperialismo statunitense e nei suoi più stretti alleati le potenze imperialiste più aggressive, retrive e pericolose sul piano internazionale.

Allo stesso modo non può essere sottovalutata, anche dal punto di vista internazionalista, la necessaria politica delle alleanze. Da questo punto di vista bisogna assolutamente evitare due eccessi egualmente dannosi. In primis non bisogna sostenere acriticamente ogni lotta e movimento di massa anche quando ha una natura evidentemente reazionaria, controrivoluzionaria e facilmente strumentalizzabile dall’imperialismo. In secondo luogo non si deve nemmeno cadere nell’errore opposto di chi considera l’attività politica come una sorta di grande Risiko! sul piano geopolitico. Perciò al massimo si aspira a fare da portatori d’acqua per chi riesce a contrastare l’imperialismo sul piano globale, rinunciando nei fatti a lavorare per la costruzione della soggettività rivoluzionaria nel proprio contesto. Del resto il genuino internazionalismo proletario consiste, in primo luogo, nella capacità di tenere impegnato nel proprio paese l’imperialismo nazionale, impedendo così che possa continuare a concentrare tutte le sue migliori energie nell’opprimere le forze antimperialiste a livello globale.

Allo stesso modo i comunisti non possono esimersi dal prendere parte – mirando a conquistarne l’egemonia – ai grandi movimenti progressisti che si stanno sviluppando o che potrebbero svilupparsi sul piano globale. Da questo punto di vista non si possono non cogliere le potenzialità anticapitaliste e antimperialiste del movimento che si batte contro la catastrofe ambientale, peraltro così capace di mobilitare le giovani generazioni nei paesi a capitalismo maturo, dove più debole è la soggettività rivoluzionaria. Discorso analogo vale per il grande movimento di emancipazione della donna contro ogni forma di patriarcato e di schiavitù domestica che, peraltro, di per se stesso costituisce un aspetto determinante del conflitto sociale e di classe. Infine non può che essere un significativo campanello d’allarme l’aver lasciato nei paesi del capitalismo occidentale il movimento di lotta contro l’assolutamente deprecabile gestione della pandemia all’egemonia della destra più o meno qualunquista o radicale. A partire dal fulgido esempio della prospettiva zero-Covid offerta dal più grande paese guidato da un Partito comunista, occorre essere in prima fila con uno spirito egemonico nella lotta contro l’uso capitalistico delle pandemie, prodotte da un rapporto sempre più disorganico fra uomo e natura, imposto dal modo di produzione dominante.

04/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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