Lenin e le cinque caratteristiche fondamentali dell’imperialismo

Non si può che constatare come i caratteri fondamentali dell’imperialismo, individuati da Lenin, oggi siano più attuali che mai. Ultimata la spartizione del mondo fra le multinazionali non restano che guerre imperialiste e interimperialiste.


Lenin e le cinque caratteristiche fondamentali dell’imperialismo

Per semplicità e brevità ci limiteremo in questo articolo a dimostrare come i cinque punti della celeberrima definizione leninista delle caratteristiche fondamentali del tardo capitalismo siano oggi più attuali che mai. Quando Lenin le intuisce si trattava di tendenze di sviluppo ancora in nuce, che si sono compiutamente affermate solo ai giorni nostri. Come tutti i grandi intellettuali Lenin non si è, in effetti, limitato a delineare, in modo scientifico, le caratteristiche fondamentali della sua epoca storica, per poterle rivoluzionare, ma ha evidenziato i lineamenti fondamentali del modo di produzione capitalistico divenuto del tutto maturo solo ora.

Innanzitutto Lenin mostra come il capitalismo nella sua fase di sviluppo superiore e/o suprema si sviluppa nel senso del capitale finanziario, in cui i precedenti distinti aspetti del capitale che ne hanno caratterizzato lo sviluppo storico, il capitale commerciale, il capitale monetario delle banche e il capitale produttivo delle industrie, si fondono in delle enormi multinazionali che portano sino alle estreme conseguenze il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale. Tale sintesi si compie sotto l’egemonia dei grandi fondi transnazionali di investimento, per cui l’aspetto speculativo tende, causa la crisi di sovrapproduzione, ad avere il sopravvento su il capitale industriale e produttivo di plusvalore.

Prendiamo ad esempio la Fiat che ha progressivamente inglobato in sé le principali aziende automobilistiche italiane, come la Lancia e l’Alfa romeo. Nel frattempo ha preso il controllo di alcune delle principali aziende commerciali distributive come la Standa. Ciò nonostante le sue dimensioni, per quanto potessero essere divenute sotto diversi aspetti monopolistiche in Italia, non erano ancora sufficienti a competere sul piano internazionale, tanto che si è dovuta fondere con la seconda impresa automobilistica statunitense. Anche tale multinazionale, con l’ulteriore sviluppo del processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali, si è fusa con un’altra multinazionale: la Peugeot. Nel frattempo il capitale prima investito principalmente in capitale produttivo industriale si è progressivamente spostato in una quota destinata con il tempo a divenire sempre più maggioritaria nel settore speculativo. Settore in cui non si produce nuova ricchezza, ma si concentra in sempre meno grandi mani il denaro precedentemente posseduto da tante mani di dimensioni più limitate. Tale concentrazione della proprietà in sempre meno mani private è sempre più in contraddizione con la progressiva socializzazione della produzione con una divisione del lavoro e una distribuzione sempre più internazionali. Ecco perché la determinazione di putrescente del capitalismo maturo, che a molti pur grandi interpreti, anche eccelsi come Losurdo, appariva ormai decisamente datata, è, a ben vedere, più attuale che mai.

Del resto, la concorrenza sempre più spietata, anche quando tende a ridursi nel capitalismo maturo a concorrenza fra trust e monopoli, comporta una inarrestabile, anche se tendenziale, contrazione del tasso del profitto, che produce crisi di sovrapproduzione sempre più ampie ed estese. Per cui la percentuale di capitali sempre più sovraprodotti, che non possono essere più investiti in attività produttive di nuovo valore, dato che le aspettative del saggio del profitto tendono a diminuire al punto che il gioco non vale più la candela, produce un aumento della dimensione degli investimenti speculativi così superiore rispetto ai capitali produttivi su cui scommettono che si formano bolle speculative sempre più mostruosamente dilatate, ma destinate comunque a scoppiare, spazzando via tanto i piccoli quanto i medi risparmiatori/investitori. La percentuale fra capitali investiti in attività produttive, che favoriscono lo sviluppo delle forze produttive, è da tempo inferiore a un decimo di quello investito in attività speculative che sempre più ostacolano lo sviluppo economico a tutti i livelli. In tal modo, la polarizzazione sociale e la concentrazione della ricchezza, in sempre meno mani private, non può che aumentare sempre di più in quanto i grandi fondi di investimento, sempre più transnazionali e giganteschi, non solo possono permettersi uno stuolo di lavoratori sempre più specializzati nel prevedere su cosa e quando scommettere/investire, ma la loro capacità di concentrare spropositate dimensioni delle varie determinazioni del capitale, sempre più finanziario, gli consentono sempre più di produrre profezie che si autoavverano. Ad esempio, i grandi investitori, in grado di avere informazioni sempre più dettagliate e riservate su come andranno le cose, scommettono su qualcosa. Tali massicci investimenti, spesso rivolti ai propri stessi fondi, attirano per gli alti rendimenti sempre più piccoli e medi investitori/risparmiatori. In tal modo la proporzione fra quanto può rendere un certo investimento e i capitali che su esso hanno scommesso diviene così ampia che a un certo punto non potrà che collassare, anche perché coscienti di ciò quando il parco buoi si è riempito a sufficienza, venderanno improvvisamente tutti insieme i loro enormi pacchetti azionari. In tal modo, il prezzo di qualsiasi titolo o asset subisce un repentino tracollo che costringerà i piccoli e medi investitori/risparmiatori a vendere sempre più in perdita. Fino a che il rimbalzo prodotto dall’esplosione della bolla speculativa sarà così avanzato, da spazzare via un numero talmente elevato di piccoli e medi scommettitori, che i grandi sempre più giganteschi potranno, al contrario, riprendere di nuovo a investire a un prezzo addirittura ormai inferiore al valore reale. In tal modo, i titoli degli investimenti non potranno che impennarsi attirando come il miele con le mosche un numero sempre più ampio di medio-piccoli investitori destinati nuovamente a essere decimati a tutto vantaggio dei grandi monopolisti di capitale finanziario, sempre più transnazionale.

Per tutti questi motivi al capitale concorrenziale e liberista delle origini si sostituiscono sempre più i grandi monopoli, cartelli e trust che tendono, progressivamente, ad assumere una dimensione transnazionale. In tal modo, tende sempre più a dileguare anche l’aspetto più progressivo della società capitalista, cioè la capacità che aveva la libera concorrenza di mantenere i prezzi al livello più basso possibile. Allo stesso modo vengono progressivamente meno anche gli aspetti più significativi e libertari della società liberale, sorti nella lotta allora rivoluzionaria contro l’assolutismo. La grande utopia della piena autonomia e indipendenza della società civile e, di conseguenza, l’idea del potere comunque oppressivo dello Stato ridotto ai minimi termini, immaginato come mero guardiano notturno delle ricchezze prodotte durante il giorno da una pluralità di liberi soggetti economici viene meno. Le crescenti contraddizioni del modo di produzione capitalista si accrescono al punto da renderlo sempre meno capace di egemonia, cioè di esercitare la propria direzione sui subalterni con il loro consenso. 

Per meglio difendere i privilegi costituiti la classe dominante ha sempre più bisogno di uno Stato autoritario e di polizia che controlli e imbrigli sempre più le tendenze a non allinearsi della società civile. Persino la fascinosa prospettiva della divisione del potere, che garantisca una funzione di controllo che non può che impedire ogni forma di abuso di potere, tende a dileguare con l’affermarsi, indotta dalla crescente crisi, di forme di bonapartismo sempre più regressivo.

Senza contare che lo Stato, che tende sempre più a indebitarsi, per non far pagare le tasse alla classe dominante, finisce con l’essere sempre più controllato e, quindi, progressivamente eterodiretto dai suoi principali creditori, che non sono altro che i grandi monopolisti transnazionali che prendono sempre più decisamente il controllo della società civile. Ricapitolando, dunque, la società tardo capitalista non può che assumere attitudini sempre più imperialiste e aggressive in politica estera e sempre più cesariste regressive in politica interna.

La crisi di sovrapproduzione è, come chiarisce Lenin dinanzi alla vulgata che tende a interpretarla come crisi da sotto consumo, determinata dal fatto che sempre più capitali sono dissuasi da investimenti produttivi di plusvalore data la tendenziale decrescita del tasso di profitto, unico reale motore della produzione nella società capitalista. Proprio perciò, dal momento che a essere sovra prodotti sono essenzialmente i capitali e solo secondariamente le merci, come sottolinea Lenin contrassegno caratteristico della fase imperialista del capitalismo, è la necessità di esportare all’estero capitali. La militarizzazione delle società diviene sempre più necessaria per imporre all’estero i propri capitali sovraprodotti, per sconfiggere l’inevitabile concorrenza internazionale e per assicurare che i profitti estorti fuori dal proprio paese siano al sicuro. 

Abbiamo così, da un lato le grandi multinazionali che si spartiscono il mercato mondiale, e dall’altro le potenze imperialiste, in cui le multinazionali hanno il loro centro proprietario e direzionale, in contrasto crescente fra loro, in quanto non ci sono più zone del mondo non già occupate su cui estendere il proprio dominio.

L’unico aspetto che è parzialmente cambiato rispetto alle previsioni di Lenin di oltre un secolo fa è la compiuta spartizione del mondo fra grandi potenze imperialiste. Paradossalmente questo cambiamento in meglio c’è stato proprio grazie allo stesso Lenin il quale, attraverso la Rivoluzione di ottobre che ha diretto, ha dato avvio a un eccezionale processo di liberazione dal giogo del colonialismo imperialista.

03/02/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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