Cinquant’anni di impunità per strage di Stato

Prima di Piazza Fontana gli eccidi dei lavoratori erano stati normalizzati nella dinamica delle lotte di classe tollerate dal sistema, dopo lo Stato si assunse in prima persona il ruolo di garante dei profitti, scoraggiando attraverso le stragi ogni possibile rivendicazione.


Cinquant’anni di impunità per strage di Stato

In seguito all’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, dal giorno successivo al 13 maggio 1970, fu elaborata da militanti della sinistra extraparlamentare una controinchiesta che uscì in un libro intitolato La strage di stato, Samonà e Savelli (La Nuova sinistra), Perugia 1970, dedicato a Giuseppe Pinelli, ferroviere e a Ottorino Pesce, magistrato. Alla quarta edizione nel ’70 ne erano state vendute già 60.000 copie. Per chi non c’era e/o non sa, Pinelli, in quanto anarchico, fu “suicidato” dal quarto piano d’una questura milanese intorno alla mezzanotte del 15 dicembre 1969, e Pesce morì d’infarto poco dopo, il 6 gennaio 1970, in seguito al linciaggio della stampa “indipendente” unita all’invito alla prudenza e al tatticismo dei suoi colleghi “progressisti”. Aveva infatti dichiarato pubblicamente che la giustizia italiana è una giustizia di classe, di fronte allo spettacolo della caccia all’anarchico e al maoista, operata dalla sinistra istituzionalizzata di allora.

Intanto, sin dal 3 gennaio 1969 l’Italia era già stata dilaniata da “145 attentati – come si riferisce nel libro citato – dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è per difetto”. La “strategia della tensione” venne così elaborata per mettere a punto un colpo di Stato reazionario da realizzarsi, se necessario, con l’intervento dell’esercito. Dato che non si era in America Latina, non fu necessario. Nonostante la maggior parte di queste bombe fosse stata riconosciuta di marca fascista, fu inventato un capro espiatorio anarchico, Pietro Valpreda, e vennero accusati “i rossi”, chiamati poi “massimalisti impotenti” dagli spalti di un Pci subito pronto a smarcarsi da eventuali sospetti di connivenza. I timori di Confindustria del 21 novembre 1969 erano stati chiari: “il potere operaio tende a sostituirsi al Parlamento ed a stabilire un rapporto diretto col potere esecutivo. Ciò crea un sovvertimento in tutto il sistema politico”. In quei giorni The Economist rivelò che un gruppo di industriali italiani richiedeva un “governo forte”.

Oggi come allora restiamo convinti che la verità sia rivoluzionaria per cui, nel rievocare le stragi senza mandanti in un tempo imperituro, non si intende commemorare ma informare le nuove generazioni che leggi e diritti, benché conquistati a prezzi durissimi, possono svanire d’un colpo al sopraggiungere delle necessità di egemonia e sopravvivenza di questo sistema economico-politico. Il comando sul lavoro, e pertanto il controllo sociale di una gestione politica di classe demandata allo Stato contro lavoratori e masse da sfruttare, se minacciato da una forza montante delle classi subalterne, reagisce unicamente con tutta la violenza di cui sempre predispone.

Al decadere del “consenso democratico” di gran parte della società, il potere di classe dismette la violenza invisibile nei decreti, leggi, persuasioni, distrazioni, consumismi, giochi d’azzardo, ecc. e mette in atto ogni dispositivo terroristico. Colpi di stato e stragismo sono stati la nostra storia, distante ormai mezzo secolo ma sempre pronta a riemergere laddove gli impoveriti in eccesso non dovessero più subire inermi “i sacrifici” o il massacro loro imposto, proprio come accade oggi a curdi e palestinesi, così vicini a noi geograficamente ma così lontani da una coscienza di classe mondiale, lenta a costruirsi come prima insostituibile difesa comune.

Il 12 dicembre 1969 è perciò il ricordo di un lutto. Non personale, ma individuale, in quanto componente di una classe alla quale si appartiene di fatto e per scelta, una classe lavoratrice di cui si è fatta strage sia nei corpi sia nelle sue lotte per l’emancipazione, per una giustizia sociale, che a mezzo secolo di distanza ha ininterrottamente dimostrato di non esistere, di essere impotente ad affacciarsi sulla storia. Questa è sì una data spartiacque, ma anche un momento del processo delle lotte antimperialiste che si svolgevano – e si svolgeranno – a livello mondiale, oltreché italiano.

Il contesto internazionale era caratterizzato dalle lotte dei paesi del cosiddetto “terzo mondo” per l’indipendenza formale, “concessa” o conquistata con le armi. Dall’America del Sud, all’Africa, all’Asia, si lottava contro gli ultimi rantoli di un colonialismo territoriale, che doveva lasciare il posto all’imperialismo postbellico dell’indebitamento degli Stati, del ricatto del credito armato meno visibile e quindi più efficace nella predazione delle risorse umane, energetiche e materiali da possedere. La rivoluzione culturale cinese e la guerra nel Vietnam avevano alimentato non solo la guerriglia latino-americana e africana, le lotte dei neri negli Usa, che dalle istanze per i diritti civili seppero crescere con caratteristiche di classe antimperialistiche e rivoluzionarie, ma anche l’evolversi di spinte pratiche e ideali che si tradussero in rivolte studentesche, a partire dagli Usa (Berkeley 1964 – 1966), sfociate in mobilitazioni contro la guerra vietnamita, simbolo dell’aggressione imperialistica omicida e antiumana.

Il movimento antimperialista in Italia era prevalentemente condotto dalle lotte operaie degli anni ’60 con tanto di eccidi. Ad esempio, nei confronti dei manifestanti contro il congresso fascista di Genova (’60), e degli operai ad Avola (’68) ammazzati a fucilate dalla polizia. Quelle lotte riuscirono però a conseguire, proprio col sangue, l’abolizione delle “gabbie salariali”, nottetempo di fatto ripristinate poi nei nostri giorni “pacificati”, mediante la reconquista dell’assenza di lotte significative. Il movimento studentesco del ‘68, proveniente da una riformata apertura alla scuola di massa – che avrebbe utilmente fornito una forza-lavoro mediamente qualificata e quindi intercambiabile –, fu il veicolo di contraddizioni che condussero a rivendicazioni quali: il diritto di assemblea, una didattica democratica e permanente (seminari, ricerche, esperienze, ecc.), apertura continua di istituti e biblioteche, critica del sapere, diritto allo studio concretizzato da una retribuzione allo studente, ecc. Solo in seguito, essendo mancata una qualsiasi risposta riformatrice sostituita invece da un’immediata repressione giudiziaria, gli obiettivi studenteschi si radicalizzarono cercando l’alleanza con una classe lavoratrice di cui si condivideva la combattività, per contenuti ritenuti comuni in un prossimo sbocco lavorativo.

La crisi di fiducia sulla natura delle società “socialiste”, come pure sulla “via italiana al socialismo” il cui fallimento era diventato evidente, portarono alcune frange studentesche a individuare negli obiettivi operai tradizionali, e anche legati alla cosiddetta modernizzazione, temi rivendicativi che diventeranno decisivi nelle lotte operaie e comuni: contro il cottimo o il taglio dei tempi, contro le gerarchie professionali funzionali alla coercizione lavorativa o inadeguate al ruolo ricoperto, per l’autorganizzazione operaia nel resistere ai meccanismi di sfruttamento. La lotta si estese su tutto il piano sociale, investendo lo stesso sviluppo economico nei suoi aspetti collegati di formazione e poi uso di una forza-lavoro separata solo dai tempi della crescita umana.

L’anno ’68 fu un anno denso di manifestazioni e lotte sia antimperialiste, a fianco del Vietnam invaso, sia di classe. In Europa le più rilevanti furono il “maggio francese”, duramente represso in quanto vide l’unità di studenti e lavoratori delle fabbriche, e l’“autunno caldo” del ’69 in Italia. Qui il movimento operaio paralizzò il paese, ma la sua direzione politica e sindacale non consentì un’affermazione in termini di presa del potere, nonostante le decisive linee rivendicative: a) riduzione dell’orario di lavoro; b) aumenti salariali uguali per tutti; c) parità normativa per operai e impiegati; d) sindacati unitari dal basso nei consigli di fabbrica. Da Torino a Napoli si chiedeva il rinnovo del contratto di lavoro per 6 milioni di lavoratori metalmeccanici, chimici, edili che ponevano l’alternativa tra contratto o Natale in piazza, contratto o rivoluzione, richiedevano a tutti di resistere 1 minuto in più dei padroni per ottenere 40 ore lavorative subito, per decidere del proprio avvenire.

Il movimento degli studenti si saldò solo parzialmente al movimento operaio. La repressione giudiziaria e poliziesca era stata affiancata dall’immancabile squadrismo fascista che aveva condotto alla morte del socialista Paolo Rossi alla Sapienza di Roma nel ’66, subito seguita dall’occupazione dell’università. “Tremila studenti riuniti in assemblea e 51 docenti titolari di cattedra denunciano in una lettera inviata al presidente della Repubblica «la situazione di violenza e illegalità che regna nella città universitaria dove un’infima minoranza di teppisti che hanno fatto propri i simboli del nazismo, del fascismo, delle SS e dei campi di sterminio possono impunemente aggredire studenti e professori che non condividono metodi e idee appartenenti al più vergognoso passato e condannati dalle leggi di tutti i paesi civili»” [1].

Gli attacchi fascisti [2], guidati dai parlamentari Caradonna e Delfino del MSI, continuarono sotto la gestione di Almirante, in quanto uso di una manovalanza di picchiatori e terroristi inserita nei contatti internazionali quali l’OAS, Internazionale Nera inglese, fascisti spagnoli, tedeschi, austriaci. Per citare un solo episodio, a Napoli nell’ottobre 1969 furono fatte esplodere bombe fasciste contro un corteo di 10.000 studenti medi.

Il movimento operaio italiano aveva sì solidarizzato con gli universitari in lotta, ma scese in piazza con obiettivi propri, forti di una connotazione anticapitalistica che avrebbe potuto scuotere il monopolio di classe del conflitto sociale. La manifestazione a Roma dei metalmeccanici il 28 novembre 1969 mostrò una capacità sindacale unitaria che fu ricordata come la prima manifestazione sindacale di massa dal dopoguerra: 100.000 lavoratori giunti da ogni parte d’Italia con treni, pullman e altro, con un servizio d’ordine che impedì ogni incidente, formarono un corteo di 6 km per le vie romane in un frastuono di tamburi, fischietti e ogni sorta di altri strumenti sonori, per dimostrare una maturità e compattezza di classe in grado di conquistare insieme alla visibilità sociale il diritto alla gestione piena della propria vita, cioè della cosa pubblica. Fu l’ultimo atto in Italia della bilateralità delle lotte di classe degli anni ’60. Due settimane dopo, il 12 dicembre 1969 la strage di Piazza Fontana a Milano fu la risposta padronale, imbastita con servizi segreti nazionali e internazionali del più coerente liberismo economico convenientemente saldato alle frange fasciste eversive, che nel suolo patrio avevano preso il nome di “Piano di Rinascita Democratica”, o semplicemente P2.

Quella data fu lo spartiacque, si è detto: prima gli eccidi di lavoratori erano stati normalizzati nella dinamica di lotte di classe in qualche modo tollerate dal sistema; dopo lo Stato si assunse in prima persona il ruolo di garante della giustizia dei profitti, scoraggiando attraverso le stragi ogni possibile rivendicazione salariale e normativa. Le stragi continuarono a Gioia Tauro, “treno del sole” (22.07.1970); a Brescia, piazza della Loggia (28.05.1974); a San Benedetto Val di Sambro, treno “Italicus” (04.08.1974); a Bologna, stazione (02.08.1980); a Galleria del Vernio, rapido 904: fu il massimo eccidio con 144 morti (24.12.1984). I mandanti reali del terrorismo nero padronale – allora individuati per lo più solo dai pochi in possesso di analisi politica marxista – non possono mai incappare nelle maglie di una giustizia da loro controllata e imposta. Dunque non si conoscono sul piano giudiziario e politico, non sono imputabili. Il loro scudo penale non c’è governo che possa rimuoverlo, è inscritto in quella proprietà privata non ancora deposta.

Quella data fu la tappa di un processo, si è detto: le lotte di classe devono sempre misurarsi sulla crisi di sovrapproduzione del capitale mondiale. Quelle degli anni ’60, dopo il cosiddetto boom industriale, furono costrette dalla disoccupazione montante, dall’aumento dell’impoverimento, dalla necessità di non dover emigrare per vivere, ecc., in una parola difensive. Quando però le contraddizioni irrisolte generate dal sistema si sommarono creando una convergenza politica di strati sociali differenti, per il quadro suesposto, fecero emergere la possibilità di affermare una forza rivendicativa che, dalla subalternità, sarebbe stata capace di conseguire obiettivi di potere. Quella forza andava stroncata col massimo della brutalità. La borghesia vincente fece seguire alla controffensiva militare quella legislativa (leggi speciali penali) e neo-corporativa con l’inglobamento dei sindacati nella concertazione trilaterale con governo e padronato.

L’innovazione tecnologica e la ristrutturazione capitalistica, facilitate dall’avallo da parte sindacale, furono gli strumenti per riscuotere l’aumento della produttività – ovvero l’aumento del lavoro erogato e non pagato, cioè sfruttamento – unitamente all’aumento della disoccupazione e precarizzazione dei salariati, della mobilità, della cassa integrazione, del lavoro nero, al trasferimento di reddito dai salari ai profitti, al trasferimento dei mezzi di produzione dal capitalismo di stato a quello privato, al blocco della spesa pubblica destinata a servizi sociali quali scuola, sanità, trasporti, previdenza, ecc. La neocorporazione fu la continuazione politico-economica delle bombe [3].

Sebbene siano mutate persone e nomi delle organizzazioni degli anni ’60-‘70, oggi, nel quadro imperialistico globale incapace di risolvere la crisi endemica di accumulazione di plusvalore, sono di nuovo tra noi gli stessi segni, peraltro palesati e ingigantiti, di una presenza politica internazionale pronta a riproporre tendenze autoritarie provenienti da quel passato nazifascista, che le sole illuminate parole o la passività dei governi e di masse disorientate non possono certo fermare. Rammentare quel tragico ’69 dunque, serve principalmente a imparare in questo nostro tempo a non intraprendere più quella che fu l’immediata strada spontaneista e difensiva, resa minoritaria anche per la latitanza deliberata delle istituzioni e delle forze politiche dell’“arco costituzionale”, ma a costruire una documentata e diffusa coscienza di classe, quanto più ampia possibile ovunque.

Questo sistema sta mostrando tutta la sua distruttività, forse irreversibile, sia sociale che per le risorse naturali del pianeta. Le sue crisi vengono rovesciate su popolazioni che riescono a vivere solo se producono plusvalore o consumano reddito per realizzarlo ad esclusivo vantaggio dei profitti privati. La sottrazione sociale della ricchezza prodotta e di quella futura può continuare con le armi di sempre della borghesia dominante: disoccupazione, legislazioni che vanificano i diritti sociali sostituiti da quelli solo civili, protezione della corruzione e delle mafie istituzionalizzate, protezione della mega-evasione fiscale, terrorismo, disgregazioni di Stati, guerre per interposta persona, migrazioni forzate di popolazioni, distruzione di equilibri geotermici, inquinamento e devastazione delle risorse naturali, cinismo e indifferenza per la salute umana, ecc. Legalità e illegalità sono utilizzate e dismesse a seconda delle fasi di crescita o crisi del capitale transnazionale.

Interna a questa realtà, sia storica sia tuttora presente, sussiste però la conflittualità reale che nessun artificio, per potente che sia, può dissolvere. Qualunque espediente dei nostri ultimi tempi, escogitato per convincere dell’“armonizzazione” sociale, quale “partecipazione, concertazione, relazioni industriali, volontariato, pacifismo, ecc.” può certo distogliere le coscienze, ma non può rimuovere la realtà. E questa realtà la vediamo tutti ancora di fronte alla continuazione delle manifestazioni – ora anche per le differenze (accidentali, non necessità conflittuali) nei diritti civili in vista di un mutamento di mentalità retriva –, e lotte politico-sindacali contro la disgregazione del tessuto sociale, necessario alla divisione delle forze combattive delle popolazioni. Nel momento attuale in Italia spiccano le agitazioni nell’ex Ilva di Taranto (dove la continuità della produzione conta più della salute degli abitanti) e alla Whirlpool di Napoli, in un paese abbandonato allo sfascio quale risparmio di costi, in cui le componenti mafiose e corrotte fanno parte di governi compiacenti o costretti a sostenerle. Colpi di stato in America Latina, guerre in Medio Oriente, guerre commerciali, migrazioni di popoli in fuga dalla morte, ecc. sono ancora la quotidianità di un contesto internazionale che stride con la dissimulazione dell’antagonismo immanente al sistema mediante l’ideologia interclassista o il “pacifismo fondamentalista” (non la lotta per la pace!). Ma la percezione di tutto ciò non è sufficiente, la comprensione scientifica della relazionalità sociale è l’unico strumento teorico in grado di indirizzare le lotte, all’interno della oggettiva contraddizione di classe da cui il sistema di capitale non può fuoriuscire, e in cui soltanto è vulnerabile.

La nostra vita individuale non coincide con i tempi della storia, molto più lunghi e imprevedibili. Il nostro compito di comunisti – che sanno di dover prescindere dal proprio arco di vita – è capire e far capire, quindi, togliere credito a chi esorcizza la necessità delle lotte comuni, antepone la casualità dei differenti conflitti, discetta sull’obsolescenza del marxismo, disperde consapevolezza. Ostracizzato in quanto unica teoria degli antagonismi materiali e della pratica delle lotte, il marxismo è stato dichiarato in crisi sin dalla prima pubblicazione del Capitale, perché disvelamento dei meccanismi di sfruttamento e impoverimento umano. Continuare a lottare sapendo che il nostro nemico non è quel partito, quel politico, quell’imprenditore, quell’ideologo o sociologo asservito, ecc., o invece tutti quanti insieme, ma è soprattutto il funzionamento contraddittorio di questo modo di produzione, significa saper resistere alla violenza di tutti gli agenti, coscienti o meno, solo diaframma del capitale. Risposte alle vite sacrificate di sempre possono venire solo nel continuare a lottare anche per loro.

Note:

[1] La strage di stato, La nuova sinistra Samonà e Savelli, 1970, Perugia, p.54-55.

[2] La strage di stato: «La centrale dei finanziamenti USA al neofascismo italiano è la Continental Illinois Bank di Cicero, Illinois, che concentra enormi capitali provenienti in massima parte dall’industria bellica americana. La Continental (come anche la Gulf and Western che amministra il capitale della mafia americana Cosa Nostra) fornisce la copertura finanziaria alla italiana Banca Privata Finanziaria, della quale si serve Michele Sindona per la gigantesca operazione di trasferimento di medie industrie italiane sotto il controllo del capitale americano, che è iniziata verso il 1968. La Continental, inoltre, è una delle maggiori consociate dell’industriale Carlo Pesenti e dell’Istituto per le Opere di Religione, la centrale della finanza vaticana il cui nuovo responsabile è monsignor Paul Marcinkus, originario di Cicero…..Altri soldi americani arrivano ai fascisti italiani dalla CIA che si serve per questo del “canale greco”…Restano poi i finanziamenti nazionali….Tra le fonti dei finanziamenti minori c’è l’Associazione per l’Amicizia Italo-Tedesca…» p. 115-116.

[3] Molti dei riferimenti storici e analitici sono dovuti a Gianfranco Ciabatti in la Contraddizione, n. 5, febbraio-marzo 1988.

15/12/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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