Gramsci, il sindacato e i Consigli

Da “l’Ordine Nuovo” riflessioni di grande attualità per comprendere il rapporto fra sindacato e Consigli.


Gramsci, il sindacato e i Consigli Credits: http://www.mirafiori-accordielotte.org/rappresentanza/commissioni-interne/

Il 26 e 27 maggio si terrà a Napoli il secondo incontro nazionale di Potere al Popolo dopo le elezioni del 4 marzo. Tra i temi in discussione durante la prima giornata vi è quello dell’organizzazione del conflitto. A tal proposito potrebbero essere utili alcune riflessioni riguardo il rapporto tra due forme di organizzazione del conflitto sui luoghi di lavoro: il sindacato ed i consigli.

Secondo Gramsci il “Sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato” [1]. Dunque il sindacato non ha una natura rivoluzionaria, ma è funzionale a vendere, all’interno della società capitalistica, al prezzo più alto la forza-lavoro, fermo restando che il prezzo di quest’ultima può oscillare entro i limiti più o meno rigidi del suo valore, ovvero l’equivalente al necessario, in una data società storica, per riprodursi come “merce-lavoro”, per utilizzare la terminologia gramsciana. Paradossalmente un’azione troppo efficace del sindacato in una data azienda rischierebbe addirittura di essere controproducente, in quanto se il prezzo della forza-lavoro eccede di troppo il suo valore, riducendo con il pluslavoro lo sfruttamento, gli impresari tenderebbero a investire in settori più redditizi i loro capitali.

Certo, quella che abbiamo descritto con Gramsci è la natura oggettiva del sindacato, potremmo dire la sua essenza, la sua ragion d’essere, ma bisogna anche tener presente della formasoggettiva” che assume di volta in volta, a opera dei proletari che lo compongono. Da tale punto di vista, di contro a ogni concezione dottrinaria, Gramsci sostiene che “il Sindacato non è questa o quella definizione del Sindacato: – il Sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell’indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione”. Dunque, e tale concezione ci appare quanto mai attuale, da una parte il sindacato in sé, in quanto tale, non ha una natura rivoluzionaria e, quindi, è infantile lamentare la sua mancanza o gridare al tradimento dei burocrati responsabili di averne travisato la natura. D’altra parte è altrettanto irresponsabile criticare il sindacato in quanto tale e scaricare su ciò che non può che essere, sulla sua natura oggettiva, le eventuali lacune dal punto di vista soggettivo, ossia la mancanza al suo interno di proletari dotati di coscienza di classe e in grado di determinarne la sua concreta forma storica. In altri termini, se non ci si batte in prima persona e non ci si organizza a questo scopo all’interno del sindacato, diviene velleitario denunciarne la deriva neocorporativa che rischia di prendere.

Per quanto riguarda la finalità interna del sindacato, essa consiste nell’abbracciare “una sempre maggiore quantità di effettivi operai”. Se ne deduce che non ha senso mirare a costituire un sedicente “sindacato” di classe, che organizzi unicamente il ristretto numero di proletari dotati di una salda coscienza di classe, separandoli dalla massa che tende – necessariamente – a essere più o meno influenzata dall’ideologia dominante, ovvero a essere egemonizzata della classe dominante. Altrettanto contrario al fine del sindacato è ridurlo a un’organizzazione in cui gli operai finiscono per essere una minoranza, per cui dirimenti divengono ad esempio, nell’approvazione della linea sindacale, i pensionati.

Il sindacato inoltre ha come scopo oggettivo, secondo Gramsci, di incorporare “nella disciplina della sua forma una sempre maggiore quantità di effettivi operai”, appare quindi paradossale l’autogiustificazione, sempre più diffusa fra le burocrazie sindacali, per cui sarebbe inutile sostenere parole d’ordine avanzate o forme di lotta effettive, visto che la massa dei lavoratori e persino degli iscritti non sarebbe, soggettivamente, favorevole. Al contrario, per la sua stessa essenza “il Sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè si stacca dalla massa che ha irreggimentato, si pone fuori del gioco dei capricci, delle velleità, delle volubilità che sono proprie delle grandi masse tumultuose”. Niente di più lontano dunque, dallo spontaneismo anarcoide e libertario di chi esalta proprio questi ultimi aspetti, su cui si dovrebbe fondare una forma di autorganizzazione più efficace, della direzione consapevole del Sindacato, che “concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento”.

Inoltre il sindacato ha o sembra avere, almeno per Gramsci, in quanto tale una natura concertativa visto che imponendo la sua disciplina alle masse tumultuose dei propri iscritti “diventa capace a contrarre patti, ad assumere impegni: così esso costringe l’imprenditore ad accettare una legalità nei suoi rapporti con l’operaio, legalità che è condizionata dalla fiducia che l’imprenditore ha nella solvibilità del Sindacato, dalla fiducia che l’imprenditore ha nella capacità del Sindacato di ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi contratti”.

Proprio per questa natura “concertativa” il sindacato non può essere lo strumento unico, né il principale di chi mira a rivoluzionare lo stato di cose esistenti, di chi mira a farla finita con il capitalismo e il lavoro salariato, mediante la socializzazione dei mezzi di produzione e di riproduzione della forza-lavoro. In effetti, per quanto “la legalità industriale” garantita dall’operare del sindacato “ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia” – per cui chi attacca il sindacato in quanto tale, come la forma partito, o la politica e i politici non può che essere, quantomeno in sé, un reazionario – tale “legalità” “non è più che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia”. Dunque più che lamentare la natura concertativa del sindacato, occorre battersi in modo efficace, quindi razionale, per rovesciare i rapporti di forza reali a vantaggio del proletariato.

Tutto ciò non significa deresponsabilizzare e assolvere i funzionari sindacali che tendono a fare di necessità virtù, non considerando “la legalità industriale un compromesso necessario ma non perpetuamente”. Al contrario, essi dovrebbero – e se non lo fanno dovrebbero essere indotti a farlo dalla componente consapevole del sindacato – a rivolgere “tutti i mezzi di cui il Sindacato può disporre per migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia”. In effetti solo “se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato iniziare un’offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo alla sua legge – allora il Sindacato è uno strumento rivoluzionario”. Dunque, solo in quest’ultimo caso, la stessa “disciplina sindacale, pur quando è rivolta a far rispettare dagli operai la legalità industriale, è disciplina rivoluzionaria”. Mancando del tutto tale finalità rivoluzionaria oggi nella grande maggioranza dei funzionari dei sindacati maggiormente rappresentativi è evidente che al massimo ci si limita a far di necessità virtù e a tentare, per altro con mediocri risultati, di mantenere in vita un compromesso che comunque tiene la classe dei lavoratori soggiogata al cappio del lavoro salariato.

Proprio dai limiti obiettivamente intrinseci al sindacato, per i comunisti deriva la necessità di affiancare nel lavoro in essi il lavoro all’interno dei consigli di fabbrica. I rapporti di questi ultimi con i sindacati debbono considerarsi “dal giudizio che si dà sulla natura e il valore della legalità industriale”. Infatti, proprio al contrario della funzione del sindacato, “il Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la classe operaia la fonte del potere industriale”. Dunque, rinunciare al lavoro per la costruzione e lo sviluppo delle strutture consiliari e lavorare unicamente sul piano sindacale significa, nei fatti, rinunciare allo strumento indispensabile per liberarsi dall’alienazione del lavoro salariato, consentendo ai lavoratori di riappropriarsi dei mezzi di produzione, in altri termini significa rinunciare a ciò che costituisce il fondamento della società socialista.

Anzi, per la loro natura, la funzione del sindacato e dei Consigli è antitetica: “il consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il Sindacato, per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra venga mai scatenata”. Dovrebbe, dunque, risultare ovvio, per chi mira a una trasformazione rivoluzionaria del modo di produzione capitalistico quali fra le due strutture debba avere la preminenza. Detto questo non solo sindacato e consigli sono egualmente indispensabili, ma occorre stabilire fra di essi una corretta dialettica, per cui il Sindacato deve evitare che lo spontaneismo del Consiglio lo porti a condurre delle pratiche avventuriste, d’altra parte però, bisogna operare affinché “il carattere rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul Sindacato, sia un reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale”. Nel contesto attuale sono scarsissime le forze che si definiscono comuniste che provano a realizzare questa preziosa dialettica, mentre nella maggior parte dei casi si impegnano unicamente nel fronte sindacale, mentre una minoranza tende a spendersi, altrettanto unilateralmente, per lo spontaneismo consiliare. Abbiamo, nel primo caso, forze oggettivamente riformiste, nel secondo forze, altrettanto obiettivamente, avventuriste. Ciò è inevitabile, in quanto, come osserva acutamente Gramsci: “il Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale: il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il Sindacato, come ufficio responsabile in solido della legalità, tende a universalizzare e perpetuare la legalità”.

Si tratta, in entrambi casi, di cattive universalizzazioni in quanto altrettanto unilaterali, che debbono trovare una sintesi in tanto che opposti. Si deve trattare, però, di una sintesi dialettica, che non annulli le necessarie differenze, in quanto “ogni tentativo di legare con rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può che condurre all’annientamento di entrambi”. Tale dialettica fra queste due polarità opposte è indispensabile per rendere realizzabile l’obiettivo rivoluzionario. In effetti “i rapporti fra Sindacato e Consiglio devono creare la condizione in cui l’uscita dalla legalità, l’offensiva della classe operaia, avvenga nel momento più opportuno per la classe operaia, avvenga quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene indispensabile per vincere durevolmente”. In particolare si deve evitare che, considerando il Consiglio un mero strumento di lotta sindacale, esso finisca sotto il controllo diretto del sindacato. In tal caso, infatti, “il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la Società comunista”.


Note

[1] Le citazioni dell’articolo sono tratte da: Antonio Gramsci, Sindacato e consigli, in “l’Ordine Nuovo” del 15 giugno 1920, ora anche in Bordiga-Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà e Savelli, Roma 1971, in particolare le pp. 79, 80 e 81

19/05/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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